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Cinema realista o consolatorio? (no title)

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Giovanni Bertone è un personaggio che Indro Montanelli conobbe nel carcere di San Vittore nel 1944. La sua storia (anche se romanzata dallo stesso giornalista) lo convinse a scrivere un racconto che a Rossellini piacque al punto di decidersi a dirigere il film IL GENERALE DELLA ROVERE, ancor prima che il racconto venisse pubblicato (caso rarissimo). Si tratta di una persona vile, meschina, baro, truffatore che, tratto in arresto dai tedeschi, viene da questi convinto a fingersi un importante generale badogliano (contrario alla continuazione della guerra a fianco del Duce) per scoprire e poi denunciare un capo della Resistenza presente nel carcere. Si sa come finisce: Bertone, invece di tradire, ritrova un barlume di dignità e, continuando, ma stavolta con tutt’altro spirito, la sua messinscena, affronta il plotone d’esecuzione rincuorando i suoi compagni di sventura.
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Il film è del 1959 ed è, forse, l’ultimo esempio importante del neorealismo( se non altro perché generato in piena guerra). Dello stesso anno è LA GRANDE GUERRA di Mario Monicelli, che andrebbe invece annoverato tra i migliori film della Commedia all’italiana. E’ la storia di due soldati italiani, Oreste Jacovacci (Alberto Sordi) e Giovanni Busacca (Vittorio Gassman), pessimi guerrieri e ottimi scansafatiche che vengono catturati dagli austriaci e minacciati di esecuzione sommaria (visto che non indossano l’uniforme), se non sveleranno al nemico importanti informazioni militari. All’inizio, i due sembrano disposti a parlare, ma la tracotanza e lo scherno anti-italiano dell’ufficiale nemico, li spinge a non collaborare e preferire la fucilazione.
Due film, stesso anno e un altro elemento comune: la parabola morale che va da un tipo di vita non encomiabile a un estremo sussulto di dignità che ne fa degli eroi.
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L’italiano che esce da questi due film è lo stereotipo dell’immagine che in quegli anni, ma ancora oggi persiste (come ad esempio in America), e che è visione di noi stessi, della nostra vita quotidiana, della nostra storia e delle nostre varie vicissitudini,  e cioè quella di  un popolo di individui allegri, simpatici, laboriosi, ma privi di senso civico e civile, pronti ad abdicare alla propria dignità pur di ottenere in cambio dei favori, un popolo di ignoranti e di cialtroni, capace però di scelte insperate ed eroiche, riscattando così una vita vissuta indegnamente.
E’, come si vede, un’immagine abbastanza realistica da un lato, ma anche, in certo modo, consolatoria da un altro. Il messaggio che se ne ricava è più o meno questo: sì, è vero, siamo fatti così e così, ma, quando serve veramente, non siamo inferiori a nessuno. Certi avvenimenti, poi, sembrerebbero dare credito a questa visione. Pensiamo alla rotta di Caporetto. Tutto sembrava perduto. In pochi mesi, però, gli italiani riuscirono a sconfiggere gli austro-ungarico-tedeschi e vincere la guerra. Oppure pensiamo alla Resistenza. L’8 settembre è sicuramente una della date più infauste della nostra storia. Ancora oggi paghiamo le conseguenze di quei momenti tremendi, in cui un intero Paese si dissolse, in cui ogni istituzione, ogni baluardo militare, civile e morale sembrava definitivamente perduto e la nostra stessa unità nazionale era ormai alla mercé delle Potenze vincitrici. La Resistenza fu un estremo ridotto cui si aggrapparono poche migliaia di nostri connazionali che valse per ottenere condizioni meno disastrose nei nostri riguardi e salvò, anche se solo in parte, la nostra dignità e il nostro onore diventando per forza l’elemento cardine su cui si fondò la nostra Costituzione.
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Questa visione però non esaurisce il discorso su chi sono veramente gli italiani. Siamo veramente così oppure ci fa comodo pensare di esserlo? Gli anni della Commedia all’italiana sembrerebbero contraddire quest’idea auto-assolutoria. Al di là della facile caricatura, delle operette farsesche, leggere, inconsistenti e superficiali, ci sono opere che inducono a riflessioni un po’ meno consolatorie. Prendiamo films come IL SORPASSO (1962) dI Dino Risi oppure IL BOOM (1963) di Vittorio De Sica. L’Italia che ne esce non prevede un finale catartico. Anzi, scopriamo che ne esce un’Italia moralmente a pezzi, dove a trionfare non sono coloro che hanno segnato il riscatto del nostro Paese. A trionfare è il cialtrone interpretato da Gassman e non il giovane e serio studente che è un po’ la nuova Italia, quella che si vorrebbe. No, a vincere è, ora come prima, la vecchia Italia di sempre, rappresentata dal buffone simpatico, superficiale, ignorante e maleducato.  E’ un film, questo, magistrale per come sa condensare in due tipologie umane  la società italiana all’inizio del miracolo economico. Il ritratto è crudele, pessimista, senza appello.
E’  un po’ quello che succede ne IL BOOM: l’Italia che è uscita dalla guerra non è quella sognata dai padri costituenti, ma un Paese profondamente marcato da ingiustizia, disuguaglianze sociali e vuoto morale. Giovanni Alberti (interpretato da Sordi) è un giovane che, senza capitali iniziali, vorrebbe intraprendere un’attività imprenditoriale nel settore edilizio. Non trova nessuno a sostenerlo: non le banche, non gli amici. La moglie, viste le difficoltà economiche e abituata a una vita agiata, lo lascia. Il seguito del film è ben noto: grazie alla cessione di un occhio, Giovanni riconquisterà, grazie ai soldi ricevuti per quella cessione, moglie, amici e fiducia delle banche. Un racconto amarissimo e senza speranza.
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Italia: un Paese allora senza speranza? Inutile farsi illusioni? Mussolini, negli anni di guerra, ad un certo punto, scorato, si lasciò sfuggire la famosa frase: “Governare gli italiani non è difficile, è inutile”. L’Italia dei 64 governi in 70 anni, l’Italia perenne fanalino di coda in Europa, indietro praticamente su tutto, sempre meno autorevole, sempre meno ascoltata, gravata da un debito pubblico mostruoso … ? E’ questa l’immagine che diamo al mondo? Se il cinema è specchio della vita, dovremmo dire di sì. Ma, come si diceva all’inizio, spesso intervengono fattori che tendono a modificare nel bene o nel male la realtà.
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Si diceva, all’inizio,  che nel neo realismo c’era un tentativo di edulcorare l’amara pillola di una realtà altrimenti insopportabile; si descriveva la realtà di quegli anni (dalla caduta del fascismo ai primi segnali di crescita e sviluppo) in modo onesto, sincero, ma con un pizzico di speranza;  del resto ci pensavano classe politica e censura a nascondere determinati aspetti imbarazzanti: basti pensare alla presa di posizione dell’onorevole Andreotti e il bisogno di “lavare i panni sporchi in casa” o ai processi per lesa maestà a chi aveva osato denigrare le Forze Armate (come accadde con LA GRANDE GUERRA e non solo). Ma la realtà è quella che è.
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E’ la realtà di una società di cui non si intravedono chiari segnali di cambiamento,  realtà di un mondo perennemente alle prese con scandali, corruzione, incapacità politica cui gli italiani sembrano essersi assuefatti. Si sono scritti decine di volumi sulle cause, recenti e remote, del caos del nostro paese, ben anteriori al ventennio fascista. Ma anche la miglior indagine non riuscirà mai a modificare la realtà. Il cinema, certo cinema, è chiaro, a volte, e nei casi migliori, specchio del nostro Paese, svolge un lavoro estremamente delicato e utile. Rappresentare i nostri mali in modo crudele come fanno ad esempio Paolo Virzì ne IL CAPITALE UMANO (2013), oppure Matteo Garrone con GOMORRA (2008), oppure ancora Ivano De Matteo ne I NOSTRI RAGAZZI (2014) ed altri che non cito perché l’elenco sarebbe troppo lungo, è molto importante, perché indica che, malgrado tutto, esiste una società non solo incivile, razzista e cafona, ma anche un’altra molto diversa, solidale e ancora fondata sui valori.
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L’elemento che mi sembra di cogliere in questo momento particolare è che il cinema italiano è cresciuto, è maturato e riesce a captare i primi fermenti di una società che si ribella, che ha finalmente il coraggio di dire di no, di rifiutare i vecchi schemi, le vecchie semplificazioni. Non è più il grido solitario di protesta ma è qualcosa che sta crescendo. E il cinema lo sta capendo.
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