Conobbi Carlo Leali a Oropesa, in un albergo spagnolo, uno di quegli splendidi “paradores” che si trovano in luoghi rilevanti per motivi storici, architettonici e geografici. Eravamo, io e mia moglie, nella sala da pranzo. Da una vetrata si poteva scorgere un’ampia distesa pianeggiante e di colore ocra, il colore della terra di Castiglia.
Udendoci parlare in italiano, si avvicinò un signore sulla sessantina, scusandosi per la sua intromissione e chiedendoci se eravamo italiani. Al nostro gesto affermativo, ci raccontò di trovarsi in viaggio in Spagna con sua moglie e che, nonostante il Paese gli piacesse molto, cominciava a sentire la voglia di esprimersi in italiano. Per farla breve, dopo quella volta, passammo assieme, le nostre due coppie, quattro giorni, compiendo assieme, con le nostre macchine, lo stesso cammino. Alla fine, ci recammo in Andalusia e loro tornarono in Italia.
Durante quei quattro giorni, vuoi per la lontananza da casa, vuoi per una naturale tendenza ad aprirsi di più all’estero con compatrioti vicini per affinità regionali(loro erano di Modena), culturali e simpatia, diventammo amici e ancor oggi, a circa otto anni di distanza da quel 2004, continuiamo a scriverci, parlarci e, ogni tanto, a vederci.
La ragione per cui sento il bisogno di scrivere questa storia ha a che fare con il caso di Marco Savazzi, il calciatore che negli anni ’90 si rese famoso in tutto il mondo per la straordinaria parabola, tanto breve quanto esplosiva e tragica, che lo proiettò ai vertici del calcio mondiale.
Il caso Savazzi è uno dei misteri più oscuri e incredibili che si siano verificati nella storia del calcio, e non solo. Ne hanno parlato per anni giornali, se ne sono lette di tutti i colori, sono stati scritti libri, sono state trasmesse decine di tribune sportive dedicate a lui, Marco Savazzi, classe 1978, di Concordia. Un caso, il suo, che ha suscitato l’interesse, ancor più che sportivo, scientifico.
Marco era uno dei tanti giovani che, oltre a lavorare (era un bravo elettricista), si dilettava a giocare da dilettante nella locale squadra di calcio, senza infamia e senza lode.
Aveva ormai 26 anni, un’età in cui di solito si incomincia a pensare di metter su famiglia, sposandosi magari con una brava ragazza del posto, mettendo insieme un gruzzoletto per poter accendere un mutuo per l’acquisto di una casa, magari un appartamento senza troppe pretese.
Poi, all’improvviso, il “miracolo”: in brevissimo tempo, Marco diventò calciatore professionista, fu acquistato dalla Juventus e approdò in Nazionale, dove, nel Mondiale del 2006 in Germania, fece vincere, a suon di reti, il titolo di campione del mondo all’Italia.
Vinti nello stesso anno lo scudetto con la squadra bianconera e il campionato del mondo, Marco, dopo circa tre mesi dall’inizio del campionato, si suicidò in una camera d’albergo di Milano, senza lasciare motivazioni del suo gesto. Sua moglie si era separata da lui da circa due anni ed era tornata a vivere nella sua terra assieme al figlioletto, avuto da lui, di tre anni.
Aveva da poco compiuto 30 anni. Con la Juventus vinse tre scudetti, quelli del 2004, 2005 e 2006 e vinse il titolo di capocannoniere negli ultimi due anni.
La sua dote principale, quella che era stata definita inspiegabile per gli scienziati e miracolosa per gli altri, era la precisione e la potenza del suo destro. La sua potenza era qualcosa di terrificante: la palla diventava un proiettile e, nei calci di punizione, i giocatori avversari avevano escogitato mille trucchi per evitare l’impatto con il pallone. Alcune società avevano chiesto alla Federazione Calcio il permesso di indossare speciali protezioni al momento di mettersi in barriera. La Federazione aveva preso tempo, anche perché la FIFA (la federazione Mondiale del calcio) aveva manifestato il suo dissenso. Ma la realtà è che diversi giocatori finirono all’ospedale dopo l’impatto con la palla e un paio, ancora oggi, continuano a denunciare conseguenze da trauma.
Per tutto il resto, Marco era un giocatore mediocre: non possedeva una gran tecnica, non sapeva usare bene il sinistro e non saltava mai di testa. Difficilmente si avventurava in un dribbling: non aveva uno scatto bruciante e il controllo del pallone lasciava a desiderare. Per questi motivi, non aveva mai vinto il Pallone d’Oro, il premio di maggior prestigio per i migliori calciatori che giocano in Europa.
Proprio per queste sue caratteristiche, la scienza, la medicina sportiva, luminari mondiali dell’ortopedia avevano provato in tutti i modi, con astrusi esperimenti e spericolate teorie, a spiegare il perché di tanta potenza in un piede umano, una forza che superava del doppio quella considerata come la soglia umana possibile. Ma nessuno riuscì mai a fornire una spiegazione esaustiva del fenomeno. In effetti, i loro calcoli dimostravano che la velocità del pallone superava spesso i 240 km all’ora. In particolare, nei calci piazzati, quando riusciva a far passare il pallone oltre la barriera, la sfera era praticamente imprendibile, a meno di incocciare nel portiere stesso, il quale, in cuor suo, si raccomandava l’anima a Dio, per non ricevere il pallone sul volto o sui genitali. Marco univa infatti alla potenza (inspiegabile), la precisione e questo lo rendeva particolarmente pericoloso nei calci piazzati e nei calci di rigore.
Per fermarlo, gli allenatori avevano studiato diavolerie tattiche, architettato stratagemmi tanto curiosi quanto disperati. Su di lui si marcava a uomo, cosa possibile perché Marco non aveva un grande scatto; ma spesso, quando riusciva a liberarsi, altri difensori convergevano su di lui, lasciando per forza di cose sguarnite ampie zone dell’area difensiva e liberi dei giocatori avversari.
Non di rado, infatti, accadeva che per non fare segnare Marco, si permetteva ad altri avversari di farlo.
Ma la cosa che più sconvolgeva era la repentinità con cui Marco era passato da una carriera mediocre di calciatore dilettante ai palcoscenici mondiali più esclusivi. A proiettarlo nel Gotha dei super-famosi fu il campionato dilettanti del 2000 quando indossava la casacca del Sassuolo. Nel girone d’andata, Marco aveva segnato la miseria di due reti e spesso era stato sostituito. Tutto cambiò già alla seconda giornata di ritorno, contro lo Scandiano. Marco segnò tre volte e bastò quella prestazione a solleticare l’interesse e l’attenzione di giornalisti e intenditori. La domenica dopo, segnò altri due goal alla Mirandolese ed altri due, la domenica seguente, a Finale Emilia. Alla fine del campionato, il Sassuolo venne promosso in C1, Marco vinse il titolo di capocannoniere e venne contattato da club importanti. Fu acquistato dal Genoa e nel campionato 2001-2, segnò 19 reti, ma non giocò sempre. C’erano molte perplessità da parte dei critici: aveva un tiro eccezionale ma mancava di quasi tutto il resto. Se ben marcato, non avrebbe, secondo loro, combinato niente.
Tuttavia, da oltre Manica, il Genoa ricevette un paio di offerte da parte di club molto prestigiosi, come il Nottingham Forrest e l’Aston Villa. Ma alla fine non se ne fece nulla perché contro Marco giocavano due aspetti negativi: la scarsa abilità tecnica e il carattere chiuso e ombroso del giocatore. Le offerte non vennero considerate allettanti e restò in rosso-blu. Alla Juventus, nella prima parte della stagione successiva, si infortunò gravemente il suo attaccante di maggior prestigio e cioè il tedesco Rudi Gessner e, siccome le casse erano quasi vuote, dopo l’imponente campagna acquisti dell’estate (voluta per rilanciare la squadra dopo la brutta faccenda del calcio-scommesse), la società accettò il rischio ed acquistò Marco nel mercato di gennaio.
Tra le nove reti segnate con il Genoa fra settembre e dicembre e le dodici segnate con la Juventus, Marco si piazzò terzo.
Ormai stava diventando un caso internazionale: cominciavano ad arrivare a Torino osservatori, esperti, critici e scienziati da tutto il mondo. Non riuscivano a capacitarsi, a capire come da una gamba e da un piede normali potessero partire autentici bolidi, impossibili da parare se non addirittura da vedere. Inoltre non riuscivano a capire come, praticamente da un giorno all’altro, la sua potenza di tiro, da normalissima, fosse diventata un’autentica superpotenza, superiore, come già detto, del doppio almeno a quella media dei giocatori.
Alcuni psicologi, poi, non avevano mancato di rilevare importanti modificazioni nel carattere di Marco. Prima di diventare una stella del calcio, era un ragazzo, aperto, cordiale, spesso anche un po’ sbruffone, ma in modo simpatico, visto che era capace di prendersi in giro da solo e scherzare su se stesso. Quando cominciò a diventare famoso, si chiuse sempre di più, si immusonì, si intristì, così, apparentemente senza motivo. Si sposò con una ragazza delle sue parti, ma presto il matrimonio naufragò. Andò a vivere in una stanza d’albergo e di lì usciva solo per gli allenamenti e per i ritiri della squadra.
Alcuni suoi compagni di squadra, sia quand’era al Genoa sia alla Juventus, cercarono di aiutarlo ad uscire dal suo isolamento, gli offrirono la loro amicizia. La società bianconera mise sotto contratto una psicologa. Niente da fare. C’era qualcosa di inspiegabile, qualcosa che lo rendeva sempre più cupo, sempre più solo. Dopo ogni rete, invece di esultare, restava come impietrito per un paio di secondi, poi abbassava il capo e tornava al centro del campo. I suoi compagni, all’inizio, lo festeggiavano, poi, poco a poco, esultavano tra loro e lo lasciavano da solo, con il suo malessere.
Qualcosa lo mordeva dentro. O forse qualcosa in lui stava morendo.
Fece scalpore l’intervista che Alberto Costa aveva pubblicato sul Corriere della Sera, quando, ad un certo punto, alla domanda: “Che cosa pensi di fare quando smetterai di fare il calciatore?”, Marco rispose:” Credo che morirò molto prima”! Dopo il gelo comprensibile, Costa domandò le ragioni di questo pessimismo e la risposta fu :”Perché lo so e basta”.
Ma il motivo per cui sto raccontando questa storia, non è per rinverdire la memoria, peraltro ancora fresca, delle imprese di Gavazzi; la vera ragione è che Leali mi confidò che aveva saputo dalla bocca di un sacerdote una realtà che va oltre ogni immaginazione. Pur essendo credente, non sono incline a bermi ogni sorta di storia che non sia corroborata da elementi concreti, reali o oggettivi.
Mi fanno un po’ ridere coloro che sono interessati ai misteri, agli UFO, ai fantasmi, al paranormale ecc. Pur non escludendo nulla aprioristicamente, ritengo che ci sia un “business” dietro a tutte queste storie e che più grosse si sparano, più la gente si interessa e compra.
In questo caso, il fatto che non sia stato svelato nulla pubblicamente, mi fa pensare che non ci sia stato alla base un tentativo di lucrare su un fatto realmente incomprensibile, sia per quanto riguarda le virtù calcistiche di Savazzi, sia i retroscena della sua morte tragica.
In pratica, questo sacerdote, il cui nome l’amico Leali non mi ha voluto rivelare, conosceva Marco da diversi anni. Lo aveva avvicinato durante un ritiro della squadra (il Genoa)nel Trentino, prima dell’inizio del campionato. Il sacerdote si trovava in quella località (della Val di Fassa) per un periodo di riposo. Ogni mattina il sacerdote si recava nella chiesetta locale per assistere e, a volte, celebrare la Messa. Un giorno, all’uscita dalla chiesa, fu avvicinato da Marco. I due ebbero alcuni colloqui nei giorni a seguire. Poi, giunta la data della partenza della squadra per Genova, i due si lasciarono con l’impegno, a detta di Leali, di rivedersi ancora. I due in effetti si rividero tre o quattro volte, in segreto. L’ultima volta fu tre giorni prima del suicidio di Marco.
Il sacerdote aveva confidato a Leali parte del contenuto di quei colloqui (non erano vere e proprie confessioni, per cui non vigeva il segreto), come esempio per mostrare quanto, anche oggi, il Male esista, lavori e condizioni molto le azioni e i comportamenti delle persone.
Il resto del contenuto di quanto detto al sacerdote non è stato mai rivelato e, poiché nel frattempo il prelato è deceduto, resterà per sempre sepolto assieme a lui.
Leali era molto amico di questo prete. Lo erano dai tempi della militanza di entrambi nella FUCI, quando Carlo studiava all’Università. Il prete era molto attivo nel suo incarico di consigliere. Organizzava incontri di preghiera, ritiri spirituali, gite con i ragazzi universitari modenesi. Si erano conosciuti proprio durante una di quelle gite, sull’Appennino modenese e, da allora, era nata un’amicizia profonda che non era mai venuta meno con il passare degli anni.
Quando Leali cominciò a parlarmi di quella storia incredibile, confesso che non ero pronto ad ascoltare e men che meno a credere. Durante la sua narrazione, ebbi più volte la tentazione di alzarmi e chiedergli di smetterla perché stava raccontandomi delle frottole. Tuttavia, mi sembrava scortese troncare di netto quelle rivelazioni e poi quel Leali aveva qualcosa che me lo rendeva simpatico. Forse perché mi ricordava, per certe espressioni, il mio povero papà.
Provo un certo imbarazzo a scrivere quello che mi raccontò. Se lo faccio, è perché ne sento il bisogno, sento l’insopprimibile necessità di liberarmi di questo peso, di questo segreto che non ho mai confidato a nessuno. Per il lavoro che faccio, sono un insegnante di liceo, temo che se divulgassi le rivelazioni di Leali, diventerei probabilmente lo zimbello di tutte le scuole, dei miei colleghi e dei miei allievi.
Affido queste note ad un computer, curando che nessuno, almeno per questi anni, possa leggerle.
Questo sacerdote raccontò a Leali che Marco gli aveva confessato (sempre fuori dal sacramento) che ad un certo punto della sua vita (che Leali situava nel gennaio del 2001, quando ancora giocava nel Sassuolo), aveva deciso di compiere un atto assolutamente insensato. Stanco di giocare senza riuscire ad essere altro che una mezza schiappa, stanco del suo mestiere di elettricista per il quale non provava alcun entusiasmo, aveva pensato che l’unico aiuto che poteva cambiare radicalmente la sua situazione non potesse che essere di natura soprannaturale.
I sacerdoti con cui si era confidato gli avevano pazientemente spiegato che i miracoli non si ottengono per giocare meglio al pallone e che era molto più sensato cercare di migliorare le proprie doti con l’impegno assiduo e una mente aperta ad accettare i propri limiti, fase essenziale per conoscersi meglio e vivere meglio di conseguenza.
Non contento di queste risposte, aveva pensato che se Dio non lo voleva aiutare forse poteva farlo l’anti-Dio per eccellenza e cioè il Demonio.
Si documentò su testi presi in biblioteca e in uno di essi lesse che era possibile mettersi in contatto con gli Inferi e chiedere, in cambio della propria anima, di ottenere successo, fama e ricchezza nella vita terrena.
Occorreva però, per arrivare a questo contatto, prepararsi mentalmente e cominciare a recitare tutta una serie di invocazioni, oltre a utilizzare, nel chiuso della propria stanza, tutto un armamentario di oggetti, drappi e candelabri.
Marco era sempre stato un giovane come tanti del suo paese. Dopo la prima comunione e la cresima, non era praticamente più andato a messa, se non qualche volta per Natale o Pasqua o, a volte, per far contenti i suoi genitori.
Nonostante la sua fede fosse così tenue, non metteva in discussione l’esistenza di Dio, anche se non accettava della Chiesa riti, liturgie e dogmi che gli sembravano astrusi e senza senso.
La scelta di arrivare ad un passo così in contrasto con le proprie idee e la propria visione del mondo era scaturita dopo un periodo di crisi. La sua ragazza lo aveva lasciato per andarsene con un dirigente di una locale fabbrica di piastrelle, suo padre era morto di cancro dopo due anni di sofferenze; la madre si era ammalata di cuore ed era ricoverata in una clinica costosa che praticamente si mangiava tutto il suo stipendio. Non vedeva vie d’uscita alla sua situazione. Bisognava però fare qualcosa. Assolutamente.
Fu così che, una sera, avvenne il fatto. Marco, nel chiuso della sua camera, recitò una serie di invocazioni e compì un atto (che Carlo non era stato in grado di rivelarmi) che gli permise di stabilire un vero e proprio patto di sangue con il Male.
Pare che ne uscisse sconvolto.
Tutto cambiò dopo quella sera. I suoi piedi avevano subito una trasformazione invisibile ma reale. Avevano acquisito una forza semplicemente sovrumana. Già il pomeriggio del giorno dopo, ma soprattutto nei giorni seguenti, i suoi compagni e l’allenatore erano rimasti sbalorditi dalla potenza inaspettata dei suoi tiri in porta. In un vecchio ritaglio di giornale apparso su IL RESTO DEL CARLINO che sono riuscito a scovare, si commentava, con una certa dose di ironia e incredulità, che un ragazzo di provincia militante nel Concordia aveva dimostrato in allenamento di possedere piedi che lanciavano autentici missili.
Poi, come ho già scritto, ecco l’improvvisa …esplosione.
Quella notorietà improvvisa, quell’azione che Marco aveva creduto di compiere, corroborata dal risultato assolutamente imprevedibile, lo aveva sconvolto. Il senso di colpa conseguente ne aveva minato il carattere alla radice. Ogni exploit sportivo, invece di esaltarlo, lo deprimeva ancor di più, convinto che fosse un’ulteriore prova della validità di quel patto infernale, stretto con il Male. Qualcosa di talmente orrendo da schiacciarlo sempre di più, da allontanarlo da tutti, anche dagli affetti più cari. Secondo Leali, ricordando quanto raccontatogli dal prete, il ragazzo era sempre più sicuro di essere ormai un predestinato alla perdizione eterna. Questa convinzione, in un giovane educato nella religione cristiana, doveva sembrargli mostruosa.
Marco era diventato un uomo infelice, roso dal di dentro da un male che poco a poco lo stava consumando. Fino a spingerlo a compiere l’estremo gesto.
Confesso che mi è costato molto scrivere queste righe, perché qualcosa di malato, di insano mi disturbava. Non mi pare sensato, in un’epoca ipertecnologica come la nostra, prestare fede a certe situazioni. Ma a crearmi disagio è soprattutto la stima verso Carlo Leali, che ritengo incapace di inventarsi delle baggianate. Un fatto incontrovertibile è la repentinità di una trasformazione organica, di fasci di muscoli, tendini ed ossa, che improvvisamente acquisiscono una potenza straordinaria. Può la volontà umana attivare simili trasformazioni? Per converso, come spiegare certe guarigioni improvvise a Lourdes? Se non fosse opera di Dio, di chi allora? La scienza si dichiara incapace di fornire una spiegazione scientifica davanti a certe regressioni improvvise di mali ritenuti ormai inguaribili. Forse che l’uomo nasconda in sé capacità a tutt’oggi inesplorate? Forse che in ognuno di noi ci siano delle virtù mai immaginate e che finora non sono mai state scoperte o studiate?
O, forse, esiste davvero qualcosa al di là dell’uomo in grado di modificare le ferree leggi naturali?