En torno a la “mantuanidad”

Castiglia e Terra padana

Don Miguel de Unamuno, nel suo straordinario saggio “En torno al casticismo”, elabora una teoría socio-poetica sull’anima castigliana. In sostanza, considera che i castigliani, vivendo in una terra povera, quasi arida sono da essa influenzati ed è essa causa del carattere castigliano così duro, privo di fronzoli, essenziale, parco. Il castigliano, non essendo a contatto con una natura verde, lussureggiante, abbondante in frutti della terra e generosa nel fornire all’uomo ciò che serve per vivere decorosamente, in certo modo vive una vita quieta, tranquilla, dal punto di vista materiale.

Questo stato di quiete materiale lo allontana dallo spirito di chi si trova a contatto con una terra avara di doni. Chi abita in un luogo privo di gioie materiali tende a rivolgere il proprio sguardo verso Dio, alla ricerca di ciò che non trova in terra, come sublimazione dei propri desideri. In una terra avara, l’uomo, mancando della seduzione dei frutti terrestri, concentra le proprie aspirazioni in una felicità che non può per forza di cose fare parte del suo mondo terreno e nutre, approfondisce la ricerca della propria identità, privilegiando gli elementi tipici della ricerca interiore, come la spiritualità, la meditazione, il sacrificio e la pratica del dolore.

Il castigliano insomma è in sintonia con Dio, perché vicino a Lui come essere sofferente, povero e non sedotto dalle “nourritures terrestres”.

Dopo la “sbornia”europeista della prima fase della sua parabola filosofica, don Miguel si rende conto che l’Europa non è quel paradiso che sembrava a molti intellettuali della sua epoca (La generazione del ’98). L’Europa è egoismo, nazionalismo becero, materialità, avidità. La Spagna, nella sua povertà, rimane un ridotto di un’umanità spirituale, ricca di valori autentici che sono poi quelli del Cristianesimo.

Doveva però scontrarsi ben presto con quell’anima nera, violenta, arrogante, oscurantista che è poi una delle due Spagne cantate da Antonio Machado (“Hay una España que muere y una España que bosteza” o “Una de las dos Españas ha de helarte el corazón”). Lo proverà sulla propria pelle all’università di Salamanca, attaccato e apostrofato da una delle lugubri figure del franchismo, e cioè il generale Millán Astray.

Francisco Franco e Millán Astray

Il territorio mantovano è quanto di più lontano dalla Castiglia di Unamuno: la nostra terra è un luogo quasi privilegiato. Non abbiamo risorse e materie prime come minerali o petrolio, ma contiamo su una straordinaria qualità e abbondanza di risorse agro-alimentari che ci situano ai vertici mondiali. Da noi c’è acqua in abbondanza, terre che grazie ad imponenti opere di bonifica e redenzione dalle periodiche esondazioni del Po, offrono copiosi ed eccellenti frutti.

Ne deriverebbe, se accettassimo in toto la teoria unamuniana, che i nostri conterranei sono persone lontane dalla profonda religiosità castigliana.

Attualità di Unamuno

Va fatta una premessa: don Miguel scriveva il suo saggio più di cent’anni fa, quando la Spagna era qualcosa di estremamente diverso da quella attuale, così come nello stesso periodo la nostra pianura era tutt’altra cosa rispetto ad ora. La teoria di Unamuno andrebbe allora esaminata da un punto di vista teorico, quasi astratto, non esistendo più, ormai, le condizioni socio-economiche di un secolo fa.

Resterebbe in piedi, comunque, un postulato fondamentale: qualora l’uomo viva in condizioni disagiate, si avvicinerebbe di più a Dio. In condizioni diverse, diciamo mediamente decorose, l’uomo se ne allontanerebbe. Fino a che punto è vero questo?

A che Spagna si rivolgeva Unamuno un secolo fa? A una Spagna ancora poverissima, latifondista, con condizioni miserevoli per quel che riguardava braccianti e poveri contadini privi di tutto e in condizioni di semi-schiavitù. (A tal fine sarebbe interessante rivedere il bel film di Mario Camus LOS SANTOS INOCENTES).

Immagine tratta dal film LOS SANTOS INOCENTES

Era una Spagna ancora dominata da un’élite di grandi proprietari terrieri, una nobiltà decadente, una Chiesa adagiata sulle posizioni del potere e inorridita dalle crescenti correnti di pensiero materialista e socialista. E’ una Spagna che sta perdendo, a fine secolo XIX, le ultime grandi colonie d’oltremare che le assicuravano materie prime e un’emigrazione preziosa verso tali colonie(Cuba, Puerto Rico e le Filippine), in quanto toglieva fasce di miseria sempre più insopportabili e pericolose.

Come eravamo cent’anni fa

Da noi non c’era vera e propria servitù, ma c’era molta povertà. La condizione bracciantile era tra le più disagiate. Duecento giornate di lavoro all’anno erano considerate un traguardo notevole. I salariati vivevano anch’essi in condizioni di precariato, in quanto i contratti con i proprietari erano sottoposti spesso al capriccio dei “padroni”, con conseguenti relazioni sociali squilibrate e umilianti, quando non vessatorie.

Mi riferisco qui, è chiaro, all’economia agricola, dato che nella mia terra era l’unica dimensione sociale esistente. Le industrie erano nell’hinterland milanese e (per quanto riguarda filande e industria tessile) era nel nord della Lombardia. Cremonese e Mantovano erano soprattutto agricoltura.

L’operaio lombardo di una fabbrica era qualcosa di molto diverso dal contadino. Qui, la tradizione, le vecchie abitudini erano la regola, là invece la coscienza sociale della propria classe fa muovere la coscienza sociale generale. Le lotte operaie vengono combattute e spesso aspramente: la tradizione non conta più, conta il presente, la mia condizione attuale. Non ho riferimenti se non le condizioni lavorative che voglio migliorare.

Rassegnazione o rivolta?

Walter Audisio, il celebre e discusso “colonnello Valerio”, scriveva che la lotta partigiana, sotto la sua guida, aveva ottenuto dei risultati importanti nelle città e nelle zone industrializzate dove c’era coscienza sociale e certa disponibilità a passare all’azione. Nelle nostre campagne, invece, Audisio si scontrò con la passività, il fatalismo e la scarsa propensione per la ribellione sociale. In queste zone le cose andavano così perché erano così e basta. Se sono sfruttato dal mio padrone che posso farci? E’ la vita che è così: ci sono da sempre i ricchi, i padroni e la povera gente e bisogna accettarlo, senza tante discussioni; se alzi troppo la testa, prima o poi trovi qualcuno che te la taglia. Era questa la situazione con cui si scontrò Audisio, che alla fine, dopo aver invano cercato di scuotere la nostra gente, se ne tornò deluso a Milano.

Walter Audisio alias “Colonnello Valerio”, comandante partigiano noto per avere eseguito la condanna a morte di Mussolini nell’aprile 1945

Tradizione, rassegnazione, fatalismo. Ho letto personalmente presso l’Archivio di Stato numerosi telegrammi inviati alla prefettura di Mantova da parte di Mussolini in cui ci si compiaceva e, nel contempo, si elogiava il Prefetto per la quasi assenza di lotta partigiana nel territorio di sua competenza.

Ma, allora, che cos’è la “mantovanità”? devo dire che le generalizzazioni non mi sono mai piaciute, anche se spesso sono necessarie per definire certi caratteri relativi a una nazione, a un popolo, a un territorio, a un’etnia. Ad esempio, i tedeschi sono percepiti in un certo modo, così come i greci in un altro, i francesi in un altro ancora.

Quando si parla di italiani, all’estero, e non solo, ci si riferisce soprattutto alla gente del meridione, perché all’estero si trasferiva gran parte dell’emigrazione, per le note cause (miseria, mancanza di lavoro, assenza di infrastrutture ecc.). La gente del nord, specie all’estero, non è percepita come “italiana”. Siamo una sorta di via di mezzo fra mittel-europei e popolazione mediterranea.

Influenze e storia di una terra redenta

Il Mantovano è una terra a parte, una lama larga di un coltellaccio da cucina che affonda nel tessuto molle  che fa da cuscinetto grasso fra Veneto ed Emilia e di queste due regioni, soprattutto la seconda, assimila certi elementi. Soprattutto nel basso mantovano si apprezza la forte influenza emiliana per quanto riguarda la cucina e certe coltivazioni, oltre alla presenza di cognomi di chiara origine emiliana, dovuta agli spostamenti, avvenuti secoli fa, di numerosi coloni richiamati qui per le imponenti opere di bonifica e arginatura. Minori sono le presenze di abitanti di origine veneta, nonostante la vicinanza, a causa della presenza di grandi aree paludose che separavano le nostre regioni, mentre il Po era facilmente attraversabile durante i periodi di magra.

Questi spostamenti avvenivano grazie anche alla scarsa densità di popolazione, dovuta, in parte, alle periodiche inondazioni che impedivano stanziamenti regolari e raccolti sicuri. La progressiva bonifica delle nostre terre e la costruzione di argini, chiaviche e canalizzazione, resero finalmente abitabili il territorio e da allora si formarono nuclei abitativi sempre maggiori.

Una volta completate le maggiori opere di bonifica, le terre redente dall’acqua si rivelarono straordinariamente fertili e iniziò così il periodo del loro sfruttamento. Purtroppo, il retaggio medievale lasciò nelle mani di pochi proprietari vaste zone che restarono semi-incolte. Questi latifondisti non avevano nessuna intenzione di lasciare coltivare le loro terre in modo intensivo. Questo, si sa, non è un fenomeno tipico del nostro territorio. E’ un fenomeno comune in tutt’Italia e altrove.

Bisognava attendere secoli, quasi fino ai giorni nostri, prima di vedere finalmente dei contadini proprietari dei loro campi. Ancora fino alla seconda guerra mondiale, i contadini erano braccianti (senza altra ricchezza che le loro braccia), mezzadri (coltivavano i campi del padrone con il diritto di ottenere la metà del raccolto), i “tersanìn” che avevano diritto solo a una terza parte del raccolto e i salariati che, come ho ricordato, godevano di un contratto annuale stipulato con il padrone e che avevano l’incarico di accudire al bestiame lavori di stalla, mungitura ecc. Un ritratto magistrale della vita di questi salariati e delle loro famiglie è raffigurato nel celebre film di Ermanno Olmi “L’albero degli zoccoli”.

Scena tratta dal film L’ALBERO DEGLI ZOCCOLI di Ermanno Olmi

Ho creduto opportuno accennare a queste poche nozioni storiche per affrontare il tema iniziale e cioè l’atteggiamento della nostra gente nei confronti della vita. Che cosa lega un contadino castigliano a un salariato mantovano?

Non è che Unamuno avesse della gente di Castiglia un’idea romantica e poco legata alla dura realtà quotidiana? In fondo, egli era un intellettuale, lontano dagli stenti quotidiani dei “campesinos”. Lo si vede, nella foto, contemplare la terra di Castiglia, ma come la guarda? Quale può essere il suo atteggiamento, lui, filosofo, grande uomo di cultura e poeta, nei confronti della terra? La sua visione è essenzialmente astratta, filtrata attraverso la sua sensibilità di artista. Ma il contadino castigliano, costretto a spezzarsi la schiena per ottenere i pochi frutti di una terra avara e dura, non ha certo la stessa visione della propria condizione. Soprattutto quando deve dividere con il padrone quel poco che è riuscito ad ottenere, un poco che per il contadino è sopravvivenza mentre per il latifondista è qualcosa di irrilevante. Ancora la Spagna che muore e quella che sbadiglia. Il padrone è il vero dominus che può disporre a suo capriccio delle sue terre, delle sue proprietà e delle condizioni di lavoro dei suoi braccianti (o “jornaleros”).

Cosa resta, alla sera, davanti al focolare e a una mensa poverissima? E’ qualcosa, questa, che accomuna i nostri contadini dei secoli scorsi a quelli di Castiglia (e a tanti altri, sparsi in tutta Europa).

Mi pare di poter dire che la tradizione religiosa, il sentimento cristiano, inculcati per secoli nelle menti delle popolazioni di scarsa o nulla scolarità, abituati alle privazioni e alla povertà vera e cruda, abbia funzionato come deterrente sociale (favorito in ciò dalle classi dominanti) contro eventuali rivolte, che comunque, ad intervalli, scoppiavano, puntualmente soffocate nel sangue.

Ermanno Olmi, regista e intellettuale di formazione cattolica, grande interprete rigoroso e scomodo per l’establishment civile e religioso.

La dottrina cristiana, opportunamente espurgata e sapientemente quanto scorrettamente orientata e il timore dell’autorità, spietata e perennemente sulla stessa posizione dei grandi possidenti, hanno mantenuto per secoli una certa pace sociale a prezzo di immani sacrifici ed ingiustizie.

Fra Olmi e Bertolucci

A tutto questo va aggiunta una precisa linea politica e cioè quella di mantenere le masse nell’ignoranza e, in genere, un atteggiamento paternalistico che scoraggiava grandi investimenti nell’istruzione pubblica, nelle infrastrutture, nell’ammodernamento di strutture che migliorassero le condizioni delle classi meno privilegiate. Ma tutto questo è noto ed è quasi superfluo parlarne.

C’è quindi la consapevolezza che la visione di Unamuno sia essenzialmente idealistica, dato che non si fa menzione alcuna alle condizioni materiali in cui la Castiglia si trova. Ma credo anche di poter dire che Unamuno fosse interessato soprattutto a sviluppare una sua idea filosofica sull’atteggiamento dell’uomo di Castiglia di fronte a Dio e sui motivi per i quali intravedeva in lui un tipo d’uomo diverso rispetto ad altre realtà. Perché non riferirsi all’uomo andaluso o dell’Estremadura? Perché proprio Castiglia? Forse perché, a differenza di altre etnie, vedeva nell’uomo castigliano una nobiltà, una sobrietà, una spiritualità interiore che non riscontrava altrove. Forse il suo uomo ideale era l’hidalgo, esempio dello spagnolo ideale, quell’icona che viene rappresentata dal Quijote, uomo di Castiglia, sanissimo di mente ma pazzo per chi non comprende le ragioni profonde delle sue azioni dettate da una spropositata fiducia nei valori della cavalleria, istituto che rappresenta, ai suoi occhi, il senso della vita vissuta nobilmente.

Scena tratta da NOVECENTO, grande affresco sociale di forte impianto ideologico, di Bernardo Bertolucci.

Tornando a noi, alla realtà padana del secolo scorso, il film di Olmi si contrappone alla visione sociale e socialista di “Novecento” di Bernardo Bertolucci. Si tratta di due visioni diverse ma ugualmente vere. Anche qui ci sono due Italie contrapposte, come si sa, ognuna delle quali altrettanto autentica. Da un lato c’è rassegnazione cristiana, dall’altro rivolta e coscienza delle ingiustizie sociali.

Un’altra scena tratta da NOVECENTO. A sinistra il regista, a destra Gérard Depardieu. A cavallo, Dominique Sanda.

Il socialismo, nell’Ottocento, cominciò a seminare frutti che, in parte, sgretolarono le convinzioni e smossero le coscienze civili di diverse famiglie emiliane (e non solo). Da lì cominciarono a circolare idee sempre più contrarie a quelle tradizionali; cominciarono a formarsi le prime leghe, i primi abbozzi di partiti fondati sull’ideale socialista. Nei miei ricordi, io, nato e cresciuto in una famiglia di stretta osservanza cattolica e legata alla Democrazia Cristiana, venivano guardati con diffidenza i comunisti, considerati malvagi perché atei, bestemmiatori e cattivi. Salvo poi, quando si entrava un po’ più in confidenza con alcuni di loro (avevamo un negozio di alimentari), si tendeva a giustificarli, mantenendo inalterati i sentimenti verso gli altri loro “compagni”.

Unamuno, quando scrive il suo saggio, si trova in una posizione vicina al socialismo radicale, lontano però dagli estremismi teorici e pratici della Rivoluzione d’Ottobre del 1917. In realtà, la sua è una posizione liberale e fondamentalmente borghese, dove trovano posto individualismo ed idee filosofiche come la profonda religiosità, l’ansia di immortalità e un sentimento tragico della vita (dovuta al dubbio se questo corpo morirà e svanirà per sempre).

Antonio Machado, uno dei massimi poeti spagnoli del secolo XX.

Da queste idee nascono le linee guida per la sua visione della Castiglia e dei castigliani, intesi come vera anima della Spagna. Il cuore della Spagna è la Castiglia, per ragioni storiche, culturali e, come si è visto, anche morali. In Catiglia si forgia l’animo spagnolo sobrio, duro, avvezzo alla fatica, profondamente religioso, proprio per essere privato delle seduzioni materiali.

Le nostre terre padane, pur se rigogliose e ricche, erano in certo modo escluse alla gran parte dei loro abitanti. Il sistema socio-economico e politico impediva agli abitanti di avere accesso, se non in piccola parte, alle ricchezze della terra. Si trovavano quindi in una condizione al limite dell’assurdo, quasi tantaliana: avere a portata di mano la soluzione dei problemi economici, grazie alla fertilità della terra, e non potere disporne a causa di elementi esterni.

Che popolazione può uscire da una simile condizione? Essenzialmente di due tipi, come s’è visto: da un lato, ed è la maggioranza, genti costrette a vivere nell’ignoranza e nella miseria, controllate dal potere che incoraggia la pratica religiosa capillare, grazie ad un clero consenziente e ossequioso. Dall’altro una minoranza inquieta, cosciente dell’ingiustizia sociale in cui è costretta a vivere, in perpetuo fermento e malcontento e pronta ad esplodere in rivolte e ribellioni anche violente.

Da queste posizioni quasi opposte, nascono personalità straordinarie, capaci di cambiare la storia del Paese intero, in un senso o nell’altro, appartenenti ad una o all’altra parte sociale.

In sostanza, sempre per riferirmi al titolo, le genti padane dell’inizio del Novecento vivevano una religiosità incoraggiata e quasi imposta che, se da un lato consentiva al potere di contare su un ordine sociale quasi piatto, dall’altro trovavano nella religione e nelle tradizioni un senso alla loro vita, che travalicava le infelici condizioni materiali, favoriva la rassegnazione, ma anche la laboriosità, visto che solo il lavoro duro quotidiano consentiva una certa qual pace sociale, anche se non ancora l’indipendenza piena.

Che cosa siamo?

Ma, tornando “à nos moutons”, che cos’è in fin dei conti questa mantovanità? Ai giorni nostri, è qualcosa di indefinibile, tanto vago è il termine. E poi, di chi parliamo? Del mantovano cittadino o del mantovano della provincia? Ancora, ci riferiamo all’alto mantovano o al basso mantovano? Non è possibile distinguere ed identificare con precisione i caratteri relativi alle popolazioni delle zone menzionate. Tuttavia, non mi sembra di dire una castroneria se credo che sia possibile individuare alcune caratteristiche della nostra gente.

Per prima cosa direi che siamo gente pratica, concreta, laboriosa. Nei nostri paesi, la cosa più comune è notare quanti si dedicano, oltre al lavoro principale, al bricolage, a mille piccole attività per migliorare la propria abitazione, come ad esempio, riverniciare porte, finestre, cancellate. Troverete poca gente, la mattina e il pomeriggio, seduta davanti ad un bar; sono veramente pochi gli sfaccendati.

I giardini e gli orti sono tenuti con cura; non importa se si tratta di fazzoletti di terra: da noi la gente non riesce a stare con le mani in mano. Deve fare qualcosa, ad ogni costo, tanto gli uomini quanto le donne.

Detto della laboriosità, mi sembra di individuarne un altro di caratteri e cioè la buona tavola e una certa qual voglia di godere la vita. La vicinanza dell’Emilia e, come scrivevo all’inizio, la provenienza di buona parte della popolazione da quella terra, avvicinano molto le genti mantovane ed emiliane.

Non c’è un grande interesse per la politica.  La cultura (soprattutto nelle zone rurali) interessa i giovani che ancora studiano o che hanno compiuto studi superiori o universitari. Gli ultracinquantenni non manifestano molto interesse. Sono ancora pochi gli studenti che si iscrivono all’università, rispetto ad altre città lombarde. La tradizione vuole che si debba cominciare a lavorare presto per rendersi indipendente ed essere padroni della propria vita. Va detto però, ad onor del vero, che, in occasioni di importanti manifestazioni culturali (concerti, conferenze, commedie dialettali ecc.), la popolazione accorre in gran numero. Il clamoroso successo, ad esempio, del Festival della Letteratura che si tiene in città ogni anno in settembre è indice di un interesse vero per la cultura

Esiste un proverbio che definisce un po’ il mantovano (ma credo che esistano varianti anche per altre province): “Mantuan larg de buca e stric de man”. Ancora una volta si rivela l’anima profondamente contadina, parsimoniosa quasi all’eccesso.

Tuttavia, va detto che oggi, sempre con maggior frequenza notiamo notevoli cambiamenti nella nostra piccola società: sono tanti, oggi, i ragazzi che completano i loro studi all’estero, così come molti sono coloro che, terminati gli studi, intraprendono attività sempre più in linea con le esigenze di un mondo sempre più tecnologico, pronti a viaggiare all’estero per lavoro e affrancati sempre più dalle tradizioni e dai costumi tipici della nostra terra e della nostra storia. Vanno a vivere in città, magari a Milano o fuori regione e li vedi sempre meno, ormai staccati in ogni senso dal loro paese d’origine .

Il territorio mantovano è abitato sempre meno dai giovani, in cerca di lavoro e costretti, loro malgrado, a lasciarlo. Restano i vecchi genitori e coloro che ci lavorano. Si assiste invece ad un fenomeno sempre maggiore di presenza di stranieri, molti dei quali di provenienza asiatica ed africana, che colmano i vuoti lasciati dai giovani che hanno abbandonato il paese, e che concorrono un po’ a cambiarne l’aspetto esteriore.  Questi stranieri difficilmente si integrano pienamente, tanto diverse sono le loro tradizioni e la loro cultura. Le nostre piazze, allora, un tempo frequentate, si stanno poco a poco svuotando,  per le ragioni citate, contribuendo a fornire un’immagine malinconica e triste.

La stessa frequentazione della chiesa e della parrocchia è andata via via riducendosi fino a diventare quasi irrilevante. Sono ormai lontani i tempi (fino agli anni Sessanta) in cui alla domenica vi erano ben tre messe, i Vespri al pomeriggio e una messa quotidiana. Il mantovano, oggi, non va quasi più a messa e la religione è un aspetto marginale della sua vita. Le chiese si riempiono ormai solo per Natale, per Pasqua e nei funerali di qualche personaggio di certo rilievo.

I paesi rurali si animano soprattutto in occasione delle feste o sagre locali, aiutati in ciò dal fatto che tali feste hanno luogo soprattutto d’estate.  A questo proposito, aggiungerei alle caratteristiche della gente mantovana la passione (spesso smodata) per la buona tavola. Non c’è quasi mai manifestazione pubblica che non contempli anche la gastronomia. Va detto che la nostra cucina è tra le migliori dell’intero Paese (ergo del mondo) e che nel corso dei secoli la nostra gente ha affinato sempre più le tecniche per ottenere una combinazione perfetta fra prodotto e resa in cucina. La nostra è una cucina robusta, grassa (vicina, in questo, a quella emiliana) dove il maiale è elemento fondamentale per la preparazione di vere squisitezze come salame, coppa, cotechino, cicciole, prosciutto, costine, braciole eccetera. I primi piatti tipici sono un trionfo del buon gusto e della qualità, come il risotto con la salsiccia, i tortelli di zucca, gli agnoli in brodo e asciutti. le tagliatelle con l’anitra. Non parliamo poi dei dolci, come ad esempio la bignolata, la torta delle rose, la sbrisolona, la torta di tagliatelle fini e il salame dolce. Ad innaffiare adeguatamente il tutto c’è il lambrusco che, da  vino povero e scarsamente noto fuori dalle nostre terre,  è ora presente sulle tavole di tutto il mondo, pure negli USA dove ‘è chiamato Red Coca Cola.

Ma non intendo tessere le lodi dei nostri prodotti, non è questo il luogo. Ciò che mi preme sottolineare, per concludere queste righe, è che la nostra terra, tra le più fertili e ricche dell’intera Europa, non ha più nulla a che vedere con ciò che era all’inizio del Novecento e questo vale non solo per le mutate condizioni sociali, ma anche per il diverso modo di pensare e vivere. Se una volta la Chiesa era al centro della vita sociale e morale, ora è tutto più variegato, indistinto, complicato.  Essa è ormai, travolta da scandali sempre più gravi, e  si trova in una posizione marginale. Il Papa riesce a raccogliere ancora consensi generalizzati e a muovere masse di giovani un po’ dappertutto, ma l’apparato è in gravissima difficoltà e le chiese sono sempre più vuote.

Le diverse crisi economiche e politiche che si sono succedute nel corso degli anni hanno dilapidato quel prezioso tesoretto che la nostra gente, poco a poco, era riuscito a risparmiare. I posti di lavoro si sono drasticamente ridotti, quelli ancora disponibili sono i più umili e i nostri giovani preferiscono che a compierli siano gli extra-comunitari che da tempo hanno cominciato a infoltire le nostre popolazioni.

Insomma, la mantovanità che cos’è? Non lo so con esattezza, ma so ciò che non è e mi riferisco all’animo. Il mantovano è generoso e lavoratore, è parsimonioso ma non avaro; rispetto agli italiani meridionali è meno aperto e pronto a fare amicizia, è più cauto nella manifestazione dei suoi sentimenti. L’animo della mia gente è come la sua terra, dura da lavorare ma generosa poi nei suoi doni. La sua lingua è dura, gutturale,  spesso è scorbutico, brusco, ma sa anche intenerirsi.  Superate le prime esitazioni, i primi cauti approcci, ti trovi poi davanti a persone aperte ed accoglienti, cordiali. La tradizione gioca un ruolo ancora molto importante: lo vedi nei modi di dire e nei suoi proverbi, retaggio di secoli di esperienza contadina; lo vedi in cucina, raffinato degustatore e pronto a cogliere i minimi difetti di una pietanza; lo vedi nel modo di arredare la casa, nella meticolosità di ogni loro gesto allo scopo di migliorarsi; lo vedi nei loro orti e nei loro giardini; lo vedi nella loro laboriosità.

Malgrado la prosperità sembri avere allontanato i mantovani dalla spiritualità, in realtà il senso cristiano permane. Nei momenti cruciali, li vedi  dare il meglio di loro. Vivono il dolore con dignità, vivono il benessere senza grandi ostentazioni, fingono indifferenza, ma li vedi farsi avanti ed offrire il loro aiuto, disinteressato, prova ne è il gran numero di volontari che, finito il loro lavoro, offrono la loro presenza e il loro impegno per innumerevoli attività utili e benefiche.

La mantovanità è questa, forse.