«Girolamo è tutto quello che noi non siamo. Ed è per questo che siamo qui riuniti oggi, per celebrarlo. Perché noi non siamo come lui e perché vorremmo essere come lui, che è il motivo per cui lo contempliamo e lo adoriamo, e perché Girolamo sa volere bene e sa anche essere un amico vero». E infine: «Girolamo è il mondo che soffre, Girolamo è il mondo che ama e ringrazio Dio di avermi dato la straordinaria opportunità di essere il suo migliore amico». «Tu, solo tu, che hai conosciuto a fondo lo strazio della sofferenza, la bellezza del sacrificio e la forza dell’amore, sappi che non ti dimenticherò mai Girolamo, mai».
Questo elogio funebre, uno dei più intensi e commoventi che io abbia letto o udito, dà la misura delle capacità e del valore del comunque controverso, diseguale, sbilanciato di THE NEW POPE, di Paolo Sorrentino. I nove episodi della serie confermano una volta per tutte quanto già si sapeva. Eppure stavolta, grazie anche agli sceneggiatori, ha aggiunto qualcosa in più e cioè maggiore profondità emotiva ed intellettuale.
La serie è interessante soprattutto grazie alle capriole stilistiche, alle imprevedibili gag che sconcertano il pubblico. Il regista si diverte a stupire, a disorientare il pubblico, proponendogli, ora un sapientissimo discorso sul rapporto tra cristiano e fede, su quello che egli dovrebbe essere e sui propositi da adottare; subito dopo, ancora immersi nella riflessione di quanto udito, ci troviamo di fronte a un’esplicita scena di sesso, non trascurando, sia chiaro, le relazioni omosessuali, oppure a una larvata insinuazione circa la tossicodipendenza del nuovo papa. A volte, la narrazione corre lungo i binari della farsa, altre volte lungo quelli della denuncia dei mali della Chiesa, tra cui si riconoscono chiaramente la lotta di potere, l’invidia, l’ipocrisia, l’immoralità, l’abuso del potere nei confronti del personale (suore, piccoli funzionari, personale di rango inferiore).
A volte, il regista si diverte ad introdurre elementi di pura fantasia surrealista (come i vermi che escono dalle persone) o di pura comicità (di cui l’ineffabile autore è quasi sempre il cardinale Voiello, vedi le esternazioni estemporanee sulle vicende della squadra di calcio di Napoli, o l’imperturbabilità con cui esprime senza imbarazzo le proprie mire, le proprie manchevolezze o addirittura la scena finale in cui, eletto papa, congeda in privato uno scugnizzo con una colorita parolaccia).
Risaltano d’altro canto le interpretazioni di Jude Law e John Malkovic. Del secondo, soprattutto, emerge una personalità spiccatissima, circondata da un alone di mistero, che contribuisce a rendere oltremodo inquietante il suo personaggio. La voce modulata (è necessario ascoltare la versione inglese per apprezzarla), la lentezza dell’eloquio, l’uso di un inglese colto e aristocratico, il portamento nobile capace di gesti di ineffabile dolcezza e di ira quasi scomposta, rilevabile con l’uso di uno sguardo penetrante, rendono enigmatica la sua figura e contribuiscono ad accettare l’impossibile finale, in cui egli, rinunciando al magistero papale, fa ritorno alla sua Scozia, finalmente rappacificato (a quanto è dato di capire) con i propri genitori, che mai gli hanno perdonato la morte del fratello.
Jude Law dimostra tutte le capacità istrioniche di cui è capace, ora fulminando con il solo sguardo il malcapitato interlocutore, ora dando segno di impensabile e imperscrutabile dolcezza, ora dispensando giudizi o annunciando intenzioni che vorrebbero scuotere dall’interno i cristiani, infondendo speranze di trasformazioni radicali all’interno della Chiesa e, maxime, del Vaticano, scegliendo, una volta constatata l’impossibilità di attuarle, di immolarsi donandosi in toto alla folla o auto-estinguendosi nelle acque della sua terra.
THE NEW POPE esprime tutto l’agnosticismo verso le forme curiali, esteriori della Chiesa e la condanna senza appello del marciume che vegeta all’interno del Vaticano di cui il repulisti deciso in extremis sembra vanificato causa l’elezione del papa più democristiano, più controverso e più andreottiano possibile e cioè Voiello. Ma si respira, nei momenti “seri” ad ennesima riprova del carattere ambiguo della serie, una profonda moralità, un estremo bisogno di pulizia, di etica sociale e politica, arricchito il tutto da una sceneggiatura impeccabile. Sorrentino è l’albatros baudelairiano capace di librarsi a vette sublimi per poi confondersi con le esalazioni fetide provenienti dalla stiva della nave su cui, stanco di volare, si posa di tanto in tanto, anelando di riprendere il volo, ma alla fin fine, non del tutto disgustato dal contatto plebeo, con passo un po’ malfermo, finisce per accettarne le facili seduzioni e le a volta scontate a volte argute esternazioni. E il volo non è detto che alla fine abbia luogo.
Alla fine degli anni ’50, si presenta a casa di Dalton Trumbo un distinto signore che è appena sceso da una lussuosa automobile con autista. “Sono Otto Preminger – dichiara con tono sicuro- Vorrei affidarle, signor Trumbo, la sceneggiatura di un film sulla nave che trasportò in Palestina molti ebrei reduci dai campi nazisti, la nave Exodus. Io so che lei non può lavorare in via ufficiale, ma so che ha scritto delle sceneggiature che ho molto apprezzato, con un altro nome. Dalton conosce Otto, i suoi guai con Darryl Zanuck, la sua testardaggine, ma i film che ha realizzato gli sono piaciuti. Gli dice che se ne può parlare.
Pochi giorni dopo, riceve la visita di un attore che ha da qualche anno creato una sua casa di produzione. E’ noto a tutti per la sua bravura, ma anche per la sua ambizione e per il suo caratteraccio. Si chiama Kirk, Kirk Douglas, ma il suo vero nome è Issur Danielovitch, figlio di una coppia di bielorussi venuta negli USA in cerca di fortuna, analfabeti e poverissimi, al punto da sbarcare il lunario raccogliendo, per poi venderli, stracci. Ha in mente una storia ambientata nell’antica Roma: il protagonista si chiama Spartaco, uno schiavo trace che si ribella e sfida Roma con un esercito raccogliticcio di schiavi che si sono uniti a lui, nella speranza di riacquistare la libertà. L’idea è un po’ la storia di una ripicca. William Wyler lo aveva all’inizio tenuto presente per interpretare Ben Hur, poi però alla fine scelse, come ben si sa, Charlton Heston. Come consolazione, gli aveva offerto la parte di Messala, ma Kirk sdegnosamente rifiutò e se la legò al dito. Ora era arrivato il momento. SPARTACUS sarebbe stata la risposta. Conosceva bene Trumbo e le sue vicissitudini, ma lo riteneva fra i migliori, se non il migliore, scrittore di Hollywood.
Otto Preminger
Anche a Douglas, Dalton ripeté le cose dette a Preminger e cioè di essere sulla lista nera. “Non me ne frega niente – fu la risposta – Lei è il migliore scrittore e voglio che sia lei a scrivere la sceneggiatura del mio film”. In realtà, all’inizio aveva accettato di pagarlo sotto falso nome, poi, com’era nel suo carattere, decise di mettere il suo nome nei titoli.
Questa scena è descritta in modo convincente nel film di Jay Roach L’ULTIMA PAROLA- LA VERA STORIA DI DALTON TRUMBO (Trumbo)(2015) in cui Dalton è interpretato alla grande da Bryan Cranston (ALL THE WAY, 2016). Per il ruolo di regista, Kirk scelse Stanley Kubrick: RAPINA A MANO ARMATA (The Killing)(1955) gli era piaciuto molto. Ora, col senno di poi, pensare di mettere insieme Douglas e Kubrick e cioè un rompiscatole meticoloso, accentratore e prepotente con un uomo geniale, ma tormentato e mai soddisfatto, era una follia. Durante la lavorazione, Kirk subì innumerevoli minacce sia da parte di scagnozzi della HUAAC (l’ente che indagava, su iniziativa del senatore McCarthy, sulla presenza di comunisti a Hollywood), sia da squallidi personaggi come Hedda Hopper, un’attricetta mancata che scriveva articoli al vetriolo e pettegolezzi vari, molto temuti, sul Los Angeles Times.
Kirk andò avanti per la sua strada, SPARTACUS fu lodato dalla critica e apprezzato dal pubblico. In più, fu uno, se non il migliore, dei più bei film su Roma antica. Inoltre, cosa fondamentale, il nome di Trumbo apparve nei titoli e questo contribuì a rendere ormai superata la famigerata lista nera., permettendo a Trumbo e agli altri nelle sue stesse condizioni di lavorare alla luce del sole.
Laurence Olivier (M.Licinio Crasso) in SPARTACUS
Coloro che lo conoscevano concordavano sul fatto che lavorare con lui era impresa durissima: Kirk era un ottimo attore ma tendeva ad andare oltre il suo ruolo. La sua personalità era così forte da condizionare coloro che dirigevano il film. Fece, ad esempio, licenziare Anthony Mann (sì, proprio lui!), ordinò a Kubrick di modificare la sceneggiatura di ORIZZONTI DI GLORIA (Paths of Glory)(1957), rompeva le scatole ad attori, registi e sceneggiatori: il bello è che quasi sempre aveva ragione. La sua ricerca della perfezione era ossessiva, intransigente, assoluta. Un altro Kubrick, insomma.
Stanley Kubrick
Al cinema era arrivato dopo aver frequentato l’Università, il servizio militare in Marina durante la guerra e qualche tentativo in teatro. All’Academy of Dramatic Arts conosce Lauren Bacall (il cui vero nome era Betty Perske) e Dina Dill, un’aristocratica che poi sposerà. Sarà la Bacall a presentarlo a Hal Wallis (da poco alla Paramount), il notissimo produttore che due anni prima aveva piantato Jack Warner dopo l’umiliazione inflittagli alla premiazione di CASABLANCA (avendo curato lui tutta la produzione del film, si aspettava di essere chiamato sul palco per l’Oscar, ma Warner, ammalato di megalomania, lo precedette e i suoi familiari impedirono fisicamente a Hal di muoversi dalla poltrona). Gli venne affidata una parte nel film LO STRANO AMORE DI MARTA IVERS, (The Strange Love of Martha Ivers) in cui interpreta il ruolo di un vile arrampicatore sociale che arriva ad essere nominato procuratore distrettuale solo per le sue frequentazioni sociali. Quel ruolo di debole e sleale lo ostacolò non poco per la sua carriera futura, ma gli fece conoscere il regista, Lewis Milestone, che più tardi accusò di non farsi rispettare ma che gli insegnò a recitare rilassato, senza preoccuparsi della cinepresa. Una lezione che si sarebbe rivelata fondamentale.
Van Heflin e Kirk Douglas in LO STRANO AMORE DI MARTA IVERS
Ritengo inutile ricordare la trafila che da allora in poi lo portò a diventare uno degli attori più apprezzati al mondo. Vorrei qui solo ricordare alcuni suoi film che, a mio modesto avviso e in modo personalissimo hanno significato qualcosa. Il primo è senz’altro CHIMERE (Young Man with a Horn, 1950), diretto da Michael Curtiz, alla Warner Bros. E’ un film che mi ha segnato. La sceneggiatura di Carl Foreman ed Edmund North, dal romanzo di Dorothy Baker, è netta, affilata come una lama d’acciaio e fa male. Il film oggi è sparito dalla circolazione, ma negli anni ’60, la RAI lo mandò in onda diverse volte. E’ la storia di un trombettista (ispirato un po’ a spanne a Bix Beiderbecke) che arriva al successo, ma tormentato dai suoi demoni interiori e da una relazione castrante con un’avvenente Bacall, finisce per autodistruggersi. Un film pieno di energia e ricco di sfumature noir e note malinconiche, quasi un capolavoro.
Doris Day e Kirk Douglas in CHIMERE
Il secondo è L’ASSO NELLA MANICA,(The Ace in the Hole-The Big Carnival) della Paramount, 1951, diretto da Billy Wilder. Un episodio curioso: dopo il film, Kirk si fermò a soccorrere un ferito in un incidente con la macchina. Chiese a un reporter che passava in quel momento di dargli una mano. Quello, senza scendere, gli rispose:” Mi spiace amico, ma devo correre al giornale per l’edizione, non ho tempo da perdere!”. Kirk, durante la lavorazione, era un po’ perplesso perché riteneva che la figura di quel giornalista, protagonista del film, fosse troppo cinica, troppo studiata a tavolino per essere autentica. Aveva insistito non poco per convincere Wilder ad ammorbidire la figura del giornalista.
Kirk Douglas in L’ASSO NELLA MANICA
Invano. Quell’episodio lo fece ricredere. C’è tutto Wilder in questo film: cinismo, disprezzo per i giornalisti, disprezzo per il mito del successo made in USA. I critici, in buona parte giornalisti, si sentirono offesi e boicottarono il film. La stessa Paramount lo ritirò dalla circolazione, distribuendolo in seguito con un altro titolo (THE BIG CARNIVAL al posto di THE ACE IN THE HOLE), ma in seguito il film venne osannato come vero capolavoro e Kirk fu acclamato per la sua interpretazione perfetta.
Kirk Douglas e Richard Benedict in L’ASSO NELLA MANICA
Il terzo film è ORIZZONTI DI GLORIA, prodotto dalla Bryna, la casa di produzione di Kirk, così chiamata dal nome di sua madre è tutto da raccontare. Il film racconta, con alcune libertà, un fatto realmente accaduto nel 1915 sul fronte francese, quando un reggimento si rifiutò di uscire dalle trincee per attaccare il nemico (tedesco), sapendo di andare incontro ad un’ennesima strage per di più inutile.
Kirk Douglas in ORIZZONTI DI GLORIA
Dopo un processo presso la corte marziale, vengono condannati a morte tre uomini di cui il colonnello Dax (Kirk Douglas) aveva svolto il ruolo di difensore. Film anti-militarista al punto che i finanziatori del film, la Unirted Artists, pretendevano che ci fosse un lieto fine, temendo che, altrimenti, la gente si sarebbe tenuta lontana dalle sale. Ma Kirk si oppose fermamente ed arrivò a convincere Kubrick, il regista, a mantenere l’impianto originale della storia, andando contro i suoi stessi finanziatori. Ecco qui che Kirk si fa sentire per la prima volta e dimostra tutto il suo carattere e la sua determinazione. Il film fu girato in Germania, perché i francesi si opposero alle riprese a casa loro. In tutto il mondo uscì nel 1958, in Germania nel 1960 (per non fare uno sgarbo ai francesi), in Francia solo nel 1975! (la stessa cosa accadde a Pontecorvo con LA BATTAGLIA D’ALGERI).
Il quarto è SPARTACUS , quello che preferisco.
Kirk Douglas in SPARTACUS
A mio avviso, è il miglior film su Roma antica, pur se con notevoli inesattezze storiche, ma, d’altro canto, non sarebbe possibile realizzare nessun film con assoluto rigore storico. Kirk qui, fece, a differenza di altri casi, il pompiere. Trumbo aveva scritto una sceneggiatura con i controfiocchi, ma Kubrick si era messo in testa di fare del film una sorta di manifesto politico contro gli imperialismi del XX secolo, in specie quello americano. A lui interessava fare di certi personaggi come Lentulo Batiato (Peter Ustinov) e Marco Licinio Crasso (Laurence Olivier), i rappresentanti di un potere dispotico e corrotto. Non gli interessava certo mostrare le caratteristiche fisiche di Spartacus o le scene d’amore tra lui e Varinia: troppo hollywoodiane. Invece, la scena di seduzione dello schiavo Antonino insidiato da Crasso, proprio gli stava a cuore. La scena era osée, per quei tempi e venne tagliata dalla censura, e Kubrick non poté farci nulla. Kirk vedeva che Kubrick gli sfuggiva dalle mani.
Kirk Douglas in SPARTACUS
Dopotutto aveva investito in quella produzione il proprio capitale e non poteva permettersi di sbagliare; tra l’altro ORIZZONTI DI GLORIA aveva problemi con la censura e la Francia l’aveva rifiutato. La versione finale risultò ampiamente tagliata e il finale poco comprensibile. Per fortuna, nel 1991 il film venne restaurato con il reinserimento delle scene tagliate, tranne una (quella della (seduzione) di cui si era perduto il sonoro e che venne risonorizzata con lo stesso Tony Curtis e la voce di Anthony Hopkins al posto di quella di Olivier, nel frattempo passato a miglior vita. Douglas, durante le riprese, sembrava un pazzo; pretendeva continui cambiamenti al copione, interrompeva tutto per documentarsi meglio, cacciava a pedate chi non era d’accordo. Lo stesso Anthony Mann fu licenziato perché troppo lento; in 10 giorni aveva girato solo 16 minuti di pellicola. In seguito Mann si lamentò del carattere troppo autoritario di Kirk e la versione ufficiale parlava di una netta disparità di vedute tra produttore e regista. Pure Kubrick non fu molto contento: il film non era come lui avrebbe voluto. Il solo ad essere moderatamente soddisfatto fu Howard Fast, l’autore del libro da cui il film era tratto. Anche lui era stato un “blacklisted”, come Trumbo e la larvata denuncia sociale del film era una sorta di piccola vendetta, Pure Kirk era abbastanza contento: gli sembrava di essere riuscito a coniugare critica sociale e favore del pubblico.
Dalton Trumbo mentre scrive nella vasca da bagno
Sarei tentato di parlare ancora di alcuni altri film che, a mio parere, superano la sufficienza come SOLO SOTTO LE STELLE (Lonely are the Brave)(1962) di David Miller, oppure UOMINI E COBRA (There was a crooked Man)(1970) di Joseph Mankiewicz e di una sua regia degna di nota in I GIUSTIZIERI DEL WEST (Posse)(1975), ma rischierei di dilungarmi. Mi interessava soprattutto ricordarlo nei quattro film citati che, a mio parere, mettono in luce le sue enormi capacità di attore e rivelano i vari aspetti del suo carattere. Con lui muore l’ultimo dei “grandi” di una Hollywood ormai scomparsa, osteggiata, criticata, ma, forse, rimpianta.
Dopo aver letto il bel post omaggio di Maghella su Alain Delon, ho pensato che forse era questa una buona occasione per qualche riflessione sul personaggio-attore Delon, sul rapporto Delon-Francia e Delon-mondo.
L’attore francese si è indubbiamente imposto sia per le sue qualità estetiche sia per quelle recitative, rompendo il cliché dell’attore bello ma vuoto. Si è portato appresso la fama di bello, splendido amatore ma ha dimostrato nei fatti di essere un grande attore. A me sinceramente non interessa soffermarmi sulle sue qualità estetiche, peraltro ricordate nel post citato; mi interessa soprattutto il Delon attore, che ha poco a poco convinto i critici francesi, in primis, di cui si conosce la passione e la competenza.
I senza nome (Le cercle rouge) (Jean Pierre Melville)(1970)
Luchino Visconti , lo sappiamo, è un vero artista quasi rinascimentale per il senso estetico e l’immenso bagaglio culturale. Nessuno come lui ha percorso, con uguale disinvoltura, i sentieri ardui e pericolosi del cinema, del teatro e della lirica. In Delon vedeva personificata (così come con Helmut Berger) la figura della bellezza, della purezza stilistica, dell’ideale estetico al grado più alto. E’ stata probabilmente l’esperienza con Luchino a lanciare Delon, ancora più che con René Clément (IN PIENO SOLE), in modo prepotente nel firmamento del cinema. Dopo diverse interpretazioni in cui si esaltano soprattutto le sue qualità di sex symbol, arriva Jean-Pierre Melville, re del polar e ne fa un eroe con delle sfaccettature impensabili. Per la verità, qualcosa si era intuito in ROCCO E I SUOI FRATELLI, in quel suo personaggio puro e cupo. Ma con Meville, Delon tocca vertici interpretativi straordinari. La sua maschera da duro (sia poliziotto, sia fuorilegge) ha un fascino misterioso irresistibile. L’intreccio narrativo che solo un grande regista come Melville riesce a dirigere (e che non ha nulla da invidiare ai Crime Movies americani) e la figura inflessibile e glamour al tempo stesso, fanno un tutt’uno, un vero e proprio unicum a cui molti epigoni anche nostrani si sono ispirati.
Notte sulla città (Un flic) (Jean-Pierre Melville)(1973)
Stranamente, pur se ci ha lavorato in alcune produzioni non memorabili, con Hollywood non mai scattata la scintilla. Il pubblico non si è mai appassionato e i suoi film girati in terra americana si sono rivelati dei flop. La causa va forse cercata nel suo essere così orgogliosamente “francese”, nel suo non piegarsi a certi condizionamenti, certi compromessi sia con la produzione sia con il regista. Il pubblico americano non perdona determinati comportamenti, ma credo che il motivo principale sia nella scarsa qualità dei film interpretati (NE’ ONORE NE’ GLORIA di Mark Robson e TEXAS OLTRE IL FIUME di Michael Gordon, peraltro due registi discreti).
Frank Costello faccia d’angelo (Le Samourai) (Jean-Pierre Melville)(1968)
Il successo italiano ha diverse cause. La prima è sicuramente dovuta al suo indubbio fascino che non si è mai annacquato, malgrado gli anni. Anzi, invecchiando, ha arricchito la sua figura di un glamour particolare, quella capacità seduttiva che solo certe persone mature possiedono (come nel caso di Sean Connery, Cary Grant e il nostro Mastroianni).
Rocco e i suoi fratelli (Luchino Visconti) (1960)
La seconda è, che dietro la facile maschera della bellezza, si indovina un individuo tormentato, inquietante e terribilmente affascinante. E’ questa caratteristica che Valerio Zurlini, nel suo straordinario LA PRIMA NOTTE DI QUIETE, vuole rappresentare. Si tratta di un personaggio quanto mai complesso, a tratti misterioso, a tratti fragile. Zurlini realizza qui un capolavoro scavando dentro il personaggio in modo quasi crudele (scontrandosi, a quanto pare e spesso con il bell’Alain) ma ottenendo un risultato memorabile.
La prima notte di quiete (Valerio Zurlini) (1972)
Forse non è proprio questo tipo di attore di cui il pubblico italiano si è innamorato, ma è senz’altro quello di cui si sono innamorati i critici.
La Francia si è spesso divisa con l’andar del tempo su Delon. Dopo un inizio entusiasmante, molti hanno cominciato a criticarne certi eccessi e certe disinvolture (l’affaire con la Schneider), la storiaccia, mai del tutto chiarita, con il delitto della sua guardia del corpo e che portò alla luce particolari ben poco edificanti di storie di droga e sesso presenti nel suo entourage. Infine, non poche polemiche ha suscitato la sua posizione politica (ha sempre parteggiato per il Gaullismo e la destra, ultimamente con la Le Pen) e la sua interpretazione in un film per la TV di un commissario di polizia di Marsiglia, Montale, di idee progressiste, così contrarie alle sue convinzioni.
La prima notte di quiete (Valerio Zurlini) (1973)
Qui in Italia, non si è mai dato gran peso a queste cose. Delon parrebbe rappresentare quanto c’è di meglio oltr’Alpe, soprattutto in un periodo come questo, in cui la Francia non gode di grande considerazione da noi. C’è da tempo un diffuso senso di fastidio per i nostri cugini, accusati di sentirsi superiori a noi e gonfi fino a scoppiare di una grandeur senza basi obiettive. Ma queste sono considerazioni sterili che allignano soprattutto tra gli sprovveduti. Però, parlando di Delon, il nostro Paese gli ha sempre dimostrato affetto e stima. Il grosso pubblico, soprattutto femminile, non ha mai smesso di amarlo e perdonargli di tutto. La critica e gli spettatori più avveduti, nonostante tutto, continuano a vedere in lui un connubio straordinario di qualità interpretativa e di presenza scenica, una miscela irresistibile di fascino misterioso di artista “maudit” e di amante meraviglioso. Lui poi in Italia è di casa, è sempre un ospite richiestissimo e da noi si trova a meraviglia. In un Paese come il nostro dove il gusto estetico è un “must” che tutti ci riconoscono, Alain non poteva non essere una vera e propria icona.
La prima notte di quiete (Valerio Zurlini)(1973)
Delon è diverso dal tipo di attore francese che siamo abituati a conoscere. Ha il fascino “malin” di Jean Gabin, non ne possiede la profondità ma ha un tocco in più di sex-appeal. Non ha la simpatia di Jean-Paul Belmondo, non ha la carica umana di Daniel Gelin, la signorilità di Paul Meurisse, l’intensità di Jean Marais. Per venire all’attualità, non vedo attori le cui caratteristiche si avvicinino più di tanto a Delon. Lo stesso Daniel Auteuil non mi sembra averne né il carisma né il fascino, pur ritendendolo fra i migliori artisti transalpini. Delon è semplicemente Delon, un attore capace di riempire da solo lo schermo, di fare di un piccolo film un grande film. Se mi si consente una preferenza personale, non posso non citare ancora il professor Dominici (il cui cognome nel film nasconde forse quello di Caccia Dominioni) e le splendide sequenze iniziali e finali. Uno straziante assolo di tromba accompagna questo professore di letteratura, mentre cammina lungo il molo di Rimini, immerso nei suoi pensieri e nei suoi tormenti. La scena finale non potrebbe essere più eloquente: perdere la vita per una pura questione di umana pietà verso una convivente che non ama più e di cui teme un gesto estremo. Un finale tragico che conclude la parabola di una vita difficile e avara di ricompense.
Mentre scrivevo il post su Delon, non riuscivo a scrollarmi di dosso la figura imponente (in tutti i sensi) di Depardieu. Scrivere un post su Delon porta, quasi inconsapevolmente, ad affrontare la figura di questo grande attore francese. Come sono solito fare, questo post non vuole assolutamente abbozzare un profilo critico, in certa parte scontato. A me interessa cercare di parlare di Depardieu in modo per quanto possibile slegato dalla galleria critica delle sue interpretazioni. Questo compito lo lascio ad altri.
Novecento (Bernardo Bertolucci) (1976)
Anzitutto, chi è il vero Depardieu? E’ Olmo, il ragazzo di campagna, rozzo, sanguigno di NOVECENTO? O è invece il vicino di casa romantico e appassionato di LA DONNA DELLA PORTA ACCANTO o il poliziotto rude, brutale ma anche sorprendentemente sensibile di POLICE oppure il giovane e fragile René, chiamato ad un compito (direttore di fabbrica) per il quale si sente inadeguato? E’ il poeta Cyrano, poeta prigioniero in un corpo non affascinante, oppure il rivoluzionario Danton amato dal popolo che si diverte a umiliare l’incorruttibile nel film omonimo, oppure ancora lo struggente Conrad, vecchio, malato di A SMALL WORLD di Bruno Chiche?
La signora della porta accanto (La femme d’à côté) François Truffaut (1981)
Gérard non proviene dalla borghesia, ma dal popolo e queste sue origini sono il segreto o uno dei segreti delle sue interpretazioni riguardanti i vari personaggi popolari della sua carriera.
Danton (Andrzej Wajda)(1983)
Quando, ad esempio, interpreta Danton, diretto da Wajda, non mi viene in mente un altro attore in grado di interpretare meglio quel personaggio storico. Quando Danton affronta Robespierre, ne mette a nudo le debolezze, i difetti patologici e l’abnorme distanza fra il rigorismo giustizialista e l’incapacità di capire il popolo, quel popolo che egli dice di difendere a tutti i costi, anche a costo di ghigliottinare mezza Francia. Danton lo smaschera e lo deride, provocandone la fredda vendetta. Come si può non amare alla follia questo attore quando si difende davanti ai giudici cui è stato ordinato di condannarlo a morte e lui invece si erge a vero protagonista mettendo in stato d’accusa lo stesso tribunale rivoluzionario, suscitando il delirio di un’intera folla che decide in pochi istanti da che parte stare. Un’interpretazione memorabile.
Danton (Andrzej Wajda) (1983)
Come si può non abbracciare il buon Renè Ragueneau di MIO ZIO D’AMERICA di Alain Resnais, e provare grande empatia per questo ragazzo dolce, chiamato a dirigere una fabbrica con delle innovazioni tecnologiche che egli non è in grado di gestire, abituato com’è a un tipo di fabbrica dal volto umano e non una macchina infernale che tutto stritola e devasta? Quel giovanotto di campagna, gentile, educato e deriso, umiliato da un capo che lo demolisce poco a poco e gli spiattella tutta sua inadeguatezza, siamo noi, siamo ancora i (pochi ?) umani ancora esistenti. Un film modello in cui la filosofia si allea magistralmente con la settima arte.
A Small World-Ricordi lontani (A Small World) (Bruno Chiche) (2010)
E’ questo il tipo di personaggio che amo di più, quello anche, per capirci, del buon Conrad, disconosciuto da una madre opportunista e costretto a una vita di umiliazioni, solo perché nato quando non doveva, per le ambizioni di una madre degenere, capace di affidarlo ad un’altra persona e dichiarare figlio suo invece la creatura nata dalla relazione fra lei e il ricco Arthur. Quel Conrad, divenuto un peso per tutti, per le sue origini, per le sue stranezze, trova un’inaspettata amica in Simone, la moglie dell’erede, che si prende cura di lui, ormai aggredito dall’Alzheimer, ma ancoracapace di far riemergere lontani ricordi che ristabiliranno la verità.
Vedi quest’uomo, prigioniero di un corpaccione inverecondo, relegato ai confini del decoro umano da miserie morali orrende, ancora capace di provare sentimenti, di non provare rancore, condannato dalla malattia al buio della conoscenza, eppure capace di rinnovare giorno per giorno le sue piccole abitudini, le sue emozioni, che trova nel suo ritorno all’essere come un bambino i propri ricordi di bambino che saranno come lance nella coscienza di chi lo ha rinnegato come figlio e come fratellastro.
A Small World-Ricordi lontani (A Small World) (Bruno Chiche) (2010)
Depardieu non gode di una reputazione specchiata in Francia. Anche da noi si conoscono le sue stranezze, come quella di prendere la cittadinanza russa, orgoglioso della sua amicizia con Putin, o quella di trasferire la sua dimora appena al di là del confine col Belgio, per sottrarsi al fisco. Si conosce la sua infanzia turbolenta, si conosce la sua passione per il vino (possiede un podere a Pantelleria), si conoscono le sue donne, la sua esuberanza, ma tutto questo non impedisce che la gente lo ami ancora e si riconosca in lui in alcune delle sue interpretazioni più note e amate come LA SIGNORA DALLA PORTA ACCANTO. Depardieu è un po’ l’uomo medio, non certo come Delon che, appena si presenta, espone quasi arrogantemente la sua avvenenza, il suo glamour a cui il successo arride quasi senza sforzo, mentre Gérard capisci che si è dovuto fare largo a spintoni per farsi avanti. Delon è il francese che assapora in punta di forchetta, mentre Gérard è colui che s’ingolla a tutto spiano baguette spalmate di burro, incurante di diete e consigli medici. E’ un Danton de noantri, appassionato, volgare, rozzo e gaudente, pieno di gioia di vivere, un Olmo Dalcò che sta tra la gente e la difende anche a costo di prendere a badilate i signorini e i signoroni “dali beli braghi bianchi” della villa accanto che si prendono senza fatica i raccolti, lasciando ai braccianti le briciole.
A Small World-Ricordi lontani (A Small World) (Bruno Chiche) (2010)
In Italia, si conosce Gérard, senza ombra di dubbio, ma non lo si conosce forse come lui meriterebbe. Tranne quei tre o quattro titoli (quelli commercialmente più di successo), il grande pubblico non ha visto molto altro. Il pubblico italiano, l’ho già scritto altre volte, non ama il cinema francese. Lo giudica noioso, verboso, poco interessante, altezzoso.
Da un punto di vista puramente cinematografico, sono d’accordo solo in parte. Le commedie francesi, ad esempio, non mi appassionano. C’è un senso dell’umorismo che qui da noi non funziona. Sono commedie che, a differenza di quelle italiane, cercano di evitare la volgarità gratuita e i localismi e si basano soprattutto su intrecci amorosi e su situazioni paradossali. Ma da noi, il pubblico è più smaliziato e le situazioni sono più crude, spesso condite di sarcasmo. Questo rende le nostre commedie meno raffinate ma preferite dal grosso pubblico. Un genere che invece da noi quasi non esiste, se non nelle fiction tv, sono i polizieschi, che invece godono in Francia di molto favore, come ad esempio i famosi “polar”, eredi della grande tradizione francese di Melville, Giovanni e Becker, dove ora eccellono autori come Marchal, fra gli altri. Ma quanti, da noi, conoscono i suoi film? Forse il peso peso della fu Nouvelle Vague è troppo oneroso e ancora non si intravedono autori, quelli veramente notevoli sono ormai vecchiotti (Pialat, Assayas, Philippe Garrel, Duras, Besson e Leconte). Poi magari scopri giovani registi come Lucas Belvaux con SARA’ IL MIO TIPO? o Christophe Barratier con LES CHORISTES e nutri la speranza che qualcosa si muove. Il problema è che Claude Sautet non c’è più e non riesco ad accettarlo.
Sarà il mio tipo? (Pas son genre) (Lucas Belvaux)(2014)
Non mi avventuro in considerazioni extra-cinematografiche perché il terreno è minato. D’altronde qui abbiamo ben poco di cui vantarci.
Un recente post di Alan Smithee mi ha indotto a trattare ancora una volta il tema del noir, pur se Filmtv ha spesso accolto alcuni miei spunti e alcune riflessioni, arricchiti da dotti commenti di amici come Marcello del Campo, Valerio e tanti altri.
Mi limiterò perciò a esprimere alcune valutazioni in modo stringato, evitando di ripetere quanto a suo tempo espresso.
Una prima riflessione, a mio avviso doverosa, riguarda la vexata quaestio fra ciò che è noir e ciò che non lo è. Oggi, è comunemente accettata l’idea che con il termine noir si definiscono le storie, i racconti, i film in cui vi siano alcuni elementi chiave come il delitto, un’indagine poliziesca o di un investigatore privato.
Si tratta di una classificazione tanto vasta da risultare inattendibile. Il cinema americano ha suddiviso per generi questo tipo di narrazione e cioè il gangster-movie, il prison-movie, il serial killer-movie ecc.
Noi, con meno precisione, classifichiamo alla rinfusa il poliziesco, il “giallo” e, in mancanza di meglio, il “thriller”. Poi, per comodità, mettiamo insieme tutti questi generi, ne facciamo un bel minestrone e lo chiamiamo noir.
Comodo, ma superficiale. Come spesso capita, per rendere più semplice un concetto, lo si travisa.
Ma allora, che cos’è noir e cosa non lo è?
Noir è una parola francese che fa riferimento a certa cronaca giornalistica che si interessa di fatti criminosi che scuotono l’opinione pubblica. Anche da noi si cominciò a chiamarla “cronaca nera” oppure più semplicemente “nera”. E’ un fenomeno che nasce in Europa soprattutto negli anni Trenta e che abbraccia un po’ quasi tutto il Vecchio Continente. Mentre da noi, tutto resta confinato nel puro fatto cronachistico, in Germania assume poco a poco delle caratteristiche più ampie. Da anni infatti, in quel Paese (e un po’ in tutta la Mitteleuropa) si va affermando uno stile artistico strettamente legato a un’atmosfera, a un “mood” che pervade il Paese. Parliamo, è ovvio, dell’espressionismo, che scava nel profondo delle coscienze e dei sentimenti e acuisce all’estremo le ansie, le paure legate a una società che vive la grave crisi economica del primo dopoguerra, senza certezze, senza le rassicurazioni, cui il popolo tedesco era abituato. La crisi, la terribile inflazione, la precarietà del lavoro, la frustrazione relativa alla sconfitta nella Grande Guerra e le durissime condizioni della Pace di Versailles, l’incapacità dei partiti della sinistra al potere di fronteggiare la situazione e, non da ultima, il crescente e mai sopito spirito di “Revanche” e di orgoglio nazionale, creano le basi per il nascere di un clima artistico, e non solo, in cui si manifestano, in forma figurata, le paure e le ansia di cui sopra.
Per farla breve, ma il discorso da fare è davvero molto, troppo, lungo, una nutrita schiera di artisti (ci limitiamo al cinema, per forza di cose e di spazio), giudica irrespirabile l’aria che si respira a Berlino (ma anche a Vienna, Budapest), visto che stanno prendendo sempre più piede le condizioni che porteranno a una dittatura fra le più criminali e delinquenziali della storia), e si trasferiscono, alcuni in Francia, altri negli Stati Uniti.
Questi artisti si portano ovviamente dietro tutto il loro portato di pessimismo, ansie, timori e lo esprimono nei loro lavori.
E qui passiamo al secondo aspetto. Quando sbarcano negli USA, dopo molte vicissitudini, cominciano a realizzare opere apparentemente convenzionali, ma ad un esame più attento, innovative. Poco a poco i lavori di questi immigrati prendono sempre più piede e colpiscono favorevolmente gli spettatori americani, non abituati a questo tipo di opere.
L’aspetto fondamentale è che si tratta di film che si inseriscono agevolmente nei generi tradizionali, in particolare il poliziesco e il gangster-movie, ma conferiscono aspetti che prima erano assenti.
Prendiamo un film poliziesco tradizionale come I RUGGENTI ANNI VENTI (The Roaring Twenties). 1939, di Raoul Walsh. Si tratta di un’ottima prova che, nel solco della tradizione, distingue bene i buoni dai cattivi, disegna una parabola sempre più discendente nell’aspetto morale, fino a terminare nella fine violenta e obbligatoria del protagonista. Tutto molto chiaro, senza ombre. Prendiamo invece L’URLO DELLA CITTA’ (Cry of the City),1948, di Robert Siodmak. Anche qui la storia di due amici che la vita separerà e metterà uno contro l’altro. In questo film, si notano alcune differenze di stile, scenografie, di profondità psicologica e un senso di pessimismo che pervade l’intera narrazione. Non tutto è così chiaro, ci sono caratteri meglio costruiti dal punto di vista psicologico, ci sono molte ombre che rendono seducente la storia.
Oppure, prendiamo un film come CHIAMATE NORD 777 (Call Northside 777) 1948, di Henry Hathaway. E’ un’opera contemporanea a L’URLO DELLA CITTA’, eppure ci rendiamo conto di essere di fronte a un’opera convenzionale, anche se ben raccontata e interpretata, oltre che diretta da quel magnifico mestierante che è stato Hathaway.
E’ la classica indagine poliziesca, svolta stavolta da un giornalista, che si interessa controvoglia ad un fatto di sangue accaduto anni prima e a cui poi si appassiona fino a riuscire a scoprire il colpevole e a far liberare un innocente.
Anche qui non ci sono ombre, tutto appare chiaro, la tensione sta tutta nell’avvicinarsi sempre più alla verità. Un film ottimo, ma convenzionale.
Prendiamo invece un film come VERTIGINE (Laura)1944, di Otto Preminger. Anche qui un’indagine, un progressivo avvicinamento alla verità, ma tutto è diverso: tensione che si basa su fatti imprevedibili e sconvolgenti, verità e apparenza che si confondono. Ad un certo punto, lo spettatore non sa più che cosa sta succedendo, regna l’incertezza più totale che è poi quella dello stesso protagonista, un detective ossessionato da un quadro. Quando la certezza scompare, rimane l’imprevedibilità, che è poi il regno del noir.
Non cambiano le storie, quindi (almeno per la maggior parte), ma cambia l’atmosfera che li pervade, e con essa cambiano le inquadrature, l’illuminazione, certe tematiche.
In un film noir sono prevalenti alcuni aspetti che saranno poi quelli che li caratterizzeranno e cioè: l’illuminazione per linee oblique, la prevalenza degli interni rispetto alle scene in esterni, le inquadrature (ora imprevedibili, non tradizionali), certi temi quali: la donna-ragno (la misoginia del noir è aspetto fondamentale), l’assenza della famiglia, il ricorso ai flash back, la detective-story (dove l’investigatore è uomo solitario e duro), la cupa presenza di un destino tragico e altro.
E’ quindi evidente che non si possa parlare di genere ma di stile. Ecco perché lo stile noir può trovarsi in generi diversi (come, ma sono casi sporadici, il western) e in film anche recenti.
Ecco il motivo per cui insisto a scrivere queste righe e gridare a più non posso che chiamare noir un film dove è sufficiente che si commetta un delitto sia la cosa più imprecisa che esista.
Inoltre, last but not least, come ricorda Alan Smithee, il noir non è solo uno stile cinematografico ma è anche una svolta (un DETOUR dal film omonimo di Ulmer), una svolta nel costume, nel modo di fare cinema e anche un modo diverso di pensare.
Questa svolta vuole essere un deciso cambiamento di rotta e l’intenzione di rinnovare il cinema hollywoodiano, legato a vecchi schemi e a tradizioni (oltre a un modo di pensare perbenista, alquanto puritano, pieno di tabù). Il noir introduce il dubbio: tutto non è più ormai come prima. Le vecchie paure ed ansie dei registi mitteleuropei, nati e cresciuti in ambienti culturali diversi, ma lontani dalla superficialità dello spettatore americano medio, agirono da lievito e risvegliarono coscienze sopite, mentalità e modi di pensare legati a usi e costumi tradizionali.
Il noir, in certo modo, è trasgressivo, rivoluzionario. Da parte di certi ambienti conservatori, ci si rese conto che la quiete artistica, frutto di accordi fra le Major e le istituzioni coinvolte, stava per saltare e che nel mondo artistico stavano circolando correnti di pensiero sempre meno conformiste e sempre più progressiste. Stava per scatenarsi la “Caccia alle streghe” promossa dal senatore McCarthy e l’istituto della censura, ormai allertato, stava per abbattersi con violenza verso alcune delle migliori figure cinematografiche.
L’impegno e la professionalità con cui decine di artisti mitteleuropei profusero le loro migliori energie, assieme alla loro particolare sensibilità e alle dure esperienze vissute nei loro Paesi di origine, cambiarono Hollywood al punto che diversi registi americani si convinsero a realizzare opere ispirandosi a quel tipo particolare di cinema e, a volte, con risultati apprezzabili.
Basti pensare a Howard Hawks con IL GRANDE SONNO (The Big Sleep) 1946 (anche se di noir vero e proprio non si può parlare, visti certi spunti che hanno più a che fare con la commedia, genere in cui egli era un vero gigante. Forse il regista che ha diretto il miglior noir american-born è Delmer Daves con LA FUGA (Dark Passage),1947. Memorabili sono le inquadrature e l’atmosfera che grava su questo capolavoro. Non dimentichiamo poi Raoul Walsh che, specializzato in film di gangster e in western, riesce a infondere in uno di questi e cioè NOTTE SENZA FINE (Pursued),1947, riuscendo in un’impresa ai limiti del possibile: ottenere da un genere essenzialmente chiaro, lineare, senza incertezze, un film pieno di ansie, rancori sopiti, scenografie da incubo, tipici del noir.
Il discorso sarebbe comunque da allargare ed importante sarebbe poter parlare dei maggiori interpreti del noir, come Fritz Lang, Edgar G. Ulmer, Robert Siodmak, Otto Preminger e il geniale e poliedrico Billy Wilder, dei tecnici della luce come John Alton, di attori come Edward G.Robinson ecc.
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Title
Cinema realista o consolatorio?
(no title)
Content
Giovanni Bertone è un personaggio che Indro Montanelli conobbe nel carcere di San Vittore nel 1944. La sua storia (anche se romanzata dallo stesso giornalista) lo convinse a scrivere un racconto che a Rossellini piacque al punto di decidersi a dirigere il film IL GENERALE DELLA ROVERE, ancor prima che il racconto venisse pubblicato (caso rarissimo). Si tratta di una persona vile, meschina, baro, truffatore che, tratto in arresto dai tedeschi, viene da questi convinto a fingersi un importante generale badogliano (contrario alla continuazione della guerra a fianco del Duce) per scoprire e poi denunciare un capo della Resistenza presente nel carcere. Si sa come finisce: Bertone, invece di tradire, ritrova un barlume di dignità e, continuando, ma stavolta con tutt’altro spirito, la sua messinscena, affronta il plotone d’esecuzione rincuorando i suoi compagni di sventura.
Il film è del 1959 ed è, forse, l’ultimo esempio importante del neorealismo( se non altro perché generato in piena guerra). Dello stesso anno è LA GRANDE GUERRA di Mario Monicelli, che andrebbe invece annoverato tra i migliori film della Commedia all’italiana. E’ la storia di due soldati italiani, Oreste Jacovacci (Alberto Sordi) e Giovanni Busacca (Vittorio Gassman), pessimi guerrieri e ottimi scansafatiche che vengono catturati dagli austriaci e minacciati di esecuzione sommaria (visto che non indossano l’uniforme), se non sveleranno al nemico importanti informazioni militari. All’inizio, i due sembrano disposti a parlare, ma la tracotanza e lo scherno anti-italiano dell’ufficiale nemico, li spinge a non collaborare e preferire la fucilazione.
Due film, stesso anno e un altro elemento comune: la parabola morale che va da un tipo di vita non encomiabile a un estremo sussulto di dignità che ne fa degli eroi.
L’italiano che esce da questi due film è lo stereotipo dell’immagine che in quegli anni, ma ancora oggi persiste (come ad esempio in America), e che è visione di noi stessi, della nostra vita quotidiana, della nostra storia e delle nostre varie vicissitudini, e cioè quella di un popolo di individui allegri, simpatici, laboriosi, ma privi di senso civico e civile, pronti ad abdicare alla propria dignità pur di ottenere in cambio dei favori, un popolo di ignoranti e di cialtroni, capace però di scelte insperate ed eroiche, riscattando così una vita vissuta indegnamente.
E’, come si vede, un’immagine abbastanza realistica da un lato, ma anche, in certo modo, consolatoria da un altro. Il messaggio che se ne ricava è più o meno questo: sì, è vero, siamo fatti così e così, ma, quando serve veramente, non siamo inferiori a nessuno. Certi avvenimenti, poi, sembrerebbero dare credito a questa visione. Pensiamo alla rotta di Caporetto. Tutto sembrava perduto. In pochi mesi, però, gli italiani riuscirono a sconfiggere gli austro-ungarico-tedeschi e vincere la guerra. Oppure pensiamo alla Resistenza. L’8 settembre è sicuramente una della date più infauste della nostra storia. Ancora oggi paghiamo le conseguenze di quei momenti tremendi, in cui un intero Paese si dissolse, in cui ogni istituzione, ogni baluardo militare, civile e morale sembrava definitivamente perduto e la nostra stessa unità nazionale era ormai alla mercé delle Potenze vincitrici. La Resistenza fu un estremo ridotto cui si aggrapparono poche migliaia di nostri connazionali che valse per ottenere condizioni meno disastrose nei nostri riguardi e salvò, anche se solo in parte, la nostra dignità e il nostro onore diventando per forza l’elemento cardine su cui si fondò la nostra Costituzione.
Questa visione però non esaurisce il discorso su chi sono veramente gli italiani. Siamo veramente così oppure ci fa comodo pensare di esserlo? Gli anni della Commedia all’italiana sembrerebbero contraddire quest’idea auto-assolutoria. Al di là della facile caricatura, delle operette farsesche, leggere, inconsistenti e superficiali, ci sono opere che inducono a riflessioni un po’ meno consolatorie. Prendiamo films come IL SORPASSO (1962) dI Dino Risi oppure IL BOOM (1963) di Vittorio De Sica. L’Italia che ne esce non prevede un finale catartico. Anzi, scopriamo che ne esce un’Italia moralmente a pezzi, dove a trionfare non sono coloro che hanno segnato il riscatto del nostro Paese. A trionfare è il cialtrone interpretato da Gassman e non il giovane e serio studente che è un po’ la nuova Italia, quella che si vorrebbe. No, a vincere è, ora come prima, la vecchia Italia di sempre, rappresentata dal buffone simpatico, superficiale, ignorante e maleducato. E’ un film, questo, magistrale per come sa condensare in due tipologie umane la società italiana all’inizio del miracolo economico. Il ritratto è crudele, pessimista, senza appello.
E’ un po’ quello che succede ne IL BOOM: l’Italia che è uscita dalla guerra non è quella sognata dai padri costituenti, ma un Paese profondamente marcato da ingiustizia, disuguaglianze sociali e vuoto morale. Giovanni Alberti (interpretato da Sordi) è un giovane che, senza capitali iniziali, vorrebbe intraprendere un’attività imprenditoriale nel settore edilizio. Non trova nessuno a sostenerlo: non le banche, non gli amici. La moglie, viste le difficoltà economiche e abituata a una vita agiata, lo lascia. Il seguito del film è ben noto: grazie alla cessione di un occhio, Giovanni riconquisterà, grazie ai soldi ricevuti per quella cessione, moglie, amici e fiducia delle banche. Un racconto amarissimo e senza speranza.
Italia: un Paese allora senza speranza? Inutile farsi illusioni? Mussolini, negli anni di guerra, ad un certo punto, scorato, si lasciò sfuggire la famosa frase: “Governare gli italiani non è difficile, è inutile”. L’Italia dei 64 governi in 70 anni, l’Italia perenne fanalino di coda in Europa, indietro praticamente su tutto, sempre meno autorevole, sempre meno ascoltata, gravata da un debito pubblico mostruoso … ? E’ questa l’immagine che diamo al mondo? Se il cinema è specchio della vita, dovremmo dire di sì. Ma, come si diceva all’inizio, spesso intervengono fattori che tendono a modificare nel bene o nel male la realtà.
Si diceva, all’inizio, che nel neo realismo c’era un tentativo di edulcorare l’amara pillola di una realtà altrimenti insopportabile; si descriveva la realtà di quegli anni (dalla caduta del fascismo ai primi segnali di crescita e sviluppo) in modo onesto, sincero, ma con un pizzico di speranza; del resto ci pensavano classe politica e censura a nascondere determinati aspetti imbarazzanti: basti pensare alla presa di posizione dell’onorevole Andreotti e il bisogno di “lavare i panni sporchi in casa” o ai processi per lesa maestà a chi aveva osato denigrare le Forze Armate (come accadde con LA GRANDE GUERRA e non solo). Ma la realtà è quella che è.
E’ la realtà di una società di cui non si intravedono chiari segnali di cambiamento, realtà di un mondo perennemente alle prese con scandali, corruzione, incapacità politica cui gli italiani sembrano essersi assuefatti. Si sono scritti decine di volumi sulle cause, recenti e remote, del caos del nostro paese, ben anteriori al ventennio fascista. Ma anche la miglior indagine non riuscirà mai a modificare la realtà. Il cinema, certo cinema, è chiaro, a volte, e nei casi migliori, specchio del nostro Paese, svolge un lavoro estremamente delicato e utile. Rappresentare i nostri mali in modo crudele come fanno ad esempio Paolo Virzì ne IL CAPITALE UMANO (2013), oppure Matteo Garrone con GOMORRA (2008), oppure ancora Ivano De Matteo ne I NOSTRI RAGAZZI (2014) ed altri che non cito perché l’elenco sarebbe troppo lungo, è molto importante, perché indica che, malgrado tutto, esiste una società non solo incivile, razzista e cafona, ma anche un’altra molto diversa, solidale e ancora fondata sui valori.
L’elemento che mi sembra di cogliere in questo momento particolare è che il cinema italiano è cresciuto, è maturato e riesce a captare i primi fermenti di una società che si ribella, che ha finalmente il coraggio di dire di no, di rifiutare i vecchi schemi, le vecchie semplificazioni. Non è più il grido solitario di protesta ma è qualcosa che sta crescendo. E il cinema lo sta capendo.
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Giovanni Bertone \u00e8 un personaggio che Indro Montanelli conobbe nel carcere di San Vittore nel 1944. La sua storia (anche se romanzata dallo stesso giornalista) lo convinse a scrivere un racconto che a Rossellini piacque al punto di decidersi a dirigere il film IL GENERALE DELLA ROVERE, ancor prima che il racconto venisse pubblicato (caso rarissimo). Si tratta di una persona vile, meschina, baro, truffatore che, tratto in arresto dai tedeschi, viene da questi convinto a fingersi un importante generale badogliano (contrario alla continuazione della guerra a fianco del Duce) per scoprire e poi denunciare un capo della Resistenza presente nel carcere. Si sa come finisce: Bertone, invece di tradire, ritrova un barlume di dignit\u00e0 e, continuando, ma stavolta con tutt\u2019altro spirito, la sua messinscena, affronta il plotone d\u2019esecuzione rincuorando i suoi compagni di sventura.
Il film \u00e8 del 1959 ed \u00e8, forse, l\u2019ultimo esempio importante del neorealismo( se non altro perch\u00e9 generato in piena guerra). Dello stesso anno \u00e8 LA GRANDE GUERRA di Mario Monicelli, che andrebbe invece annoverato tra i migliori film della Commedia all\u2019italiana. E\u2019 la storia di due soldati italiani, Oreste Jacovacci (Alberto Sordi) e Giovanni Busacca (Vittorio Gassman), pessimi guerrieri e ottimi scansafatiche che vengono catturati dagli austriaci e minacciati di esecuzione sommaria (visto che non indossano l\u2019uniforme), se non sveleranno al nemico importanti informazioni militari. All\u2019inizio, i due sembrano disposti a parlare, ma la tracotanza e lo scherno anti-italiano dell\u2019ufficiale nemico, li spinge a non collaborare e preferire la fucilazione.
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Due film, stesso anno e un altro elemento comune: la parabola morale che va da un tipo di vita non encomiabile a un estremo sussulto di dignit\u00e0 che ne fa degli eroi.
L\u2019italiano che esce da questi due film \u00e8 lo stereotipo\u00a0dell’immagine che in quegli anni, ma ancora oggi persiste (come ad esempio in America),\u00a0e che \u00e8\u00a0visione di noi stessi,\u00a0della nostra vita quotidiana, della nostra storia e delle nostre varie vicissitudini,\u00a0 e cio\u00e8 quella di\u00a0 un popolo di individui\u00a0allegri, simpatici, laboriosi, ma\u00a0privi di senso civico e civile, pronti ad abdicare alla propria dignit\u00e0 pur di ottenere in cambio dei favori, un popolo di ignoranti e di cialtroni, capace per\u00f2 di scelte insperate ed eroiche, riscattando cos\u00ec una vita vissuta indegnamente.
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E\u2019, come si vede, un\u2019immagine abbastanza realistica da un lato, ma anche, in certo modo, consolatoria da un altro. Il messaggio che se ne ricava \u00e8 pi\u00f9 o meno questo: s\u00ec, \u00e8 vero, siamo fatti cos\u00ec e cos\u00ec, ma, quando serve veramente, non siamo inferiori a nessuno. Certi avvenimenti, poi, sembrerebbero dare credito a questa visione. Pensiamo alla rotta di Caporetto. Tutto sembrava perduto. In pochi mesi, per\u00f2, gli italiani riuscirono a sconfiggere gli austro-ungarico-tedeschi e vincere la guerra. Oppure pensiamo alla Resistenza. L\u20198 settembre \u00e8 sicuramente una della date pi\u00f9 infauste della nostra storia. Ancora oggi paghiamo le conseguenze di quei momenti tremendi, in cui un intero Paese si dissolse, in cui ogni istituzione, ogni baluardo militare, civile e morale sembrava definitivamente perduto e la nostra stessa unit\u00e0 nazionale era ormai alla merc\u00e9 delle Potenze vincitrici. La Resistenza fu un estremo ridotto cui si aggrapparono poche migliaia di nostri connazionali che valse per ottenere\u00a0condizioni meno\u00a0disastrose nei nostri riguardi e salv\u00f2, anche se solo in parte, la nostra dignit\u00e0 e il nostro onore diventando per forza l\u2019elemento cardine su cui si fond\u00f2 la nostra\u00a0Costituzione.
Questa visione per\u00f2 non esaurisce il discorso su chi sono veramente gli italiani. Siamo veramente cos\u00ec oppure ci fa comodo pensare di esserlo? Gli anni della Commedia all\u2019italiana sembrerebbero contraddire quest\u2019idea auto-assolutoria. Al di l\u00e0 della facile caricatura, delle operette farsesche, leggere, inconsistenti e superficiali, ci sono opere che inducono a riflessioni un po\u2019 meno consolatorie. Prendiamo films come IL SORPASSO (1962) dI Dino Risi oppure IL BOOM (1963) di Vittorio De Sica. L\u2019Italia che ne esce non prevede un finale catartico. Anzi, scopriamo che ne esce un\u2019Italia moralmente a pezzi, dove a trionfare non sono coloro che hanno segnato il riscatto del nostro Paese. A trionfare \u00e8 il cialtrone interpretato da Gassman e non il giovane e serio studente che \u00e8 un po\u2019 la nuova Italia, quella che si vorrebbe. No, a vincere \u00e8, ora come prima, la vecchia Italia di sempre, rappresentata dal buffone simpatico, superficiale, ignorante e maleducato.\u00a0\u00a0E’ un film, questo, magistrale per come sa condensare in due tipologie umane\u00a0 la societ\u00e0 italiana all’inizio del miracolo economico. Il ritratto \u00e8 crudele, pessimista, senza appello.
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Italia: un Paese allora senza speranza? Inutile farsi illusioni? Mussolini, negli anni di guerra, ad un certo punto, scorato, si lasci\u00f2 sfuggire la famosa frase: "Governare gli italiani non \u00e8 difficile, \u00e8 inutile\u201d. L\u2019Italia dei 64 governi in 70 anni, l\u2019Italia perenne fanalino di coda in Europa, indietro praticamente su tutto, sempre meno autorevole, sempre meno ascoltata, gravata da un debito pubblico mostruoso \u2026 ? E\u2019 questa l\u2019immagine che diamo al mondo? Se il cinema \u00e8 specchio della vita, dovremmo dire di s\u00ec. Ma, come si diceva all\u2019inizio, spesso intervengono fattori che tendono a modificare nel bene o nel male la realt\u00e0.
Si diceva, all’inizio, \u00a0che nel neo realismo\u00a0c\u2019era un tentativo di edulcorare l\u2019amara pillola di una realt\u00e0 altrimenti insopportabile; si descriveva la realt\u00e0 di quegli anni (dalla caduta del fascismo ai primi segnali di crescita e sviluppo) in modo onesto, sincero, ma\u00a0con un pizzico di speranza; \u00a0del resto ci pensavano classe politica e censura a nascondere determinati aspetti imbarazzanti: basti pensare alla presa di posizione dell\u2019onorevole Andreotti e il bisogno di \u201clavare i panni sporchi in casa\u201d o\u00a0ai processi per lesa maest\u00e0 a chi aveva osato denigrare le Forze Armate (come accadde con LA GRANDE GUERRA e non solo). Ma la realt\u00e0 \u00e8 quella che \u00e8.
E’ la realt\u00e0 di una societ\u00e0 di cui non si intravedono chiari segnali di cambiamento,\u00a0 realt\u00e0 di un mondo perennemente alle prese con scandali, corruzione, incapacit\u00e0 politica cui gli italiani sembrano essersi assuefatti. Si sono scritti decine di volumi sulle cause, recenti e remote, del caos del nostro paese, ben anteriori al ventennio fascista. Ma anche la miglior indagine non riuscir\u00e0 mai a modificare la realt\u00e0. Il cinema, certo cinema, \u00e8 chiaro, a volte, e nei casi migliori,\u00a0specchio del nostro Paese, svolge un lavoro estremamente delicato e utile. Rappresentare i nostri mali in modo crudele come fanno ad esempio Paolo Virz\u00ec ne IL CAPITALE UMANO (2013), oppure Matteo Garrone con GOMORRA (2008), oppure ancora Ivano De Matteo ne I NOSTRI RAGAZZI (2014) ed altri che non cito perch\u00e9 l\u2019elenco sarebbe troppo lungo, \u00e8 molto importante, perch\u00e9 indica che, malgrado tutto, esiste una societ\u00e0 non solo incivile, razzista e cafona, ma anche un\u2019altra molto diversa, solidale e ancora fondata sui valori.
L\u2019elemento che mi sembra di cogliere in questo momento particolare \u00e8 che il cinema italiano \u00e8 cresciuto, \u00e8 maturato e riesce a captare i primi fermenti di una societ\u00e0 che si ribella, che ha finalmente il coraggio di dire di no, di rifiutare i vecchi schemi, le vecchie semplificazioni. Non \u00e8 pi\u00f9 il grido solitario di protesta ma \u00e8 qualcosa che sta crescendo. E il cinema lo sta capendo.
Per anni sono vissuto nella convinzione, argomentata e impeccabile, che il doppiaggio fosse una sorta di tradimento. Cancellare la voce del protagonista e sostituirla con quella di un doppiatore era ritenuto, in certi ambienti, scorretto. Si sosteneva che la voce originale facesse un tutt’uno con il film e che il doppiaggio rompesse quell’unità inscindibile fra voce, attore e scena.
Poco a poco però, è maturata in me l’idea che il doppiaggio, se eseguito da ottimi interpreti, ci avvicinasse meglio alla comprensione del film.
I miei studi linguistici e i molti film visti in originale mi hanno gradualmente portato ad alcune riflessioni che rivalutano l’uso del doppiaggio.
Mario Besesti
Lungi da essere tipico di un Paese arretrato culturalmente, come generalmente il doppiaggio veniva qualificato, esso aiuta lo spettatore a comprendere ad entrare meglio nel personaggio.
Il doppiaggio di cui parlo è quello evidentemente eseguito da veri professionisti e da interpreti traduttori di alto profilo. Non mi riferisco, è chiaro, a certe traduzioni (veri e propri tradimenti) affrettate e dilettantistiche e a certi doppiaggi eseguiti alla bell’è meglio per risparmiare sui costi.
Tina Lattanzi
In effetti, se ci riferiamo alla versione originale sottotitolata, devo dire che quasi mai ho notato una precisa rispondenza nella nostra lingua rispetto all’originale. E’ vero ovviamente che questo attiene alla traduzione in sé, senza particolare riferimento ai sottotitoli. E’ estremamente difficile rendere in italiano le sottigliezze e i giochi di parole dei testi originali stranieri, non è una novità. Questo poi è particolarmente vero riguardo appunto ai sottotitoli di un film, eseguiti perlopiù da buoni traduttori che però non possono perdere troppo tempo in sottigliezze interpretative. Questo mortifica parecchio la versione originale, svilita e impoverita da sottotitoli semplificati e poco incisivi.
Ferruccio Amendola
Mi riferisco qui in particolare al doppiaggio vero e proprio, senza sottotitoli. La fortuna del nostro Paese è quella di godere di una tradizione superba di doppiatori di altissima qualità.
Francesco Pannofino
Assistere a un film in originale, leggendo i sottotitoli (per la stragrande maggioranza di coloro che non conoscono a perfezione qualche lingua straniera), è un’esperienza che non è mai compiuta, completa, definitiva.
Sentir parlare Clark Gable e comprenderlo attraverso dei sottotitoli è un avvicinamento alla completezza, ma esiste un “décalage” che lascia sempre un po’ di amaro in bocca, almeno per i palati esigenti e cioè i cinefili.
Oreste Lionello
Se invece il doppiaggio è eseguito da interpreti di grandi capacità, riusciamo a comprendere meglio il personaggio, ma attenzione, non solo per le parole che dice ma anche per la varietà di toni, le flessibilità, le vibrazioni della voce. Abbiamo dei doppiatori, per fortuna, che studiano bene il personaggio e che riescono a interpretarlo quasi perfettamente.
Riusciamo quindi a capire certe pieghe interpretative che l’attore originale intende includere nella sua recitazione se vengono rese bene anche nel doppiaggio.
Luca Ward
Prendiamo il caso di Roberto Pedicini nella sua interpretazione di Kevin Spacey in HOUSE OF CARDS. Oppure, se vogliamo andare più indietro, come non ricordare l’immenso Emilio Cigoli? Il suo lavoro in L’OSCAR INSANGUINATO, quando interpreta Vincent Price, è a dir poco straordinario. Oppure ancora Ferruccio Amendola quando interpretava Bob De Niro. E che dire di Oreste Lionello doppiatore di Woody Allen? Allen stesso, pur favorevole alla versione originale, si complimentò con Lionello stesso per come riusciva ad entrare nel personaggio, nelle sue balbettanti elucubrazioni intellettuali, nei suoi tic, nelle sue pause ed incertezze.
Non potendo capirlo nell’originale, abbiamo la possibilità di avvicinarci alla sua compiutezza, con il vantaggio di sentirlo più nostro, visto che vengono per forza usati modi di dire italiani, dato che certe espressioni, certi modismi anglosassoni, non otterrebbero da noi la stessa comprensione e partecipazione emotiva.
Giancarlo Giannini
In fondo, vedere un film è anche partecipazione emotiva. Quale migliore modo di entrare nella complessità di un personaggio, se non quello di capire non solo ciò che si dice, ma soprattutto come si dice?
Certo, esiste il rischio del birignao, un difetto che accadeva per esempio, a Tina Lattanti. Il lavoro del doppiatore, in questi casi, dà più importanza al proprio modo di “sentire”il personaggio, infarcendolo di “decorazioni” vocali non necessarie e superflue, che finiscono per “tradire” l’attore originale.
Oppure esiste il rischio di interpretare male, ma questo avviene raramente nelle produzioni di qualità. Il doppiatore tiene troppo alla propria dignità professionale per rischiarla così alla leggera.
La cosa strana è che difficilmente un grande doppiatore è pure un grande attore. Forse perché l’arte del doppiaggio è sentita “inferiore” a quella della recitazione.
In questi giorni sto apprezzando in modo particolare il lavoro di Roberto Pedicini: non mi riferisco alle splendide interpretazioni dei personaggi di Ralph Fiennes, Woody Harrelson, Jim Carrey e Javier Bardem fra gli altri. Penso soprattutto con ammirazione al lavoro che ha compiuto sul personaggio di Frank Underwood interpretato da Kevin Spacey. L’intensità, la precisione, ma soprattutto le sfumature della recitazione sono un motivo, non foss’altro che questo, per non perdere quella serie tv.
In casi come questo, ci si rende conto che il montaggio diventa un valore in sé, a prescindere dalla qualità del film. La voce suadente, gli improvvisi sbalzi di tono, la cantilena che arricchiscono il personaggio di Underwood, aprono squarci di luce sulla psicologia di quel detestabile politico lobbista, aiutano a svelarne le ambiguità e il sostanziale tentativo manipolatore. Quante volte riusciamo a percepire, con un po’ di attenzione, le incrinature, le piccole pause che rivelano le vere intenzioni di chi ci sta di fronte?
Maria Pia De Meo
Credo che sia possibile, addirittura, migliorare con un doppiaggio di alta qualità la resa vocale di un personaggio, ma sarebbe oltremodo rischioso farne una scuola di pensiero.
Quando il compianto Claudio G.Fava ebbe l’idea di istituire un festival per il doppiaggio, ne comprendeva perfettamente il valore, oltre che tecnico, anche artistico. Effettivamente, una manifestazione così restituisce la giusta dimensione a professionisti che ci hanno fatto amare tanti attori, più ancora di quanto sarebbe accaduto se ci fossimo limitati a leggerne i dialoghi nei sottotitoli.
La teoria autoriale (Auteurism o, per meglio dire, la théorie des auteurs, alla francese, visto che si deve alla critica d’oltralpe la sua elaborazione), all’inizio, mi sembrava assolutamente centrata. Mi aveva convinto il particolare approccio che i vari Bazin, Truffaut e Rohmer avevano saputo elaborare. Mi affascinava l’ardita impalcatura filosofica che sottendeva l’opera d’arte, la sicurezza con cui condannavano o esaltavano i registi, partendo dall’assunto che si riconosce l’autore solo se di questo si riesce ad individuare determinate caratteristiche nella sua direzione o messa in scena. Se queste caratteristiche si rivelano, diamo di fronte a un vero autore, altrimenti no, detto così in soldoni.
Ecco allora l’esaltazione di registi come Wyler, Hawks, Hitchcock e Nicholas Ray.
Poco a poco, però, mi sorgevano sempre più dubbi riguardo alla fondatezza di questa teoria.
Capivo che era sempre più una questione di gusti e quindi soggettiva, più che un metodo sistematico e obiettivo.
Non riuscivo a capire, per esempio, come mai restavano fuori dalla “lista” autoriale, registi come Hathaway, Fleischer, Frankenheimer e Robert Wise.
O meglio, lo capivo, ma non ero d’accordo nel non tenere in considerazione dei registi che, a mio avviso, avevano dimostrato, in varie occasioni, di dirigere film straordinari.
In questi giorni, ad esempio, ho visto un film che alla stragrande maggioranza del pubblico non dice nulla. Si tratta di DUE BANDIERE ALL’OVEST, di Robert Wise, della 20th Century Fox, la cui tematica ricorda un poco SIERRA CHARRIBA di Peckinpah. La presenza di attori come Joseph Cotten, Jeff Chandler, Linda Darnell e Cornel Wilde, arricchisce una trama interessante e infonde un registro drammatico che eleva la qualità del film oltre la categoria di B-Movie, come era nel progetto della FOX e di quel vero genio della produzione che era Darryl Zanuck.
Delle due l’una, o il livello dei B-Movie era, anche nel western, di grande professionalità al punto da competere spesso con i film ad alto budget, oppure ci troviamo di fronte alla conferma che, poiché la critica non ha mai considerato altro che un buon artigiano il buon Wise, questo film sia uno dei tanti western minori da dimenticare, fatti solo far lavorare gli attori sotto contratto e contare su entrate sicure, pur se limitate.
Il peccato di cui Wise è, secondo i critici che scrivevano allora per CAHIERS DE CINEMA, colpevole è quello di avere disperso i temi a lui cari in una lunga serie di film appartenenti ai generi più svariati. Troppi e troppo diversi i generi, i temi su cui ha lavorato. Quando un regista fa questo, diventa, secondo la teoria autoriale, troppo dipendente dai voleri dei suoi capi e rinuncia alle sue idee pur di lavorare. Così facendo, il suo cinema diventa un lavoro su commissione e non più un terreno su cui esprimere la sua visione del cinema e del mondo.
Nel caso di Wise, scrivevano:”Il puro tecnico. I suoi primi film furono scoppiettanti, ma pare che faccia fatica ora a mantenersi ad un livello elevato., per mancanza, senza dubbio, di un bisogno interiore profondo. Il suo stile finisce per apparire come un insieme di trucchi che usa anche se con un’abilità consumata. Se la sceneggiatura non è buona, egli non salva che superficialmente il film, con una regia realizzata in modo estremamente curato, ecco quindi LA SETE DEL POTERE. Se la sceneggiatura è buona, ecco STASERA HO VINTO ANCH’IO. Se è intelligente e profonda, Wise ne viene superato ed ecco quindi LA LEGGE DEL CAPESTRO. E’ l’uomo che non delude a patto di non chiedergli troppo”.
Insomma, non una condanna totale, ma quasi. E’ solo un tecnico, insomma, un bravo artigiano.
A scanso di dubbi, questo tipo di regista è esistito, esiste ed esisterà sempre. Ciò che mi preme rilevare è il pericolo che, in questo modo, non vengano adeguatamente valorizzati i meriti di molti registi.
A Wise, molto probabilmente, non interessava molto essere considerato un autore, visto che gli veniva riconosciuta una professionalità e una capacità non comuni proprio dalle massime autorità ed istituzioni cinematografiche americane, avendo vinto nel 1961 l’Academy Award per il miglior film e come miglior regista per WEST SIDE STORY, essendo stato a capo del Directors Guild of America dal 1971 al 1975 e presidente della Academy of Motion Pictures and Sciences dal 1984 al 1987.
Wise piaceva ai produttori perché era particolarmente meticoloso nella preparazione, nell’organizzazione del lavoro e nella conoscenza del mezzo tecnico. I riconoscimenti ricevuti erano dovuti in buona parte al fatto che Wise non aveva mai fatto perdere denaro agli Studios e questo, per gli americani e non solo, è un elemento straordinariamente importante.
Stranamente, ma non tanto, questi riconoscimenti fanno sempre arricciare il naso alla critica. Più un regista piace ai produttori, meno piace alla critica. E’ comprensibile, certo, ma non dovrebbe essere una regola.
A Wise. Insomma, è stata rimproverata la mancanza di personalità (caratteristica comune a tutti i registi non autori). Un grande regista si caratterizza per la sua personalità, secondo gli “autoristi”. Ora, Wise, secondo loro, ha diretto film impersonali, carenti di una chiara linea di continuità, di coerenza con il suo stile. Ma a Wise non interessa questo. In effetti, esiste il pericolo di “pensare” un film incanalandolo su linee stilistiche, narrative e visive che riconducano il loro autore agli stilemi suoi propri, ma allontanandolo da soluzioni che avrebbero richiesto altre scelte e che meglio avrebbero interpretato lo spirito di quel determinato film.
Cioè, un regista un po’ megalomane cerca di asservire un film alla sua visione del mondo e alle sue regole, mentre un altro cerca in un racconto lo spirito che lo anima e tenta di interpretarlo.
Se allora dovessimo interpretare un film, seguendo i rigidi canoni della teoria autoriale, rischiamo di perdere di vista delle opere e dei registi che affrontano a modo loro il film, preoccupati di interpretarlo di volta in volta, e in modo diverso.
Ma uno dei punti deboli più richiamato da molti critici è, l’esatto opposto. Intendo dire che, se da un lato, non si tengono in considerazione le opere dei registi non ritenuti “autori”, dall’altro, si esaltano opere decisamente minori di questi registi, opere non all’altezza dei loro film più riusciti.
Considerare film d’autore opere minori di Ray, Hawks, Ford è un’assurdità, una sfida al buon senso. Così come va contro il senso comune ignorare la filmografia di tanti registi, magari meno famosi o celebrati dalla critica.
Per Wise “il film è soprattutto un veicolo destinato ad interessare, avvincere, affascinare, commuovere un pubblico e, al meglio, ad insegnargli qualcosa di nuovo su certi aspetti della vita, della società e del mondo. Almeno a sensibilizzarlo su di essi”.
Credo che, autore o no, Wise debba avere il rispetto che merita e anche qualcosa di più.
Le foto che ho scelto si riferiscono a film che più di altri suoi mi hanno colpito e convinto.
Io, voi, noi tutti abbiamo conosciuto Wendell Corey. Era il tipo vestito sempre inappuntabile, assorto nella lettura del giornale, che sedeva accanto a noi in metropolitana. Oppure quel signore in giacca, cravatta e impermeabile che vedevamo ogni giorno uscire dalla porta di casa accanto alla nostra, sempre alla stessa ora e rincasare puntuale, senza mai fermarsi a bere un cicchetto al bar vicino al posto di lavoro.
Il classico travet, l’uomo in grigio (“in a flannel grey suit”) che abita vicino a noi, prende il bus con noi, che scambia poche parole, impegnato a leggere il giornale o, a volte, a fissare il vuoto.
Il classico tipo che un giorno leggi che ha ammazzato moglie e figlio e si è poi sparato alla tempia.
Il mondo è pieno di Wendell Corey.
Il mondo è pieno di individui all’apparenza insignificanti, tutto casa,lavoro e chiesa, poco inclini ad attaccare discorso, chiusi in loro stessi, sentimentalmente stitici, immersi nel loro piccolo mondo fatto di quotidianità banale, di sorrisi forzati, di frasi di circostanza, di amore per dovere, di priorità contabili, ragionieristiche, di assenze, di mancanze. Qualcosa, nella loro infanzia, li ha segnati per sempre. Forse la paura del padre, la soggezione, l’ansia di non deludere. I personaggi di Wendell Corey sono uomini grigi, senza slanci, senza entusiasmo che non sanno amare né odiare. Il loro è un mondo orizzontale, piatto e senza emozioni. E’ una pentola a pressione che, in taluni casi, arriva a scoppiare. E quando succede, si aprono squarci di imprevedibilità, di prateria sconfinate dove arrivano folate di gelida e spesso lucida violenza, di psicopatia assoluta, di improvvisi salti nell’orrido dove nulla è negato, nemmeno gli atti più orrendi. Salvo poi, passata la folle folata, lasciare il posto al barlume di coscienza che, nonostante tutto, ha illuminato di luce fioca un’esistenza senza tepori, fredda e buia, generatrice di mostri interiori.
Ma in Wendell Corey, a redimerne il terreo volto dell’insignificanza, intervengono due occhi azzurri di ghiaccio, stupendi, come false promesse di felicità presente e futura, subito spente, tradite da una natura gregaria, passiva, conformista, timida e ignava.
La timidezza, ecco. La soggezione ha prodotto, generato il mostro timido che non vorrebbe esserlo, ma incapace di vincere la propria natura, proprio come lo scorpione che, cosciente di perdere la vita se punge la rana in mezzo allo stagno, è “costretto” a farlo.
La sua natura però è facilmente influenzabile, specie se si tratta di una persona di forte volontà. Il ricordo del padre continua ad agire su di lui e, davanti ad una donna che gli prospetta una possibile relazione, pur se pesantemente inguaiata con la legge, cede e finisce per autodistruggersi. E’ il caso di IL ROMANZO DI THELMA JORDAN (1949) di Robert Siodmak. La donna in questione non poteva che essere Barbara Stanwyck, icona dell’io femminile in perenne competizione con il maschio, simbolo (assieme a Bette Davis e a Joan Crawford) della donna virile, spietata e cinica, pur se capace, in altre occasioni, di immense prove di generosità e amore senza confini.
Il suo istinto di travet, la sua natura gregaria lo inducono ad accettare compromessi illeciti con qualcuno più sveglio e con meno scrupoli di lui. E’ il caso di Noll (Kirk Douglas) in LE VIE DELLA CITTA’ (1948) di Byron Haskin. Tuttavia, la sua natura di esecutore e piccolo e grigio contabile si riverbera nella sua sostanziale ingenuità, quando rivela a Noll che intende procedere contro di lui, firmando così la propria condanna a morte.
Questo suo carattere introverso, questa sua indole usa ad accettare umiliazioni e sconfitte, può, come si è detto, arrivare al punto di rottura, quando cioè la ragione della sua vita (la moglie) viene uccisa, anche se per errore durante uno scontro a fuoco con la polizia, venuta ad arrestarlo per aver pianificato una rapina nella propria banca. Il senso della sua vita, ora che non ha più nulla al mondo, è evadere e colpire la moglie del poliziotto che ha ucciso la sua. E’ il film più inquietante della sua carriera: è un pazzo, lucido, ormai scatenato, perché ha perso i vincoli morali, la soggezione e la timidezza, caratteristiche della sua personalità monca, incompiuta, inespressa. Il film è chiaramente L’ASSASSINO E’ PERDUTO (1956) di Budd Boetticher. Il suo aspetto esterno è ormai solo un involucro a perdere. In lui è cambiato tutto: è un mutante passato da una fase letargica durata decenni a una esplosiva che lo condurrà in breve alla morte.
Nel 1954, Hitchcock scelse lui per il ruolo del tenente Thomas Doyle in LA FINESTRA SUL CORTILE. Aveva bisogno di un poliziotto poco incline alle fantasie, ancorato alla dura quotidianità, intelligente, ma non troppo sveglio, metodico e poco propenso agli scatti di genio, familiare quel tanto da prendersi un incarico extra non troppo sul serio. Insomma, un uomo alla Wendell Corey.
Come dicevo prima, i suoi occhi di un azzurro intenso inducono a credere che quest’uomo alberghi sentimenti e passionalità tali da sedurre chiunque. Ad uno sguardo più severo, quegli occhi sono freddi come una lastra da obitorio e lo sguardo che ne deriva sono promesse di morte.
Era nato a Dracut, Massachusets, nel 1914 e suo padre era un pastore congregazionista. Studia a Springfield e comincia a lavorare in teatro fino ad essere notato, nel 1945, da Hal Wallis (allora produttore alla Paramount, dopo essere stato il geniale producer che tutti sappiamo alla Warner Bros.)
Wallis gli propone un contratto e una carriera nel cinema e Corey accetta. Il suo primo film è FURIA NEL DESERTO(1947) di Lewis Allen. Non sarà mai un attore protagonista, ma la sua maschera inquietante intriga produttori e registi e per lui si aprirà una carriera densa di soddisfazioni ma anche di buchi neri, segnati dalla sua caduta nell’alcolismo che lo porterà, nel 1968, all’età di 54 anni, a morire di cirrosi epatica.
Perché Wendell Corey? Perché il cinema americano deve molto ad attori come lui, onesti mestieranti, con qualche scintilla di talento, confinati troppo spesso nella cantina degli oggetti non di pregio, salvo poi, in certe occasioni, essere rispolverati e tirati a lucido per risplendere di luce propria.
L’arrivo dell’autunno induce a coltivare pensieri e situazioni di raccoglimento, di riflessioni sulla fine di una torrida estate e sul bisogno di tornare in se stessi, a casa propria, di chiudere le porte e apprestarsi a vivere un lungo inverno. Spesso, il ritorno a casa non è il semplice rincasare, ma il vero e proprio ritorno, per chi si è trasferito altrove, ai luoghi della propria infanzia.
Perché, ad un certo punto della vita, da parte di molti si ritorna a casa? Che cosa ci spinge tornare sui nostri passi, rinnegando, per certi versi, una fase della nostra vita? E’ forse la constatazione della nostra insoddisfazione del presente, oppure è quello strano malessere che ci prende quando ricordiamo la nostra giovinezza, le nostre speranze, i ricordi, i momenti, i paesaggi, i nostri cari, gli amici ecc.?
Ricordate Michael Sheen, nel ruolo del “pedante” Paul, in MIDNIGHT IN PARIS? All’inizio del film, riferendosi al desiderio di Gil, il protagonista, di vivere, se potesse, nella Parigi degli anni ‘20, dice :”La nostalgia è negazione, negazione di un presente infelice”.
Gil è uno sceneggiatore che vorrebbe scrivere un romanzo. Per sbarcare il lunario, gestisce un negozio-nostalgia (dove di vendono vecchi oggetti, cimeli, merce il cui solo valore è quello di riferirsi a un’epoca ormai trascorsa). Il giovane è scontento della società e del mondo in cui vive. Vorrebbe vivere in un’altra epoca, come ad esempio, nella Parigi degli anni ’20. In effetti, succede che la scontentezza del presente spinga certe persone a sognare un passato trascorso nella (falsa) illusione che in quel passato, tutto fosse migliore.
E’ insomma l’insoddisfazione del “qui e ora” e l’esaltazione di un tempo che fu.
L’uomo, essere razionale, cerca la propria felicità, ma le convenzioni sociali, le regole del vivere civile, i tabù socio-religiosi e i vincoli della propria coscienza lo obbligano a compiere delle scelte che rarissimamente gli consentono di raggiungerla. L’incapacità di raggiungerla genera uno stato di perenne disagio che, spesso, lo spinge a rompere determinati schemi, a compiere certe trasgressioni che il più delle volte lo precipitano in una situazione ancora peggiore.
In altre persone invece, come si diceva, il disagio del presente spinge molte persone a cercare altrove il luogo della possibile felicità. Si sopravvaluta allora la propria gioventù, esaltandone i momenti felici e tacendone (alla propria coscienza) gli inevitabili aspetti negativi. Oppure ci si rifugia in una presupposta “età dell’oro”, un’epoca cioè in cui le condizioni dell’umanità erano molto migliori, pur sapendo, a mente fredda, che la realtà è molto diversa.
Sono atteggiamenti, questi, presenti da sempre, anche in personalità artistiche di rilievo e che, descritti in modo letterariamente assai accattivante, hanno dato luogo a grandi opere ed hanno pure influito sulle nostre menti e sulle nostre fantasie. Quando non è inquinato da sciocca esaltazione del passato e da un rifiuto irrazionale del presente, il tema del ritorno al passato è seducente e spesso porta a riscoprire valori autentici che con l’andare del tempo si sono diluiti oppure sono del tutto svaniti.
A questo proposito andrebbero riscoperti alcuni film fra gli anni ‘60 e ’70 che ripropongono, sotto diverse angolature, il tema del ritorno a casa.
Prendiamo LE STAGIONI DEL NOSTRO AMORE(1966). Florestano Vancini, regista diseguale ma capace di ottime prove come ad esempio LA LUNGA NOTTE DEL 43, disegna il profilo di un ex-partigiano, Vittorio Borghi, intellettuale di sinistra, che, trasferitosi a Roma,scosso dal fallimento del suo matrimonio e dall’insoddisfacente relazione con una ragazza molto più giovane, si ritrova a ripercorrere criticamente la sua vita. Decide così di ritornare nel luogo dov’è nato e cioè Mantova.
Ricordi lontani, alcuni dei quali nitidi e altri più sfocati, si affollano e si ripropongono. Ma, come qualcuno ha scritto, non si dovrebbe mai ritornare nei luoghi dove si è stati felici. La delusione è sempre dietro l’angolo, poiché quei momenti di felicità hanno lasciato il posto a un presente banale, dove tutto è cambiato e nulla è e mai sarà come prima. Morandini scrive che “il film spinge fino al grottesco la critica ai cedimenti morali e politici della sinistra, in una chiave viziata da auto-indulgenti concessioni ai tormenti interiori”. E’ una posizione, a parer mio, ingenerosa e alquanto discutibile. Per una certa critica “allineata”, un ex-partigiano e uomo di sinistra, deve essere per forza condannato a vivere una militanza che prescinda dalle ragioni dei sentimenti, come una gabbia che lo renda insensibile ai tormenti interiori e totalmente dedito all’idea e alla causa.
In quegli anni, cominciava in effetti ad affacciarsi una certa deriva piccolo-borghese nella sinistra, là dove per piccolo-borghese si intendevano appunto “i cedimenti morali e politici” che vanno intesi i primi come comportamenti sessuali non in linea con la rigida ortodossia e i secondi come apertura verso ambienti politici di centro (certi ambienti della Democrazia Cristiana e del PSDI (ricordiamo che appunto in quegli anni si parla di “svolta a sinistra” da parte della DC, che sfocerà poi nel “compromesso storico”.
Va ricordato che la fine degli anni’60 segna il raggiungimento della piena maturità per coloro che, nati negli anni’20, hanno combattuto nel movimento partigiano e ora ricoprono posti più o meno importanti nella società. La Resistenza diventa, in registi come Vancini, ma non solo, come vedremo, elemento fondamentale discriminante tra chi l’ha fatta e chi l’ha combattuta. La Resistenza va intesa quindi non solo come ricordo di gioventù (per evitare appunto di cadere nel pericolo dei tormenti interiori così piccolo-borghesi), ma come spunto per rivitalizzare le proprie convinzioni politiche e sociali e ritornare alla lotta.
Quando Borghi, deluso anche dai luoghi della sua gioventù(che invece di rinfocolare in lui il fuoco sacro dell’impegno sociale lo prostrano ancora di più), perde il controllo e urla scompostamente tutta la sua disperazione, non è più l’intellettuale militante di sinistra, ma un piccolo borghese che sfoga il suo tormento per banali questioni sentimentali.
Visto da altra angolatura, Borghi è un uomo che sta vivendo una difficile crisi esistenziale e di identità. Nella speranza di ritrovare entusiasmo ed energia, ritorna nei luoghi della propria gioventù, con il risultato di bruciare anche quel piccolo lembo della propria vita ritenuto intoccabile e puro.
Il finale di LA LUNGA NOTTE DEL ’43 sembra essere una conferma. Il ritorno di Franco Villani a Ferrara, dove è nato e da cui è fuggito durante la guerra, si rivela quanto mai deludente. La guerra è ormai finita da quasi quindici anni; Franco si è nel frattempo sposato, abita all’estero e ritorna a Ferrara per visitare i luoghi che lo hanno visto crescere e rivedere magari qualche conoscente. Chi lo riconosce è invece proprio colui che si è reso responsabile di un atroce delitto. Era infatti un caporione del fascio di Ferrara che, in epoca repubblichina, scontento per la piega moderata che stanno prendendo le cose, decide di eliminare il federale Bolognesi (nella realtà si chiamava Ghisellini)e addossare la colpa ai partigiani. Quest’atto criminale provocherà la reazione bestiale dei fascisti che fucileranno, per rappresaglia, alcuni noti oppositori del regime, tra cui anche il padre di Franco.
La vita sembra prendersi quindi gioco di Franco, proponendogli un’Italia ormai lontana anche mentalmente da quegli anni ed interessata più che altro all’esito di una partita di calcio trasmessa alla tv.
Il ritorno a casa quindi, per Vancini, rappresenta il luogo della delusione, del tradimento del ricordo, della fine delle illusioni.
Un discorso apparentemente simile sembra essere quello di Alberto Bevilacqua nel film QUESTA SPECIE D’AMORE (1972). Anche qui il protagonista, Federico, ha lasciato la sua terra (Parma) per recarsi a Roma, dove sposa la figlia di un ricco uomo d’affari romano e va a vivere con lei nella di lui sontuosa villa. Un discreto successo personale non gli evita di muovere una cruda analisi della propria vita coniugale e sociale. Il rapporto con Giovanna, sua moglie, è ormai stanca routine; ha accettato compromessi di varia natura che poco a poco hanno eroso la fiducia in se stesso, la sua dignità. Suo padre viene un giorno a trovarlo. La sua presenza lo mette in piena crisi. In effetti, la sua integrità morale (ex-partigiano, incarcerato e messo al confino, comunista “duro e puro”, mette a nudo le manchevolezze del figlio.
Il ritorno di Federico a Parma diventa la ricerca delle radici solide, genuine che sono state alla base della sua formazione e che ora vorrebbe ritrovare per rifondarsi, per rifondare la sua vita.
A differenza del deludente esito del ritorno a Mantova di Borghi, Federico sembra ritrovare il senso da dare alla sua vita, riscoprire i valori che poco a poco si erano persi. Sua moglie, contro ogni aspettativa, sembra sinceramente conquistata dalla nuova figura che suo marito sta poco a poco riacquistando. Abituata alla vanità, all’effimero, alla vacuità sostanziale della sua vita, constata che il senso della vita lo danno i valori elementari ma al tempo stesso autentici: l’incontro con la madre di Federico la convince definitivamente. Quanto a Federico, dopo aver reagito a una vigliaccata compiuta da alcuni giovinastri nei confronti di suo padre, riceve da lui il regalo più bello: la sua commossa gratitudine, segno di una riconquistata dignità.
Al di là del valore del film, forse un tantino sbilanciato sul piano retorico, il tema del ritorno a casa assume quindi i connotati positivi della ritrovata dignità.
Questi due film rappresentano un punto di riferimento fondamentale per interpretare il senso del ritorno.
Il ritorno a casa va insomma interpretato non come banale e sterile desiderio di ritrovare i propri cari, i vecchi amici, i paesaggi, gli usi e costumi. Il ritorno a casa vale come riscoperta dei veri valori fondanti. E nel nostro Paese i veri valori fondanti sono, per la nostra cinematografia, quelli legati alla lotta anti-fascista, alla riconquista della libertà e della propria dignità personale e nazionale.
Se in Vancini quei valori si sono ormai perduti, in Bevilacqua essi ancora rappresentano la possibilità del riscatto morale.
Il “riflusso”, e cioè quella particolare temperie che prende il sopravvento sulla realtà socio-politica del nostro Paese soprattutto a partire dagli anni ’80, con l’arrivo del craxismo, spegnerà le speranze (o illusioni?) di un’intera generazione, chiudendo definitivamente la partita con l’eredità della Resistenza. Oggi, il ritorno a casa dei nostri giovani è sempre più spesso il mesto ricorso al patrimonio familiare, intaccato da politiche dissennate e lascito materiale di una generazione che ha costruito con fatica e speranza risorse importanti, favorite da un clima di ritrovata libertà e di conseguente euforia.