Il caso Savazzi

 

Conobbi Carlo Leali a Oropesa, in un albergo spagnolo, uno di quegli splendidi “paradores” che si trovano in luoghi rilevanti per motivi storici, architettonici e geografici. Eravamo, io e mia moglie, nella sala da pranzo. Da una vetrata si poteva scorgere un’ampia distesa pianeggiante e di colore ocra, il colore della terra di Castiglia.oropesa parador 1

Udendoci parlare in italiano, si avvicinò un signore sulla sessantina, scusandosi per la sua intromissione e chiedendoci se eravamo italiani. Al nostro gesto affermativo, ci raccontò di trovarsi in viaggio in Spagna con sua moglie e che, nonostante il Paese gli piacesse molto, cominciava a sentire la voglia di esprimersi in italiano. Per farla breve, dopo quella volta, passammo assieme, le nostre due coppie, quattro giorni, compiendo assieme, con le nostre macchine, lo stesso cammino. Alla fine, ci recammo in Andalusia e loro tornarono in Italia.

Durante quei quattro giorni, vuoi per la lontananza da casa, vuoi per una naturale tendenza ad aprirsi di più all’estero con compatrioti vicini per affinità regionali(loro erano di Modena), culturali e simpatia, diventammo amici e ancor oggi, a circa otto anni di distanza da quel 2004, continuiamo a scriverci, parlarci e, ogni tanto, a vederci.

La ragione per cui sento il bisogno di scrivere questa storia ha a che fare con il caso di Marco Savazzi, il calciatore che negli anni ’90 si rese famoso in tutto il mondo per la straordinaria parabola, tanto breve quanto esplosiva e tragica, che lo proiettò ai vertici del calcio mondiale.

Il caso Savazzi è uno dei misteri più oscuri e incredibili che si siano verificati nella storia del calcio, e non solo. Ne hanno parlato per anni giornali, se ne sono lette di tutti i colori, sono stati scritti libri, sono state trasmesse decine di tribune sportive dedicate a lui, Marco Savazzi, classe 1978, di Concordia. Un caso, il suo, che ha suscitato l’interesse, ancor più che sportivo, scientifico.

Marco era uno dei tanti giovani che, oltre a lavorare (era un bravo elettricista), si dilettava a giocare da dilettante nella locale squadra di calcio, senza infamia e senza lode.

Aveva ormai 26 anni, un’età in cui di solito si incomincia a pensare di metter su famiglia, sposandosi magari con una brava ragazza del posto, mettendo insieme un gruzzoletto per poter accendere un mutuo per l’acquisto di una casa, magari un appartamento senza troppe pretese.

Poi, all’improvviso, il “miracolo”: in brevissimo tempo, Marco diventò calciatore professionista, fu acquistato dalla Juventus e approdò in Nazionale, dove, nel Mondiale del 2006 in Germania, fece vincere, a suon di reti, il titolo di campione del mondo all’Italia.

Vinti nello stesso anno lo scudetto con la squadra bianconera e il campionato del mondo, Marco, dopo circa tre mesi dall’inizio del campionato, si suicidò in una camera d’albergo di Milano, senza lasciare motivazioni del suo gesto. Sua moglie si era separata da lui da circa due anni ed era tornata a vivere nella sua terra assieme al figlioletto, avuto da lui, di tre anni.

Aveva da poco compiuto 30 anni. Con la Juventus vinse tre scudetti, quelli del 2004, 2005 e 2006 e vinse il titolo di capocannoniere negli ultimi due anni.

La sua dote principale, quella che era stata definita inspiegabile per gli scienziati e miracolosa per gli altri, era la precisione e la potenza del suo destro. La sua potenza era qualcosa di terrificante: la palla diventava un proiettile e, nei calci di punizione, i giocatori avversari avevano escogitato mille trucchi per evitare l’impatto con il pallone. Alcune società avevano chiesto alla Federazione Calcio il permesso di indossare speciali protezioni al momento di mettersi in barriera. La Federazione aveva preso tempo, anche perché la FIFA (la federazione Mondiale del calcio) aveva manifestato il suo dissenso. Ma la realtà è che diversi giocatori finirono all’ospedale dopo l’impatto con la palla e un paio, ancora oggi, continuano a denunciare conseguenze da trauma.

Per tutto il resto, Marco era un giocatore mediocre: non possedeva una gran tecnica, non sapeva usare bene il sinistro e non saltava mai di testa. Difficilmente si avventurava in un dribbling: non aveva uno scatto bruciante e il controllo del pallone lasciava a desiderare. Per questi motivi, non aveva mai vinto il Pallone d’Oro, il premio di maggior prestigio per i migliori calciatori che giocano in Europa.

Proprio per queste sue caratteristiche, la scienza, la medicina sportiva, luminari mondiali dell’ortopedia avevano provato in tutti i modi, con astrusi esperimenti e spericolate teorie, a spiegare il perché di tanta potenza in un piede umano, una forza che superava del doppio quella considerata come la soglia umana possibile. Ma nessuno riuscì mai a fornire una spiegazione esaustiva del fenomeno. In effetti, i loro calcoli dimostravano che la velocità del pallone superava spesso i 240 km all’ora. In particolare, nei calci piazzati, quando riusciva a far passare il pallone oltre la barriera, la sfera era praticamente imprendibile, a meno di incocciare nel portiere stesso, il quale, in cuor suo, si raccomandava l’anima a Dio, per non ricevere il pallone sul volto o sui genitali. Marco univa infatti alla potenza (inspiegabile), la precisione e questo lo rendeva particolarmente pericoloso nei calci piazzati e nei calci di rigore.

Per fermarlo, gli allenatori avevano studiato diavolerie tattiche, architettato stratagemmi tanto curiosi quanto disperati. Su di lui si marcava a uomo, cosa possibile perché Marco non aveva un grande scatto; ma spesso, quando riusciva a liberarsi, altri difensori convergevano su di lui, lasciando per forza di cose sguarnite ampie zone dell’area difensiva e liberi dei giocatori avversari.

Non di rado, infatti, accadeva che per non fare segnare Marco, si permetteva ad altri avversari di farlo.

Ma la cosa che più sconvolgeva era la repentinità con cui Marco era passato da una carriera mediocre di calciatore dilettante ai palcoscenici mondiali più esclusivi. A proiettarlo nel Gotha dei super-famosi fu il campionato dilettanti del 2000 quando indossava la casacca del Sassuolo. Nel girone d’andata, Marco aveva segnato la miseria di due reti e spesso era stato sostituito. Tutto cambiò già alla seconda giornata di ritorno, contro lo Scandiano. Marco segnò tre volte e bastò quella prestazione a solleticare l’interesse e l’attenzione di giornalisti e intenditori. La domenica dopo, segnò altri due goal alla Mirandolese ed altri due, la domenica seguente, a Finale Emilia. Alla fine del campionato, il Sassuolo venne promosso in C1, Marco vinse il titolo di capocannoniere e venne contattato da club importanti. Fu acquistato dal Genoa e nel campionato 2001-2, segnò 19 reti, ma non giocò sempre. C’erano molte perplessità da parte dei critici: aveva un tiro eccezionale ma mancava di quasi tutto il resto. Se ben marcato, non avrebbe, secondo loro, combinato niente.

Tuttavia, da oltre Manica, il Genoa ricevette un paio di offerte da parte di club molto prestigiosi, come il Nottingham Forrest e l’Aston Villa. Ma alla fine non se ne fece nulla perché contro Marco giocavano due aspetti negativi: la scarsa abilità tecnica e il carattere chiuso e ombroso del giocatore. Le offerte non vennero considerate allettanti e restò in rosso-blu. Alla Juventus, nella prima parte della stagione successiva, si infortunò gravemente il suo attaccante di maggior prestigio e cioè il tedesco Rudi Gessner e, siccome le casse erano quasi vuote, dopo l’imponente campagna acquisti dell’estate (voluta per rilanciare la squadra dopo la brutta faccenda del calcio-scommesse), la società accettò il rischio ed acquistò Marco nel mercato di gennaio.

Tra le nove reti segnate con il Genoa fra settembre e dicembre e le dodici segnate con la Juventus, Marco si piazzò terzo.

Ormai stava diventando un caso internazionale: cominciavano ad arrivare a Torino osservatori, esperti, critici e scienziati da tutto il mondo. Non riuscivano a capacitarsi, a capire come da una gamba e da un piede normali potessero partire autentici bolidi, impossibili da parare se non addirittura da vedere. Inoltre non riuscivano a capire come, praticamente da un giorno all’altro, la sua potenza di tiro, da normalissima, fosse diventata un’autentica superpotenza, superiore, come già detto, del doppio almeno a quella media dei giocatori.

Alcuni psicologi, poi, non avevano mancato di rilevare importanti modificazioni nel carattere di Marco. Prima di diventare una stella del calcio, era un ragazzo, aperto, cordiale, spesso anche un po’ sbruffone, ma in modo simpatico, visto che era capace di prendersi in giro da solo e scherzare su se stesso. Quando cominciò a diventare famoso, si chiuse sempre di più, si immusonì, si intristì, così, apparentemente senza motivo. Si sposò con una ragazza delle sue parti, ma presto il matrimonio naufragò. Andò a vivere in una stanza d’albergo e di lì usciva solo per gli allenamenti e per i ritiri della squadra.

Alcuni suoi compagni di squadra, sia quand’era al Genoa sia alla Juventus, cercarono di aiutarlo ad uscire dal suo isolamento, gli offrirono la loro amicizia. La società bianconera mise sotto contratto una psicologa. Niente da fare. C’era qualcosa di inspiegabile, qualcosa che lo rendeva sempre più cupo, sempre più solo. Dopo ogni rete, invece di esultare, restava come impietrito per un paio di secondi, poi abbassava il capo e tornava al centro del campo. I suoi compagni, all’inizio, lo festeggiavano, poi, poco a poco, esultavano tra loro e lo lasciavano da solo, con il suo malessere.

Qualcosa lo mordeva dentro. O forse qualcosa in lui stava morendo.

Fece scalpore l’intervista che Alberto Costa aveva pubblicato sul Corriere della Sera, quando, ad un certo punto, alla domanda: “Che cosa pensi di fare quando smetterai di fare il calciatore?”, Marco rispose:” Credo che morirò molto prima”! Dopo il gelo comprensibile, Costa domandò le ragioni di questo pessimismo e la risposta fu :”Perché lo so e basta”.

Alberto Costa 1

Ma il motivo per cui sto raccontando questa storia, non è per rinverdire la memoria, peraltro ancora fresca, delle imprese di Gavazzi; la vera ragione è che Leali mi confidò che aveva saputo dalla bocca di un sacerdote una realtà che va oltre ogni immaginazione. Pur essendo credente, non sono incline a bermi ogni sorta di storia che non sia corroborata da elementi concreti, reali o oggettivi.

Mi fanno un po’ ridere coloro che sono interessati ai misteri, agli UFO, ai fantasmi, al paranormale ecc. Pur non escludendo nulla aprioristicamente, ritengo che ci sia un “business” dietro a tutte queste storie e che più grosse si sparano, più la gente si interessa e compra.

In questo caso, il fatto che non sia stato svelato nulla pubblicamente, mi fa pensare che non ci sia stato alla base un tentativo di lucrare su un fatto realmente incomprensibile, sia per quanto riguarda le virtù calcistiche di Savazzi, sia i retroscena della sua morte tragica.

In pratica, questo sacerdote, il cui nome l’amico Leali non mi ha voluto rivelare, conosceva Marco da diversi anni. Lo aveva avvicinato durante un ritiro della squadra (il Genoa)nel Trentino, prima dell’inizio del campionato. Il sacerdote si trovava in quella località (della Val di Fassa) per un periodo di riposo. Ogni mattina il sacerdote si recava nella chiesetta locale per assistere e, a volte, celebrare la Messa. Un giorno, all’uscita dalla chiesa, fu avvicinato da Marco. I due ebbero alcuni colloqui nei giorni a seguire. Poi, giunta la data della partenza della squadra per Genova, i due si lasciarono con l’impegno, a detta di Leali, di rivedersi ancora. I due in effetti si rividero tre o quattro volte, in segreto. L’ultima volta fu tre giorni prima del suicidio di Marco.

Il sacerdote aveva confidato a Leali parte del contenuto di quei colloqui (non erano vere e proprie confessioni, per cui non vigeva il segreto), come esempio per mostrare quanto, anche oggi, il Male esista, lavori e condizioni molto le azioni e i comportamenti delle persone.

Il resto del contenuto di quanto detto al sacerdote non è stato mai rivelato e, poiché nel frattempo il prelato è deceduto, resterà per sempre sepolto assieme a lui.

Leali era molto amico di questo prete. Lo erano dai tempi della militanza di entrambi nella FUCI, quando Carlo studiava all’Università. Il prete era molto attivo nel suo incarico di consigliere. Organizzava incontri di preghiera, ritiri spirituali, gite con i ragazzi universitari modenesi. Si erano conosciuti proprio durante una di quelle gite, sull’Appennino modenese e, da allora, era nata un’amicizia profonda che non era mai venuta meno con il passare degli anni.

Quando Leali cominciò a parlarmi di quella storia incredibile, confesso che non ero pronto ad ascoltare e men che meno a credere. Durante la sua narrazione, ebbi più volte la tentazione di alzarmi e chiedergli di smetterla perché stava raccontandomi delle frottole. Tuttavia, mi sembrava scortese troncare di netto quelle rivelazioni e poi quel Leali aveva qualcosa che me lo rendeva simpatico. Forse perché mi ricordava, per certe espressioni, il mio povero papà.

Provo un certo imbarazzo a scrivere quello che mi raccontò. Se lo faccio, è perché ne sento il bisogno, sento l’insopprimibile necessità di liberarmi di questo peso, di questo segreto che non ho mai confidato a nessuno. Per il lavoro che faccio, sono un insegnante di liceo, temo che se divulgassi le rivelazioni di Leali, diventerei probabilmente lo zimbello di tutte le scuole, dei miei colleghi e dei miei allievi.

Affido queste note ad un computer, curando che nessuno, almeno per questi anni, possa leggerle.

Questo sacerdote raccontò a Leali che Marco gli aveva confessato (sempre fuori dal sacramento) che ad un certo punto della sua vita (che Leali situava nel gennaio del 2001, quando ancora giocava nel Sassuolo), aveva deciso di compiere un atto assolutamente insensato. Stanco di giocare senza riuscire ad essere altro che una mezza schiappa, stanco del suo mestiere di elettricista per il quale non provava alcun entusiasmo, aveva pensato che l’unico aiuto che poteva cambiare radicalmente la sua situazione non potesse che essere di natura soprannaturale.

I sacerdoti con cui si era confidato gli avevano pazientemente spiegato che i miracoli non si ottengono per giocare meglio al pallone e che era molto più sensato cercare di migliorare le proprie doti con l’impegno assiduo e una mente aperta ad accettare i propri limiti, fase essenziale per conoscersi meglio e vivere meglio di conseguenza.

Non contento di queste risposte, aveva pensato che se Dio non lo voleva aiutare forse poteva farlo l’anti-Dio per eccellenza e cioè il Demonio.

Si documentò su testi presi in biblioteca e in uno di essi lesse che era possibile mettersi in contatto con gli Inferi e chiedere, in cambio della propria anima, di ottenere successo, fama e ricchezza nella vita terrena.

Occorreva però, per arrivare a questo contatto, prepararsi mentalmente e cominciare a recitare tutta una serie di invocazioni, oltre a utilizzare, nel chiuso della propria stanza, tutto un armamentario di oggetti, drappi e candelabri.

Marco era sempre stato un giovane come tanti del suo paese. Dopo la prima comunione e la cresima, non era praticamente più andato a messa, se non qualche volta per Natale o Pasqua o, a volte, per far contenti i suoi genitori.

Nonostante la sua fede fosse così tenue, non metteva in discussione l’esistenza di Dio, anche se non accettava della Chiesa riti, liturgie e dogmi che gli sembravano astrusi e senza senso.

La scelta di arrivare ad un passo così in contrasto con le proprie idee e la propria visione del mondo era scaturita dopo un periodo di crisi. La sua ragazza lo aveva lasciato per andarsene con un dirigente di una locale fabbrica di piastrelle, suo padre era morto di cancro dopo due anni di sofferenze; la madre si era ammalata di cuore ed era ricoverata in una clinica costosa che praticamente si mangiava tutto il suo stipendio. Non vedeva vie d’uscita alla sua situazione. Bisognava però fare qualcosa. Assolutamente.

Fu così che, una sera, avvenne il fatto. Marco, nel chiuso della sua camera, recitò una serie di invocazioni e compì un atto (che Carlo non era stato in grado di rivelarmi) che gli permise di stabilire un vero e proprio patto di sangue con il Male.

Pare che ne uscisse sconvolto.

Tutto cambiò dopo quella sera. I suoi piedi avevano subito una trasformazione invisibile ma reale. Avevano acquisito una forza semplicemente sovrumana. Già il pomeriggio del giorno dopo, ma soprattutto nei giorni seguenti, i suoi compagni e l’allenatore erano rimasti sbalorditi dalla potenza inaspettata dei suoi tiri in porta. In un vecchio ritaglio di giornale apparso su IL RESTO DEL CARLINO che sono riuscito a scovare, si commentava, con una certa dose di ironia e incredulità, che un ragazzo di provincia militante nel Concordia aveva dimostrato in allenamento di possedere piedi che lanciavano autentici missili.

Poi, come ho già scritto, ecco l’improvvisa …esplosione.

Quella notorietà improvvisa, quell’azione che Marco aveva creduto di compiere, corroborata dal risultato assolutamente imprevedibile, lo aveva sconvolto. Il senso di colpa conseguente ne aveva minato il carattere alla radice. Ogni exploit sportivo, invece di esaltarlo, lo deprimeva ancor di più, convinto che fosse un’ulteriore prova della validità di quel patto infernale, stretto con il Male. Qualcosa di talmente orrendo da schiacciarlo sempre di più, da allontanarlo da tutti, anche dagli affetti più cari. Secondo Leali, ricordando quanto raccontatogli dal prete, il ragazzo era sempre più sicuro di essere ormai un predestinato alla perdizione eterna. Questa convinzione, in un giovane educato nella religione cristiana, doveva sembrargli mostruosa.

Marco era diventato un uomo infelice, roso dal di dentro da un male che poco a poco lo stava consumando. Fino a spingerlo a compiere l’estremo gesto.

Confesso che mi è costato molto scrivere queste righe, perché qualcosa di malato, di insano mi disturbava. Non mi pare sensato, in un’epoca ipertecnologica come la nostra, prestare fede a certe situazioni. Ma a crearmi disagio è soprattutto la stima verso Carlo Leali, che ritengo incapace di inventarsi delle baggianate. Un fatto incontrovertibile è la repentinità di una trasformazione organica, di fasci di muscoli, tendini ed ossa, che improvvisamente acquisiscono una potenza straordinaria. Può la volontà umana attivare simili trasformazioni? Per converso, come spiegare certe guarigioni improvvise a Lourdes? Se non fosse opera di Dio, di chi allora? La scienza si dichiara incapace di fornire una spiegazione scientifica davanti a certe regressioni improvvise di mali ritenuti ormai inguaribili. Forse che l’uomo nasconda in sé capacità a tutt’oggi inesplorate? Forse che in ognuno di noi ci siano delle virtù mai immaginate e che finora non sono mai state scoperte o studiate?

O, forse, esiste davvero qualcosa al di là dell’uomo in grado di modificare le ferree leggi naturali?

 

Magda

 La prima volta che conobbi Magda fu presso il chiosco-gelateria del mio paese. Si era d’estate, credo all’inizio di giugno. Accanto alla sorella Mara e al marito, stava seduta ad uno dei tavolini disposti ordinatamente nella piazzetta, tra il chiosco e la macelleria di fronte. Il caldo pomeridiano stava allentando la sua morsa e gli avventori cominciavano ad arrivare sempre più numerosi, chi a piedi, chi in gruppi di ciclisti con sgargianti divise di vari gruppi sportivi e chi in moto. Conoscevo Mara e suo marito, un vecchio amico fin dal tempo delle scuole elementari. Al tavolino rimaneva una sedia libera. Mi avvicinai, salutai Mara e Renato, il marito, e fui invitato a sedere. Mara mi presentò la sorella, che rispose con un sorriso timido e lo sguardo rivolto in basso. Scambiai con loro qualche battuta sul caldo, su fatterelli accaduti di recente; poi, una coppia si avvicinò e avviò una conversazione abbastanza noiosa. Dopo qualche minuto, adducendo un impegno improrogabile, lasciai la compagnia.

Magda non era una bellezza: era piccola, magrolina, il volto piuttosto spigoloso, i capelli, d’un biondo quasi castano e gli occhi azzurri. La voce era leggermente roca: non amava fare lunghi discorsi. Si limitava a frasi concise, senza abbellimenti retorici o commenti. Raccontava semplicemente fatti. Era figlia di agricoltori, noti per il loro (almeno il padre) orientamento progressista moderato. Né benestanti né indigenti. Una famiglia come tante altre, rispettata perché onesta e laboriosa. Magda si era diplomata in Ragioneria, mentre la sorella si era diplomata presso l’Istituto Tecnico locale. Mara non aveva proseguito gli studi, si era sposata, aveva avuto due figli e si era dedicata alla famiglia. Magda, più giovane di tre anni, aveva invece trovato presto un lavoro presso uno studio di commercialista in città.

La seconda volta che la vidi e le parlai fu durante una serata dedicata all’incontro della popolazione con uno scrittore o scrittrice di fama nazionale. Quella sera l’ospite era Andrea Vitali. E’ un’attività culturale promossa e organizzata dalla locale associazione Pro Loco e si tiene, una volta all’anno, d’estate, presso il parco di un concittadino che mette a disposizione la proprietà per questo scopo. Quando arrivai al parco, c’erano pochi posti disponibili, notai però un posto vuoto in una delle file di centro. Mi diressi verso la sedia vuota e vidi Magda, seduta con Mara, proprio accanto al posto vuoto. Chiesi se potevo sedermi. Le sorelle, con un sorriso, annuirono.

C’era ancora luce; le ombre della sera erano però in arrivo. Mi sedetti, salutai entrambe e feci un paio di commenti sul caldo che fino a poco prima aveva attanagliato la zona. Magda teneva lo sguardo davanti a sé, le era spuntato un sorriso e continuava a rigirarsi tra le mani una borsetta rossa. Dopo qualche attimo di silenzio, le chiesi dove lavorasse.

  • A Mantova –rispose.
  • E’ tanto che ci lavori?
  • Sei anni, no, quasi sette – mi rispose dopo un momento di esitazione.
  • Hai fatto ragioneria?

Il sibilo sgradevole di un altoparlante sospese la nostra conversazione. Era segno che stava per iniziare l’incontro. Le sedie, disposte in varie file, erano ormai quasi del tutto occupate. Davanti a noi c’era il tavolo della conferenza, era ancora vuoto, ma vedevo che dietro c’era movimento. Forse Vitali era arrivato. La villa del proprietario del parco era quella tipica delle nostre zone. Semplice, senza particolari abbellimenti, porta principale al centro dell’edificio, tre ordini di finestre, più piccole quelle dell’ultimo. Tre finestre ai lati dell’ingresso principale. Sopra l’ingresso, una porta finestra imponente dava su un balcone posto al centro del palazzo.

Alla sua sinistra, le ragazze della Pro-Loco avevano allestito e preparato nel parco un ricco buffet-rinfresco, una volta concluso l’incontro.

Quando la conferenza finì e pure le domande che il pubblico poneva allo scrittore, mi alzai, salutai le sorelle e mi avviai verso il buffet. Prima però, mi avvicinai al tavolo dove Vitali firmava i libri che il pubblico acquistava. Due ragazze avevano esposto diverse copie di alcuni suoi libri e le stavano vendendo a un numeroso gruppo di persone. Acquistai una copia di uno dei suoi maggiori successi e mi recai al buffet. Avevo soprattutto sete; memore dell’anno prima, mi avvicinai al tavolo delle bevande, dove adocchiai una bottiglia appena aperta di prosecco. L’addetta mi riempì un bicchiere di plastica. Anche così, mi concessi una lunga sorsata.

Mentre, col bicchiere in mano, compivo diversi slalom fra il pubblico, un mio vecchio amico, Gabriele, mi si avvicinò con una tartina in una mano e un bicchiere nell’altra. Scambiai con lui qualche parola banale sul caldo, sulla gente che era accorsa numerosa e sulla ricchezza del buffet. Notando il libro che avevo appena acquistato, mi chiese se conoscevo l’autore. Risposi candidamente di no. Manifestai il mio interesse per leggerlo, soprattutto dopo averlo udito utilizzare la sua fine ironia durante la conferenza e soprattutto nelle risposte alle domande più disparate del pubblico.

Mentre parlavo, notai che Magda si era appena staccata dal tavolo dei tramezzini e tartine vari e si stava unendo a un piccolo capannello di persone vicino. Chiesi a Gabriele se conoscesse Magda e, notando la perentorietà con cui aveva annuito, gli domandai come mai fosse sempre sola o con la sorella. Mi rispose raccontandomi con molti particolari una storia che vale la pena ricordare.

Non aveva ancora compiuto trent’anni quando tutto era cominciato. Era una ragazza tutto sommato felice: aveva trovato lavoro in città, si era potuta comprare una macchina di seconda mano, ma molto affidabile. Non disdegnava qualche sabato sera di recarsi a ballare assieme a qualche amica. Il suo carattere un po’ introverso le impediva di socializzare con i ragazzi della sua età. Preferiva stare in disparte, prendendo la parola solo per rispondere a domande rivolte direttamente a lei. Sognava, come le sue amiche, di innamorarsi di un bravo ragazzo, non spiantato, di metter su famiglia, fare un figlio, tutte le cose che una ragazza della sua età desiderava. Nella nostra terra, le donne sono sì sognatrici, ma sono molto attente al bilancio familiare. Sono state cresciute, nella stragrande maggioranza, in condizioni di ristrettezza e si rendono conto dei sacrifici fatti dai genitori e dai nonni per assicurarsi una vita decorosa, una casa, pur se modesta. La povertà è sempre, in loro, un concetto molto presente, così come lo è quello della “bella figura”. In paese, fare bella figura è altrettanto importante quanto stare economicamente bene. La domenica, si va a messa o in gelateria col vestito buono, non si deve far parlare la gente, occorre mantenere sempre un profilo basso, e poi, specialmente se si è donna, è sempre meglio dirne una di meno che una di più. Nelle nostre campagne vigeva, e in certi casi vige ancora, il concetto secondo cui è l’uomo che “prende” la donna. “Chi vöt c’at töga?” (chi vuoi che ti pigli?) è una frase che, detta con cattiveria e ripetuta spesso, finisce per insinuare nella mente femminile l’assioma secondo cui è il marito che sceglie e prende moglie e non viceversa. La donna che prende l’iniziativa in modo un po’ troppo spigliato, audace, quasi sfacciato, rischia di non essere presa in considerazione. L’uomo, secondo certa tradizione, ama conquistare la donna e la vuole brava in cucina, capace “rasdura” (reggitrice della casa) e brava nel crescere i figli. Che sia poi brava anche a letto, non importa molto; per sfogarsi, ci sono altri modi. Concetti, questi, che suoneranno come musica nelle orecchie delle donne emancipate, non c’è che dire. Ma tant’è. Certe tradizioni, certi modi di pensare sono come scolpiti nel nostro DNA e solo il tempo, temo, farà giustizia. Le campagne sono da sempre l’ultimo ridotto della tradizione, ma anche della superstizione e del pregiudizio.

Magda non aveva avuto storie di una certa importanza con l’altrui sesso. Qualche simpatia, qualche “filarino” innocente, tutto qua. Il tempo passava e, poco a poco, si stava quasi rassegnando a vivere da zitella, in casa con i genitori, aiutandoli nelle faccende di casa e contribuendo al bilancio familiare. Aveva messo da parte una piccola sommetta, perché una volta all’anno le piaceva fare una crociera, magari con un’amica, conoscere posti diversi, gente diversa. Ogni donna, del resto, anche quella che abita nei luoghi più reconditi e isolati, ama, una volta ogni tanto, sognare in modo concreto e realizzare fisicamente ciò che ha desiderato leggendo riviste, guardando programmi in televisione, ascoltando i racconti di amici che hanno vissuto certe esperienze. Alcuni Paesi la interessavano in modo speciale, l’India, l’Egitto, il Messico, Cuba. Si era documentata su quei Paesi; l’idea di trovarsi accanto alle piramidi, in battello sul Nilo, oppure camminare nelle strade di Calcutta o di Nuova Delhi, sottobraccio con un’amica in mezzo a una folla di gente vestita di colori sgargianti, udire lingue tanto diverse, assaporare piatti mai provati, popolava i suoi sogni e la incoraggiava a mettere da parte un gruzzoletto tale da consentire di realizzarli finalmente.

Quel giorno, parliamo di circa un anno prima della conferenza con Vitali, una collega dello studio presso cui lavorava, l’aveva informata che un’agenzia viaggi della città le aveva spedito un dépliant con alcune offerte di crociere per l’estate. Una riguardava una crociera per l’Egitto, Cipro, Rodi e la Grecia. Magda non esitò un solo momento: decise che avrebbe partecipato.

Per molti “single”, la crociera rappresenta anzitutto, ed è fin troppo evidente, un’occasione per trascorrere un paio di settimane di relax, di conoscere persone diverse, provenienti da ogni parte del mondo e vedere paesi, genti, paesaggi esotici, scoprire cose mai viste se non, forse, in televisione. Un motivo un po’ più recondito è invece quello della grande occasione, quella cioè di conoscere una persona con cui stringere amicizia e, magari, qualcosa di più. Alla sua età, Magda si rendeva conto che le occasioni per trovare un uomo che rispondesse alle sue aspettative, alle sue speranze, ai suoi sogni si riducevano drammaticamente ogni anno. Nel suo ambiente di lavoro, non c’erano che colleghe e uomini sposati o, se liberi,  non rispondenti assolutamente alla sua idea di compagno o marito. C’era stato, un paio di anni prima, un uomo giovane, bello e pure simpatico. Qualche sogno lo aveva coltivato, ma tutto era finito in una bolla di sapone; una mattina, Irma, una sua collega, le aveva confidato di aver saputo che Daniele, così si chiamava quell’uomo, era separato e divorziato, aveva due figli e una vita, a quanto pareva, un po’ movimentata in senso amoroso. Dopo un momento di delusione, Magda se n’era fatta una ragione abbastanza alla svelta.

Un aspetto della personalità di Magda era poi la sua timidezza. Mai e poi mai avrebbe preso l’iniziativa. Era qualcosa che assolutamente non riusciva a superare. In cuor suo, sperava che fosse l’uomo a farsi avanti, a farle capire che provava simpatia, che avrebbe voluto conoscerla meglio. Se non lo avesse fatto, avrebbe accettato a malincuore la situazione e si sarebbe rassegnata; non avrebbe assolutamente fatto il minimo passo per attirare l’attenzione dell’uomo che le piaceva.

In paese, non c’erano molte possibilità. A quanto pare, non c’erano uomini liberi da impegni affettivi (o se ce n’erano, non rispondevano per niente ai suoi desideri), inoltre, le discoteche erano una continua fonte di delusione. Non c’era una vera possibilità di incontrare la persona giusta. Non era l’ambiente giusto. Magda si considerava un poco all’antica: cercava una persona come lei, pacata, gentile, di princìpi. Aveva conosciuto invece ragazzi immaturi, uomini superficiali con la sola voglia di divertirsi, oppure altri fuori di testa, in vena di “sballo”, ma assolutamente refrattari a tutto ciò che esige un minimo di l’impegno. Anche in parrocchia non era andata bene. Il parroco aveva un diavolo per capello per la scarsa affluenza di giovani all’Oratorio e per la loro assenza alla Messa. Dopo la Cresima, la stragrande maggioranza non frequentava più la chiesa né tantomeno l’Oratorio. I problemi di Magda non erano in cima alle sue priorità. Va detto, a scanso di equivoci, che Magda non cercava un uomo, non frequentava ambienti diversi alla ricerca d’un uomo. Non era insomma un’assatanata. L’uomo faceva parte dei suoi sogni, ma non era un pensiero dominante. Con il passare degli anni, Magda era andata coltivando alcuni interessi, come la lettura, per esempio, o la musica. Aiutava i suoi genitori nelle faccende domestiche e dedicava un certo impegno a curare il giardino. Qualche tempo dopo, aveva preso la decisione  di trasferirsi in città. Era un appartamentino di due camere, in buono stato, poco distante dal centro, cosa importante perché evitava lo spostamento in macchina, che d’inverno, tra ghiaccio, neve e nebbia, le procurava un po’ d’ansia, ma anche perché le permetteva di alzarsi un’oretta più tardi. Il fine settimana, però, tornava dai suoi e questo la faceva sentire più a suo agio. Si sentiva più libera. La solitudine non le pesava molto. Giorno dopo giorno, poco a poco, prendeva piede la consapevolezza che quella era la sua vita, quello il suo destino, ormai le cose erano andate così e tanto valeva accettarlo. Ma, malgrado tutto, la fiammella della speranza non si era spenta.

Quando Magda informò la sorella della crociera, Mara chiese in che periodo era prevista. La partenza era fissata per il 3 agosto e il ritorno il 24. Il problema era che Mara aveva già visitato l’Egitto anni prima e avrebbe preferito altri posti. Purtroppo, altre crociere che le sarebbero piaciute erano programmate per luglio (Isole greche e Turchia) e per settembre (Singapore e Malesia), quando per motivi di lavoro non le era possibile partecipare. Magda ci aveva riflettuto a lungo prima di versare la caparra. La sorella aveva insistito perché ci andasse, così pure il marito Renato. Anche allo studio, alcune sue colleghe l’avevano incoraggiata. Quando mai le sarebbe capitata un’occasione così? Andare da sola non era una cosa che le andasse a genio. In altre occasioni, sua sorella, molto più spigliata, era stata di grande aiuto. “Non ti preoccupare della lingua – insisteva Mara – sulla nave parlano italiano. Poi, a terra, ti aggreghi a qualche comitiva di italiani e il gioco è fatto”. Alla fine, per farla corta, si era decisa ed aveva accettato.

Aveva partecipato già a un paio di crociere, ma sempre con la sorella e Renato. Questa volta, doveva cavarsela da sola. “Giusto così- pensò – non posso passare la vita a farmi togliere le castagne dal fuoco dagli altri”.

Sulla nave, dopo un paio di giorni, aveva fatto amicizia con due coppie, una di Bergamo e l’altra della provincia di Milano. Era scesa a terra in Egitto assieme a loro. Erano simpatici e giovani. Si sentiva libera, non più tenuta a comportarsi in certo modo per non dispiacere e Mara. Poteva parlare ed agire come le andava. Questo senso di libertà la rendeva felice.

Poi, mentre la nave si recava verso Rodi, una sera, seduta assieme ai nuovi amici nella discoteca, si era avvicinato un giovane che, a quanto pareva, conosceva la coppia dei milanesi. Presto a Magda le venne presentato. “Si chiama Paolo, è un nostro amico di Milano” spiegò Ruggero, il suo amico.

Paolo le allungò la mano, sorridendo. Magda notò che aveva due occhi stupendi, d’un azzurro chiaro come a lei piacevano tanto. Non era particolarmente bello. Non era molto alto. Aveva una camicia azzurra e un paio di jeans attillati.

  • Piacere – disse Paolo e si fermò qualche secondo a fissarla.
  • Piacere – mormorò, imbarazzata, Magda con la voce roca per l’emozione.
  • Ti va di ballare? – chiese Paolo e le allungò di nuovo la mano.

Magda non sapeva che fare. “Ci vado, non ci vado…e chi lo conosce questo?”. Alla fine prese la mano di Paolo e lo seguì in mezzo alla calca. Si muoveva benissimo, era agile, sicuro. Si sentiva impacciata. La classica campagnola capitata in un luogo non adatto, in un ambiente quasi estraneo, tra gente abituata alla “movida” serale nei bar cittadini, alle feste, ai divertimenti con gli amici, nelle discoteche più alla moda. Si stava rendendo conto di essere fuori posto. Che ci faceva lì? Lei, una ragazza tutta casa e lavoro, abituata al silenzio dei campi e all’atmosfera rarefatta degli studi cittadini, dove si parla a bassa voce, non si gesticola e non si ride e scherza. Davanti a lei, ora, c’era il classico prototipo dell’uomo di mondo, brillante, pieno di vita, aperto. Più lo guardava, più le pareva di udire dentro di sé una voce che le gridava:” Tornatene ai tuoi pollai, ai tuoi campi, al vestito buono della domenica, alle tavolate affollate delle bettole vocianti e rigurgitanti ogni sorta di lezzo impregnato di vino ordinario e fumi di carni suine bruciacchiate. Tornatene nel tuo ambiente e restaci!”.

Eppure, nonostante tutto, nulla al mondo l’avrebbe convinta a togliersi di mezzo. Era in ballo, è il caso di dirlo, e conveniva ballare. Quella sera, nella sua cabina, aveva faticato a prendere sonno. Sentiva la mano sicura di Paolo che la guidava nel ballo, la sua voce sicura, il suo sguardo. Possibile che fosse interessato a lei? Lui, così disinvolto, sempre a suo agio, che interesse poteva avere per lei? Da un lato, cercava di far emergere lo spirito razionale, ma l’emozione, l’illusione, il sogno di qualcosa di meraviglioso quanto inaspettato rodevano il granito della ragione. E chi lo sa? Non si sa mai!

Il giorno dopo era prevista la sosta a Rodi. Paolo si era offerto di farle da guida. C’era già stato un paio di anni prima. I due si erano staccati dal gruppo ed avevano intrapreso una visita per conto loro. Non videro tutto quanto c’era da vedere: si erano limitati a vedere il porto, il castello, avevano compiuto soprattutto lunghe passeggiate per le viuzze della città. All’ora di pranzo, verso le 14, Paolo l’aveva portata in un ristorantino di Lindo, l’altro centro di Rodi. Lo conosceva già. Fuori dal ristorante c’era un pergolato e da lì si poteva contemplare il mare. A Magda piaceva il pesce di mare e Paolo le consigliò il rombo. Alla fine del pranzo Magda era letteralmente conquistata. Un po’ la simpatia di Paolo, un po’ l’effetto del vinello bianco fresco e frizzante che lei amava tanto, un po’ il luogo, l’ambiente, il panorama indicibile, insomma Magda era strafelice. Paolo era abbastanza colto: insisteva sull’italianità di Rodi, sulla sostituzione del cervo con la lupa capitolina in cima alla colonna del porto, poi rimesso di nuovo al suo posto, Aveva capito che Paolo era di idee conservatrici, che una certa nostalgia per il “ventennio” l’aveva manifestata. Ma, nel vortice dell’infatuazione, questa era l’ultima cosa che le importava, soprattutto quando poi, uscendo dal ristorante, l’aveva presa per mano ed accompagnata a un piccolo parco vicino da dove il mare si offriva in tutta la sua maestosità. Avrebbe toccato il cielo con un dito. La voce di Paolo non era stridula, petulante, ma profonda, rassicurante. Le aveva fatto anche qualche complimento per i suoi occhi e il suo sorriso. Nulla di particolarmente impegnativo. Ma che importava? Si rendeva conto che era disposta a perdonargli più di quanto avrebbe dovuto.

Erano tornati alla nave per l’ora di cena. Il tempo di una doccia, di un cambio rapido d’abito e di nuovo insieme al tavolo del ristorante assieme alle due coppie. Dopo cena, Paolo si era allontanato con i due ragazzi per prendere un cognacchino al bar. Magda ne aveva approfittato per togliersi qualche sassolino. Paolo aveva parlato di tante cose, ma aveva detto poco di sé. A lui piaceva parlare di dov’era stato, che posti aveva visitato, i personaggi importanti  che conosceva e con cui si dava del tu, i ristoranti e alberghi che aveva frequentato personalmente. Ma non le aveva detto che lavoro faceva, come si manteneva, se era veramente libero da impegni coniugali o affettivi. Magda non aveva osato chiederglielo. Le sembrava che se lo avesse fatto, avrebbe potuto spezzare l’incantesimo che si era poco a poco creato fra loro due. Approfittando di quel momento, si fece coraggio e chiese quindi alle ragazze qualche cosa riguardo a Paolo. Lo aveva domandato così, quasi casualmente, per non voler dare l’impressione di essere interessata a Paolo più delle chiacchere che ci scambia normalmente attorno ad un tavolino di un bar.

Rossana, la bergamasca, le aveva risposto che conosceva Paolo perché era solito accompagnarsi a loro quattro nelle crociere. Poi si erano visti qualche volta a Milano, ma non sistematicamente. Vanessa, la milanese, lo conosceva abbastanza, ma aveva aggiunto una frase ambigua che l’aveva sconcertata:” E’ uno che parla poco di sé, parla molto, ma non di com’ è dentro. Sappiamo dei suoi viaggi, poco del suo lavoro, ma poco altro”.

– Ma che lavoro fa?

– Lavora nel campo informatico. Una ditta di servizi per le imprese, ma non so altro.

Si fermò. Chiedere altro avrebbe rivelato le sue intenzioni. Cambiò argomento e tutto finì lì.

La tappa successiva era Mykonos, il paradiso delle Cicladi. Magda avrebbe desiderato stare da sola con Paolo, lui, invece, sembrava farlo apposta per stare con le due coppie. Le viuzze strette della cittadina, piene di turisti, di negozi e negozietti di orefici, abbigliamento, souvenir si assomigliavano tutte: Rossana diceva che le ricordavano l’Andalusia o anche Ibiza. Vanessa annuiva. Ad un certo momento, del tutto inaspettatamente, Paolo le si era avvicinato, l’aveva presa per mano invitandola a vedere un posticino delizioso da dove si ammirava un paesaggio speciale. Gli altri erano rimasti sorpresi, a Magda non era sfuggito che “Dado”, il bergamasco, aveva strizzato l’occhiolino a Ruggero, il milanese, che aveva abbozzato un sorriso. Magda aveva mormorato una frase smozzicata, poi si era affidata alla mano di Paolo. Camminarono a lungo attraverso un dedalo di viuzze pavimentate con palladiane su cui si affacciavano case bianchissime con linee di azzurro a marcare spigoli, contorni e scale. Ciuffi e nuvole di bouganville rendevano quei luoghi come incantati. Magda ne era rapita. Alla fine, erano arrivati presso un muretto da cui si poteva contemplare il porticciolo, animato da battelli, barche a vela, yacht. Al largo si intravedeva la loro grande nave da crociera. Dopo qualche momento di silenzio, Magda aveva appoggiato i gomiti sul muretto senza dire una parola. Una brezza improvvisa le scompigliò i capelli.

  • Che ne dici? Bello, eh? – Paolo sembrava orgoglioso di aver fatto ancora una volta colpo.
  • Stupendo – Magda era alquanto seccata di non riuscire a trovare parole adeguate. Le sembrava di essere sempre inadeguata, in ogni occasione. Le sembrava di essere banale, scontata. Le sembrava di arrancare in bicicletta assieme a gente che andava in moto.

Era l’una passata.

  • Ti andrebbe di sederci in quel baretto e prendere qualcosa? – chiese Paolo.

Come dire di no? Era ciò che desiderava… tanto camminare, il sole, le emozioni… Quel baretto semplice, eppure così accogliente, era diventato ai suoi occhi il luogo più bello del mondo. Lo vedeva così affascinante, spigliato, allegro, con un’abbronzatura poi che lo rendeva irresistibile. “Ma perché proprio a me tutte quelle attenzioni? Che ci trovava in me?” Si sentiva, come al solito inadeguata, nel corpo, nella parola.

Ad un certo punto, Paolo le chiese:” Senti, io sono un po’ stanco, qui hanno delle camere… ti andrebbe di riposare una mezz’ora?”.

Magda lo voleva e lo temeva. Che fare? Era immaginabile ciò che sarebbe successo. Eppure, “Chi se ne frega”, pensò. Aveva deciso di mandare alla malora esitazioni, reticenze; quando mai si sarebbe presentata una situazione così?”.

Annuì, dopo un momento di silenzio. Ma aveva abbassato lo sguardo. Non voleva che fosse così facile per lui… ma… basta, lo voleva e basta. Lo seguì dentro il bar, lo vide prendere una chiave appoggiata sul bancone. “Ma come sapeva… quando aveva parlato col padrone del bar?”. Il desiderio era però così forte che rifiutava con la mente di indagare.

Era una cameretta piccola con un letto matrimoniale. Una finestra dava direttamente sul mare. Un armadietto e una porta che separava la stanza dal bagno. Le pareti erano candide, con un quadro, sopra la testiera del letto, che raffigurava un porticciolo con alcune barche a vela fuori dal molo.

Stava accadendo ciò che aveva immaginato. Paolo la aiutò da dietro a togliersi la camicetta. Nel farlo, le accarezzò il collo, dolcemente. Lei inclinò la testa all’indietro e cercò la sua bocca. Presto finirono a letto. Dopo qualche carezza e qualche bacio, lui si denudò completamente e le fu sopra. Le tolse piano piano il reggiseno, lo stesso con le mutandine. Con la stessa calma le aprì le cosce e cominciò a baciarla lì, a lungo. Durò poco. Paolo, alla fine si era staccato da lei e dopo qualche sospiro aveva chiuso gli occhi. Magda avrebbe voluto che non si staccasse così presto. Provava un po’ di timore ad allungare la sua mano e posarla sul suo torace, per sentirlo respirare, per accertarsi che era tutto vero, che non era un sogno. Dopo qualche minuto lo sentì russare. Curioso, pensò. Avrebbe voluto prolungare quei momenti per un’eternità; l’idea di dormire era la cosa più estranea a lei. Sarebbe stato come far svanire quei momenti.

Sentiva però di doversi asciugare. Facendo il minor rumore possibile, scivolò in bagno e lasciò scorrere l’acqua con delicatezza, un pochino dispiaciuta perché con l’acqua se ne andava il suo odore, il suo liquido, il suo calore. Poi, dopo essersi rivestita, uscì delicatamente ed andò a sedersi sulla poltroncina su cui Paolo era stato seduto poco prima. Era un primo pomeriggio di quelli che costa lasciarsi alle spalle. Il mare non poteva essere più seducente, una calma quasi irreale regnava tutto intorno. La gente era all’interno delle case per il pranzo. Da lontano, giungevano gridolini attutiti di bagnanti ancora in acqua. Era una calma che le ricordava i “meridiani ozi delle aie” di casa sua. Così diversi i luoghi, ma così simili i silenzi. Si sentiva felice, ma, al tempo stesso, sentiva che la sua gioia era appesa al filo sottilissimo delle sue speranze. Qualsiasi cosa che di lì a poco sarebbe successa non avrebbe cancellato mai quei momenti di rara pienezza. Andasse come andasse, poteva dire di avere finalmente provato l’ondata travolgente del sentimento, quello più vero, autentico, totale, ma anche temerario, immaturo, disinteressato. Le sembrava che i suoi sensi fossero acuiti; sentiva odori e profumi che prima non aveva sentito: profumi cui non era abituata, voci lontane che ora sentiva gradite, i prosaici rumori di stoviglie, di passi concitati di bimbi, di madri che li chiamavano, l’ansimare felice di un cane che giocava col suo padroncino. Sentiva di essere in comunione con il mondo, sentiva di amarlo quel mondo, lo stesso mondo che per anni ed anni, era abituata a considerare come necessariamente sopportabile, plumbeo, monotono. Provò la stranissima tentazione di scendere dai gradini del bar ed unirsi al cane e al suo padrone per giocarci assieme. Le si avvicinò il cameriere chiedendole, in un italiano approssimativo, se desiderava qualcosa. Era un ragazzo con una camicia chiara e un grembiule nero corto: la colpirono i suoi occhi, neri e vivaci e il suo atteggiamento educato e rispettoso. Stava ora concentrandosi su particolari che prima non aveva rilevato. La spalletta del muretto, bianco, il colore blu degli infissi e della porta aperta, nel cui vano cadeva una tendina fatta di strisce di plastica coloratissime. Un tempo, anche al suo paesino, d’estate, alcuni locali pubblici le usavano. Nelle case private, specie in quelle dove il sole estivo picchia duro, la sua gente metteva spessi tendoni, sovente di color mattone, così tipici. Si cullava pensando a quei pomeriggi estivi quando, incurante del sole cocente, girava in bicicletta per le stradine di campagna. Quelle case erano per lei segni della sua terra, della sua gente. Quelle aie deserte, quei fossi semi-asciutti che aspettavano il ristoro della pioggia, la pace quasi solenne, rotta di tanto intanto dal gracidare o dal frinire così familiari. Sembrava tutto così lontano, eppure il senso di felicità faceva sembrare tutto così vicino e così simile. Gli stessi volti della gente del luogo erano simili. “Una faccia, una razza” aveva sentito dire da qualcuno. Vero! Il ragazzo aspettava, in silenzio. Chiese un caffè. Mentre aspettava, arrivò Paolo; un sorriso e qualche parola che non aveva ben capito. Si sedette di fronte a lei. Aveva un’espressione seria. “Senti, Magda, io, purtroppo, devo tornare in Italia. Mi hanno appena telefonato. In ufficio, il mio sostituto ha avuto un incidente. Hanno assoluto bisogno che ritorni al più presto”. La sua voce, bassa, profonda che a lei piaceva così tanto era esitante, incerta.

  • Ma come fai a tornare?
  • Ho già prenotato il volo. Volo diretto per Milano. Devo proprio partire, mi spiace così tanto – la sua voce ora sembrava supplichevole e, forse, poco sincera.
  • Ma te ne vai così, all’improvviso… è così urgente, così importante?
  • In ufficio, se non ci sono io o il mio sostituto, si blocca tutto e sarebbero guai seri, molto seri.
  • Ma poi torni? Fai in tempo a finire la crociera? -Paolo ora sorrideva.
  • Guarda, se è possibile, sì. Ma… sarà difficile. Dai, ci vediamo tra un paio di settimane in Italia. Mica vado in America…                                                        – Seguì qualche momento di imbarazzato silenzio. Qualche istante in cui nessuno avrebbe voluto, per qualsiasi cifra, trovarsi là.
  • Devo tornare subito alla nave a prendere la mia roba. Vieni con me?      Magda annuì. Meccanicamente. Sentiva, in profondità, che lui era migliaia di chilometri lontano, con la testa già in ufficio. Il tragitto dall’isola alla nave fu il viaggio più silenzioso della sua vita. Paolo guardava il mare. Non la toccò nemmeno di sfuggita.
  • Vieni con me?                                                                                                                  Mezz’ora prima, l’unione di corpo e spirito. Ora, il ritorno all’oggi, alla cortesia, alla neutralità, all’evanescenza.
  • Vuoi restare in nave o preferisci tornare sull’isola? Gli amici sono in spiaggia. Vuoi unirti a loro? Io li ho già avvisati.                                               Magda scosse leggermente il capo. Desiderava correre in cabina e gettarsi sul lettino. La cosa che voleva di più al mondo.                                                            Il commiato fu quasi freddo. Un abbraccio, un bacio prolungato che le sembrò diverso, incerto, colpevole, quasi. Almeno così le era parso. Quando lo vide allontanarsi, si recò subito in cabina. Desiderava il buio, il silenzio assoluto. Si sentiva improvvisamente svuotata, stanchissima. Avvertiva un crescente dolore al capo con puntate sempre più dolorose.
  • Al ritorno a casa era già cambiata. Qualcosa si era rotto. Per sempre. Dopo una breve splendida schiarita, stava tornando il solito mondo, grigio, triste e monotono. Sapeva di non essere né bella, né particolarmente simpatica. Non era né ambiziosa né una Bel Ami in gonnella. Era solo una timida ragazza di campagna cui il mondo non le si sarebbe certo aperto per un paio di crociere o qualche cena con i capi presso il più raffinato ristorante di città. Un diplomino da ragioniere e una certa capacità nel proprio lavoro non erano purtroppo, e nemmeno lontanamente, il lasciapassare per un ingresso nella società dei benestanti, dei potenti, dei personaggi di successo, di quella che certuni chiamano la “bella gente”.
  • Arrivata a casa, aveva cercato di contattare Paolo per telefono. Invano. Il suo numero era sempre libero e mai nessuno rispondeva. Un sabato, si era decisa a recarsi a Milano per incontrarlo e chiedere, se non altro, qualche spiegazione. L’indirizzo che i suoi amici le avevano dato esisteva, ma la portiera, una signora scorbutica e maleducata, le aveva risposto che il signor Paolo dormiva spesso fuori casa e aveva lasciato detto di non cercarlo perché era partito per lavoro e sarebbe rimasto via molto tempo. Si era recata anche in ufficio, la segretaria però le aveva detto che da tempo non lavorava più lì e non sapeva proprio come rintracciarlo. Sparito.
  • “Tornatene ai tuoi pollai, alla tua gente, ai tuoi campi e ai tuoi fossi”: di nuovo le parole che ogni tanto risuonavano nella sua mente, come un invito a restare al proprio posto. Le aveva sentite anni prima pronunciare da parte di un attore americano nei riguardi di un giovane venuto dal nulla ma deciso a farsi largo nella società; parole dure, spietate che sembravano pietre tombali per chiunque volesse compiere il grande salto, oppure salire i gradini del successo.                                                                                                               La terza ed ultima volta che vidi Magda fu in città. Era appena uscita da un palazzo del centro. Pioveva. Camminava a testa bassa, forse per evitare le pozzanghere. Si riparava con un ombrellino arancione un po’ civettuolo. L’unica cosa non in linea con il grigiore della giornata e con l’impermeabile scuro che indossava. Non si era accorta di me. La seguii a debita distanza.                                                                                                                                  Poco lontano c’era un parcheggio. Salì in macchina. Qualche momento di pausa. Poi l’auto partì e si allontanò. La vidi sparire tra altre macchine che si dirigevano verso il lungolago. Si era ormai a fine ottobre e le giornate si erano molto accorciate. Si era formata una lunga coda prima del semaforo. Qualcuno, spazientito, azionava il clacson. Le ombre della sera stavano scendendo e presto avrei dovuto fare ritorno a casa. Mi avevano detto dove abitava. Decisi di allungare un po’ il mio percorso di ritorno. Abitava appena fuori dal centro, oltre il ponte che porta a Cittadella. Parcheggiai la macchina pochi metri prima di casa sua. Era un edificio a due piani dalla parte opposta della strada. Abitava al secondo. Notai una luce accendersi dietro una finestra. Poi la vidi affacciarsi per un attimo, rinchiudere gli scuri e sparire.                                                                                                                                     Fui tentato di scendere e andare a trovarla. ma per dirle che cosa? Che mi spiaceva per ciò che le era successo? E con che scusa? Con che diritto mi impicciavo nei suoi affari? Meglio, dopotutto, lasciare le cose così. Rimisi in moto e mi avviai verso il lungolago per tornare a casa. Cominciava ad esserci parecchio traffico. L’asfalto era scivoloso e le luci delle auto mi disturbavano.  Era un tramonto come tanti, quasi insignificante, stupido. Il cielo era grigio, plumbeo. Tutto sembrava monotono, inutile. Un mondo quasi estraneo, fatto di gente impassibile, insensibile, concentrata sul duro mestiere di vivere, dove a trionfare sono i Paolo e a soccombere sono le Magda.  Avrei voluto consolarla, raccontarle mille balle, le balle che si raccontano in occasioni così e che a volte peggiorano, invece di migliorarla, la situazione. Avvicinandomi a casa, la immaginavo nel suo appartamento, sola, seduta a leggere un libro, una storia romantica, per arrivare col sogno dove non era arrivata con la realtà. Avrebbe consumato una cena frugale e presto sarebbe andata a coricarsi. Il giorno dopo la aspettava l’ennesima giornata banale, scontata, monotona, irrilevante.

Da allora non l’ho più rivista.

 

 

 

 

 

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Voiello for ever!

«Girolamo è tutto quello che noi non siamo. Ed è per questo che siamo qui riuniti oggi, per celebrarlo. Perché noi non siamo come lui e perché vorremmo essere come lui, che è il motivo per cui lo contempliamo e lo adoriamo, e perché Girolamo sa volere bene e sa anche essere un amico vero». E infine: «Girolamo è il mondo che soffre, Girolamo è il mondo che ama e ringrazio Dio di avermi dato la straordinaria opportunità di essere il suo migliore amico». «Tu, solo tu, che hai conosciuto a fondo lo strazio della sofferenza, la bellezza del sacrificio e la forza dell’amore, sappi che non ti dimenticherò mai Girolamo, mai».

Questo elogio funebre, uno dei più intensi e commoventi che io abbia letto o udito, dà la misura delle capacità e del valore del comunque controverso, diseguale, sbilanciato di THE NEW POPE, di Paolo Sorrentino. I nove episodi della serie confermano una volta per tutte quanto già si sapeva. Eppure stavolta, grazie anche agli sceneggiatori, ha aggiunto qualcosa in più e cioè maggiore profondità emotiva ed intellettuale.

La serie è interessante soprattutto grazie alle capriole stilistiche, alle imprevedibili gag che sconcertano il pubblico. Il regista si diverte a stupire, a disorientare il pubblico, proponendogli, ora un sapientissimo discorso sul rapporto tra cristiano e fede, su quello che egli dovrebbe essere e sui propositi da adottare; subito dopo, ancora immersi nella riflessione di quanto udito, ci troviamo di fronte a un’esplicita scena di sesso, non trascurando, sia chiaro, le relazioni omosessuali, oppure a una larvata insinuazione circa la tossicodipendenza del nuovo papa. A volte, la narrazione corre lungo i binari della farsa, altre volte lungo quelli della denuncia dei mali della Chiesa, tra cui si riconoscono chiaramente la lotta di potere, l’invidia, l’ipocrisia, l’immoralità, l’abuso del potere nei confronti del personale (suore, piccoli funzionari, personale di rango inferiore).

A volte, il regista si diverte ad introdurre elementi di pura fantasia surrealista (come i vermi che escono dalle persone) o di pura comicità (di cui l’ineffabile autore è quasi sempre il cardinale Voiello, vedi le esternazioni estemporanee sulle vicende della squadra di calcio di Napoli, o l’imperturbabilità con cui esprime senza imbarazzo le proprie mire, le proprie manchevolezze o addirittura la scena finale in cui, eletto papa, congeda in privato uno scugnizzo con una colorita parolaccia).

Risaltano d’altro canto le interpretazioni di Jude Law e John Malkovic. Del secondo, soprattutto, emerge una personalità spiccatissima, circondata da un alone di mistero, che contribuisce a rendere oltremodo inquietante il suo personaggio. La voce modulata (è necessario ascoltare la versione inglese per apprezzarla), la lentezza dell’eloquio, l’uso di un inglese colto e aristocratico, il portamento nobile capace di gesti di ineffabile dolcezza e di ira quasi scomposta, rilevabile con l’uso di uno sguardo penetrante, rendono enigmatica la sua figura e contribuiscono ad accettare l’impossibile finale, in cui egli, rinunciando al magistero papale, fa ritorno alla sua Scozia, finalmente rappacificato (a quanto è dato di capire) con i propri genitori, che mai gli hanno perdonato la morte del fratello.

Jude Law dimostra tutte le capacità istrioniche di cui è capace, ora fulminando con il solo sguardo il malcapitato interlocutore, ora dando segno di impensabile e imperscrutabile dolcezza, ora dispensando giudizi o annunciando intenzioni che vorrebbero scuotere dall’interno i cristiani, infondendo speranze di trasformazioni radicali all’interno della Chiesa e, maxime, del Vaticano, scegliendo, una volta constatata l’impossibilità di attuarle, di immolarsi donandosi in toto alla folla o auto-estinguendosi nelle acque della sua terra.

THE NEW POPE esprime tutto l’agnosticismo verso le forme curiali, esteriori della Chiesa e la condanna senza appello del marciume che vegeta all’interno del Vaticano di cui il repulisti deciso in extremis sembra vanificato causa l’elezione del papa più democristiano, più controverso e più andreottiano possibile e cioè Voiello. Ma si respira, nei momenti  “seri” ad ennesima riprova del carattere ambiguo della serie, una profonda moralità, un estremo bisogno di pulizia, di etica sociale e politica, arricchito il tutto da una sceneggiatura impeccabile. Sorrentino è l’albatros baudelairiano capace di librarsi a vette sublimi per poi confondersi con le esalazioni fetide provenienti dalla stiva della nave su cui, stanco di volare, si posa di tanto in tanto, anelando di riprendere il volo, ma alla fin fine, non del tutto disgustato dal contatto plebeo, con passo un po’ malfermo, finisce per accettarne le facili seduzioni e le a volta scontate a volte argute esternazioni. E il volo non è detto che alla fine abbia luogo.

 

Quel rompiscatole di Kirk

Alla fine degli anni ’50, si presenta a casa di Dalton Trumbo un distinto signore che è appena sceso da una lussuosa automobile con autista. “Sono Otto Preminger – dichiara con tono sicuro- Vorrei affidarle, signor Trumbo, la sceneggiatura di un film sulla nave che trasportò in Palestina molti ebrei reduci dai campi nazisti, la nave Exodus. Io so che lei non può lavorare in via ufficiale, ma so che ha scritto delle sceneggiature che ho molto apprezzato, con un altro nome. Dalton conosce Otto, i suoi guai con Darryl Zanuck, la sua testardaggine, ma i film che ha realizzato gli sono piaciuti. Gli dice che se ne può parlare.

Pochi giorni dopo, riceve la visita di un attore che ha da qualche anno creato una sua casa di produzione. E’ noto a tutti per la sua bravura, ma anche per la sua ambizione e per il suo caratteraccio. Si chiama Kirk, Kirk Douglas, ma il suo vero nome è Issur Danielovitch, figlio di una coppia di bielorussi venuta negli USA in cerca di fortuna, analfabeti e poverissimi, al punto da sbarcare il lunario raccogliendo, per poi venderli, stracci. Ha in mente una storia ambientata nell’antica Roma: il protagonista si chiama Spartaco, uno schiavo trace che si ribella e sfida Roma con un esercito raccogliticcio di schiavi che si sono uniti a lui, nella speranza di riacquistare la libertà. L’idea è un po’ la storia di una ripicca. William Wyler lo aveva all’inizio tenuto presente per interpretare Ben Hur, poi però alla fine scelse, come ben si sa, Charlton Heston. Come consolazione, gli aveva offerto la parte di Messala, ma Kirk sdegnosamente rifiutò e se la legò al dito. Ora era arrivato il momento. SPARTACUS sarebbe stata la risposta. Conosceva bene Trumbo e le sue vicissitudini, ma lo riteneva fra i migliori, se non il migliore, scrittore di Hollywood.

Otto Preminger

Anche a Douglas, Dalton ripeté le cose dette a Preminger e cioè di essere sulla lista nera. “Non me ne frega niente – fu la risposta – Lei è il migliore scrittore e voglio che sia lei a scrivere la sceneggiatura del mio film”. In realtà, all’inizio aveva accettato di pagarlo sotto falso nome, poi, com’era nel suo carattere, decise di mettere il suo nome nei titoli.

Questa scena è descritta in modo convincente nel film di Jay Roach L’ULTIMA PAROLA- LA VERA STORIA DI DALTON TRUMBO  (Trumbo)(2015) in cui Dalton è interpretato alla grande da Bryan Cranston (ALL THE WAY, 2016). Per il ruolo di regista, Kirk scelse Stanley Kubrick: RAPINA A MANO ARMATA (The Killing)(1955) gli era piaciuto molto. Ora, col senno di poi, pensare di mettere insieme Douglas e Kubrick e cioè un rompiscatole meticoloso, accentratore e prepotente con un uomo geniale, ma tormentato e mai soddisfatto, era una follia. Durante la lavorazione, Kirk subì innumerevoli minacce sia da parte di scagnozzi della HUAAC (l’ente che indagava, su iniziativa del senatore McCarthy, sulla presenza di comunisti a Hollywood), sia da squallidi personaggi come Hedda Hopper, un’attricetta mancata che scriveva articoli al vetriolo e pettegolezzi vari, molto temuti, sul Los Angeles Times.

Kirk andò avanti per la sua strada, SPARTACUS fu lodato dalla critica e apprezzato dal pubblico. In più, fu uno, se non il migliore, dei più bei film su Roma antica. Inoltre, cosa fondamentale, il nome di Trumbo apparve nei titoli e questo contribuì a rendere ormai superata la famigerata lista nera., permettendo a Trumbo e agli altri nelle sue stesse condizioni di lavorare alla luce del sole.

Laurence Olivier (M.Licinio Crasso) in SPARTACUS

Coloro che lo conoscevano concordavano sul fatto che lavorare con lui era impresa durissima: Kirk era un ottimo attore ma tendeva ad andare oltre il suo ruolo. La sua personalità era così forte da condizionare coloro che dirigevano il film. Fece, ad esempio, licenziare Anthony Mann (sì, proprio lui!), ordinò a Kubrick di modificare la sceneggiatura di ORIZZONTI DI GLORIA (Paths of Glory)(1957), rompeva le scatole ad attori, registi e sceneggiatori: il bello è che quasi sempre aveva ragione. La sua ricerca della perfezione era ossessiva, intransigente, assoluta. Un altro Kubrick, insomma.

Stanley Kubrick

Al cinema era arrivato dopo aver frequentato l’Università, il servizio militare in Marina durante la guerra e qualche tentativo in teatro. All’Academy of Dramatic Arts conosce Lauren Bacall (il cui vero nome era Betty Perske) e Dina Dill, un’aristocratica che poi sposerà. Sarà la Bacall a presentarlo a Hal Wallis (da poco alla Paramount), il notissimo produttore che due anni prima aveva piantato Jack Warner dopo l’umiliazione inflittagli alla premiazione di CASABLANCA (avendo curato lui tutta la produzione del film, si aspettava di essere chiamato sul palco per l’Oscar, ma Warner, ammalato di megalomania, lo precedette e i suoi familiari impedirono fisicamente a Hal di muoversi dalla poltrona). Gli venne affidata una parte nel film LO STRANO AMORE DI MARTA IVERS, (The Strange Love of Martha Ivers) in cui interpreta il ruolo di un vile arrampicatore sociale che arriva ad essere nominato procuratore distrettuale solo per le sue frequentazioni sociali. Quel ruolo di debole e sleale lo ostacolò non poco per la sua carriera futura, ma gli fece conoscere il regista, Lewis Milestone, che più tardi accusò di non farsi rispettare ma che gli insegnò a recitare rilassato, senza preoccuparsi della cinepresa. Una lezione che si sarebbe rivelata fondamentale.

Van Heflin e Kirk Douglas in LO STRANO AMORE DI MARTA IVERS

Ritengo inutile ricordare la trafila che da allora in poi lo portò a diventare uno degli attori più apprezzati al mondo. Vorrei qui solo ricordare alcuni suoi film che, a mio modesto avviso e in modo personalissimo hanno significato qualcosa. Il primo è senz’altro CHIMERE (Young Man with a Horn, 1950), diretto da Michael Curtiz, alla Warner Bros. E’ un film che mi ha segnato. La sceneggiatura di Carl Foreman ed Edmund North, dal romanzo di Dorothy Baker, è netta, affilata come una lama d’acciaio e fa male. Il film oggi è sparito dalla circolazione, ma negli anni ’60, la RAI lo mandò in onda diverse volte. E’ la storia di un trombettista (ispirato un po’ a spanne a Bix Beiderbecke) che arriva al successo, ma tormentato dai suoi demoni interiori e da una relazione castrante con un’avvenente Bacall, finisce per autodistruggersi. Un film pieno di energia e ricco di sfumature noir e note malinconiche, quasi un capolavoro.

Doris Day e Kirk Douglas in CHIMERE

Il secondo è L’ASSO NELLA MANICA,(The Ace in the Hole-The Big Carnival) della Paramount, 1951, diretto da Billy Wilder. Un episodio curioso: dopo il film, Kirk si fermò a soccorrere un ferito in un incidente con la macchina. Chiese a un reporter che passava in quel momento di dargli una mano. Quello, senza scendere, gli rispose:” Mi spiace amico, ma devo correre al giornale per l’edizione, non ho tempo da perdere!”. Kirk, durante la lavorazione, era un po’ perplesso perché riteneva che la figura di quel giornalista, protagonista del film, fosse troppo cinica, troppo studiata a tavolino per essere autentica. Aveva insistito non poco per convincere Wilder ad ammorbidire la figura del giornalista.

Kirk Douglas in L’ASSO NELLA MANICA

Invano. Quell’episodio lo fece ricredere. C’è tutto Wilder in questo film: cinismo, disprezzo per i giornalisti, disprezzo per il mito del successo made in USA. I critici, in buona parte giornalisti, si sentirono offesi e boicottarono il film. La stessa Paramount lo ritirò dalla circolazione, distribuendolo in seguito con un altro titolo (THE BIG CARNIVAL al posto di THE ACE IN THE HOLE), ma in seguito il film venne osannato come vero capolavoro e Kirk fu acclamato per la sua interpretazione perfetta.

Kirk Douglas e Richard Benedict in L’ASSO NELLA MANICA

Il terzo film è ORIZZONTI DI GLORIA, prodotto dalla Bryna, la casa di produzione di Kirk, così chiamata dal nome di sua madre è tutto da raccontare. Il film racconta, con alcune libertà, un fatto realmente accaduto nel 1915 sul fronte francese, quando un reggimento si rifiutò di uscire dalle trincee per attaccare il nemico (tedesco), sapendo di andare incontro ad un’ennesima strage per di più inutile.

Kirk Douglas in ORIZZONTI DI GLORIA

Dopo un processo presso la corte marziale, vengono condannati a morte tre uomini di cui il colonnello Dax (Kirk Douglas) aveva svolto il ruolo di difensore. Film anti-militarista al punto che i finanziatori del film, la Unirted Artists, pretendevano che ci fosse un lieto fine, temendo che, altrimenti, la gente si sarebbe tenuta lontana dalle sale. Ma Kirk si oppose fermamente ed arrivò a convincere Kubrick, il regista, a mantenere l’impianto originale della storia, andando contro i suoi stessi finanziatori. Ecco qui che Kirk si fa sentire per la prima volta e dimostra tutto il suo carattere e la sua determinazione. Il film fu girato in Germania, perché i francesi si opposero alle riprese a casa loro. In tutto il mondo uscì nel 1958, in Germania nel 1960 (per non fare uno sgarbo ai francesi), in Francia solo nel 1975! (la stessa cosa accadde a Pontecorvo con LA BATTAGLIA D’ALGERI).

Il quarto è SPARTACUS , quello che preferisco.

Kirk Douglas in SPARTACUS

A mio avviso, è il miglior film su Roma antica, pur se con notevoli inesattezze storiche, ma, d’altro canto, non sarebbe possibile realizzare nessun film con assoluto rigore storico. Kirk qui, fece, a differenza di altri casi, il pompiere. Trumbo aveva scritto una sceneggiatura con i controfiocchi, ma Kubrick si era messo in testa di fare del film una sorta di manifesto politico contro gli imperialismi del XX secolo, in specie quello americano. A lui interessava fare di certi personaggi come Lentulo Batiato (Peter Ustinov) e Marco Licinio Crasso (Laurence Olivier), i rappresentanti di un potere dispotico e corrotto. Non gli interessava certo mostrare le caratteristiche fisiche di Spartacus o le scene d’amore tra lui e Varinia: troppo hollywoodiane. Invece, la scena di seduzione dello schiavo Antonino insidiato da Crasso, proprio gli stava a cuore. La scena era osée, per quei tempi e venne tagliata dalla censura, e Kubrick non poté farci nulla. Kirk vedeva che Kubrick gli sfuggiva dalle mani.

Kirk Douglas in SPARTACUS

Dopotutto aveva investito in quella produzione il proprio capitale e non poteva permettersi di sbagliare; tra l’altro ORIZZONTI DI GLORIA aveva problemi con la censura e la Francia l’aveva rifiutato. La versione finale risultò ampiamente tagliata e il finale poco comprensibile. Per fortuna, nel 1991 il film venne restaurato con il reinserimento delle scene tagliate, tranne una (quella della (seduzione) di cui si era perduto il sonoro e che venne risonorizzata con lo stesso Tony Curtis e la voce di Anthony Hopkins al posto di quella di Olivier, nel frattempo passato a miglior vita. Douglas, durante le riprese, sembrava un pazzo; pretendeva continui cambiamenti al copione, interrompeva tutto per documentarsi meglio, cacciava a pedate chi non era d’accordo. Lo stesso Anthony Mann fu licenziato perché troppo lento; in 10 giorni aveva girato solo 16 minuti di pellicola. In seguito Mann si lamentò del carattere troppo autoritario di Kirk e la versione ufficiale parlava di una netta disparità di vedute tra produttore e regista. Pure Kubrick non fu molto contento: il film non era come lui avrebbe voluto. Il solo ad essere moderatamente soddisfatto fu Howard Fast, l’autore del libro da cui il film era tratto. Anche lui era stato un “blacklisted”, come Trumbo e la larvata denuncia sociale del film era una sorta di piccola vendetta, Pure Kirk era abbastanza contento: gli sembrava di essere riuscito a coniugare critica sociale e favore del pubblico.

Dalton Trumbo mentre scrive nella vasca da bagno

Sarei tentato di parlare ancora di alcuni altri film che, a mio parere, superano la sufficienza come SOLO SOTTO LE STELLE (Lonely are the Brave)(1962) di David Miller, oppure UOMINI E COBRA (There was a crooked Man)(1970) di Joseph Mankiewicz e di una sua regia degna di nota in I GIUSTIZIERI DEL WEST (Posse)(1975), ma rischierei di dilungarmi. Mi interessava soprattutto ricordarlo nei quattro film citati che, a mio parere, mettono in luce le sue enormi capacità di attore e rivelano i vari aspetti del suo carattere. Con lui muore l’ultimo dei “grandi” di una Hollywood ormai scomparsa, osteggiata, criticata, ma, forse, rimpianta.

 

 

 

 

 

Il verbale dello scrivano di Ponzio Pilato

 

PREMESSA: Il contenuto di questo articolo è del tutto inventato e arbitrario, oltre a contenere, ovviamente, incongruenze e illazioni del tutto discutibili. Ma a me interessava la curiosità e la sorpresa che una notizia quale quella riportata desterebbero ancora oggi.

 

Quando l’équipe del professor Trinca, uno dei massimi esperti mondiali di paleografia romana, portò alla luce a Pompei il reperto VX 453, la notizia del ritrovamento destò un interesse incredibile, anche se ovviamente prevedibile.

Il primo a darne notizia fu il TG1 della sera e poco mancò che ci fosse un’edizione straordinaria, se consideriamo l’impatto che il ritrovamento provocò nel pianeta.

Televisioni e giornali di Paesi di fede cristiana ne parlarono a lungo, quasi come se la notizia aiutasse ad alimentare, in certa misura, la devozione di milioni di fedeli.

Sicuramente, come è ovvio, il Vaticano e la Chiesa cristiana ne uscirono da trionfatori. L’annuncio con cui il Papa spiegò, in diretta Tv e radiofonica, il valore del ritrovamento, voleva forse essere anche una sorta di rivincita, un malcelato compiacimento nel ribadire Urbi et Orbi che la Chiesa aveva ragione, che era tutto vero, che quanto scritto nei Vangeli aveva un fondo di verità storica. Il mondo, ora, non poteva non riconoscere la validità dei Vangeli: Gesù era finalmente una figura storica, nota anche a Roma. Le origini della conversione di Roma al Cristianesimo dovevano essere riscritte.

Tutto era cominciato quando era stato portato alla luce un muro che al professor Trinca era parso interessante. Dopo le opportune operazioni di rilevamento, studio e prime prospezioni con tutte le tecnologie più moderne, l’équipe scoprì una casa patrizia con interessanti affreschi, suppellettili e oggetti di gran valore. Ma la scoperta esplosiva fu la presenza di un cofanetto di argento intarsiato contenente dei rotoli di pergamena.

Il reperto consisteva in una serie di manoscritti, in parte leggibili e in parte, pur se deteriorati, ricostruibili dal punto di vista linguistico e semantico. Di questi, alcuni erano trascrizioni di sentenze emesse dal tribunale di Pompei; mentre un paio di essi riportavano verbali di processi tenutisi a Gerusalemme durante un periodo in cui il prefetto di Roma era Ponzio Pilato.

Come è lecito immaginare, il documento di gran lunga più importante era quello relativo a un processo conclusosi con la condanna a morte di un certo Joshua, Galileo, di circa 30 anni, per essersi proclamato indebitamente re dei Giudei e commesso atti in aperto contrasto con la religione di quel popolo, autoproclamandosi Messiah o Unto del Signore, ossia investito direttamente da Dio e addirittura suo figlio.

Il processo verbale cominciava con il capo d’accusa che era quello di avere sobillato la popolazione Giudea, provocando gravi disordini e sommosse. Non vi erano specifiche accuse riguardo alle leggi romane. Il verbale parlava di questioni interne alla popolazione della Giudea; tuttavia, rispetto ad altri verbali ritrovati, vi erano delle difformità strane. Il documento lasciava trasparire, in modo abbastanza evidente, un certo disaccordo per il modo in cui il processo andava avanti. Sembrava insomma che il prefetto non volesse accettare che si mandasse a morte un uomo per accuse che, per la legge romana, non prevedevano la massima pena.

“Ecce Homo”, ecco l’uomo, sembra dire Pilato, rivolgendosi alla folla urlante, tentando di convincere gli esagitati a desistere dalla loro insistenza, mostrando Gesù flagellato selvaggiamente. Quadro di Antonio Ciseri

Tuttavia, traspariva anche un curioso atteggiamento contraddittorio nei confronti dei Giudei: da un lato, ufficialmente, si esprimeva rispetto per le tradizioni e religione locali, dall’altro, appariva chiaro che il prefetto non provava una particolare amicizia o comprensione per quel popolo.

Pilato si lava le mani (dettaglio da LA MAESTA’ DI DUCCIO)

Lo si nota, ad esempio, nel passaggio in cui il prefetto ordina la flagellazione. “Flagellazione dura” la chiama Pilato, e sembra quasi che egli sia convinto che, con quel castigo,  riesca a calmare gli animi. Visto che non riesce a convincerli, usa uno stratagemma che in passato gli era servito per accattivarsi un po’ di simpatia dalla popolazione e cioè la liberazione di un prigioniero che godesse del favore della gente.

Quando la popolazione urla “Libera Bar Abbas” Pilato si lascia andare a un commento caustico ma si rende conto che la partita è persa. Non vuole mettersi contro quella gente: le urla si fanno sempre più forti e minacciose. E’ obbligato ad alzare la voce per farsi capire dal prigioniero, ma questo non risponde. Sembra quasi rassegnato.Nessuno sembra prendere le difese di quell’uomo. Solo il tribuno Publio Festo sembra non condividere la piega che sta prendendo il processo: ad un certo punto spiega a Pilato che non è più Roma a processare ma la popolazione e questo non è tollerabile. Ufficialmente non vi sono accenni ad altre dichiarazioni, ma probabilmente altri dei presenti manifestarono il loro parere e lo stesso Pilato forse lo richiese: era la prima volta che succedeva una cosa simile. Roma faceva da semplice pedina di un gioco ormai già scritto. Pilato manifesta tutta la sua irritazione nella dichiarazione finale del processo.

“Quid est veritas?” (Cos’è la verità?) dal quadro di Nikolaj Nikolaevic Ge

Vi sono alcune diverse ricostruzioni del processo verbale, ma la più probabile è quella redatta dai professori Andrew Quayle dell’Università di Oxford, Lennart Gustavsson dell’Università di Stoccolma e Antonio Azzariti ordinario di storia e letteratura dell’Università “La Sapienza” di Roma.

Ho cercato, per quanto possibile, di far coincidere la traduzione (con i frammenti mancanti e ipotizzati) dal latino.

 

Nell’anno [XXXXX] 7[XXX]   da[lla fondazio]ne di [Ro]ma

XXXXX XXXX del senato e popol[o rom]ano in Ge[rusa]lemme rappr[esenta]to da Prefe[tto Ponzio Pi]lato. E’ presente il tribuno mil[itare]Publio Festo, prima coorte della Legio X. E’ presente Caio Pullo, in qualità di presentatore delle accuse dell’autorità giudea. Assistono altri ufficiali e dignitari romani. L’accusa è sostenuta dal sommo sacerdote Caifa, il quale prende posto fuori dal Pretorio, come prevede la religione di quel popolo.

Giudica

Il Galileo Joshua, anni trenta circa, su richiesta del Sinedrio, riunitosi in sessione straordinaria per la gravità del caso.

Le accuse sono: sobillazione ed invito alla rivolta contro i poteri costituiti e contro Cesare.

Viene chiamato l’interprete.

Viene introdotto il prigioniero. Il prefetto legge le accuse e chiede ragione di esse.

Il prigioniero non risponde. Il prefetto ripete le accuse. Il prigioniero non risponde.

Viene chiesto per la terza volta al prigioniero, questa volta in modo non ufficiale, di difendersi dalle accuse.

Il prefetto chiede:Sei tu dunque il re dei Giudei? Sei tu il nuovo dio che dicono che sta arrivando?

Il prigioniero risponde: Questo lo dici tu o altri te l’hanno detto di me?

Il prefetto dice: Sono forse Giudeo? I tuoi capi ti hanno messo nelle mie mani.

Il prigioniero risponde “Non sono contro i poteri né contro Cesare, Il mio regno non è di questa terra”.

Il prefetto chiede: “Di che regno parli?”

Il prigioniero non risponde.

Il prefetto rinnova la domanda e dice: “Parla se vuoi salvarti. Io ho il potere di sottrarti alla condanna”

Il prigioniero risponde: Il tuo potere nulla può contro il potere del padre mio che è nel cielo.

Caio Pullo interviene: E’ colpevole di bestemmia, essendosi proclamato figlio di Dio. Ma ha anche sobillato il popolo contro Cesare chiedendo di non pagare il tributo.

Il prefetto chiede al tribuno : E’ vero quanto viene detto nell’accusa che quest’uomo ha sobillato la popolazione contro il potere costituito e contro Roma?

Il tribuno risponde: “Ho accert[ato che] quest’uomo non [ha mai sobi]llato la popolazione contro i poteri loc[ali né ha] mai promosso o provocato [sommosse o ri]volte. Inolt[re non ha mai neg]ato l’autorità di Roma. In certa occasione ha par[lato a favore di Ces]are”.

Caio Pullo interviene di nuovo: Quest’uomo ha sobillato il popolo in tutta la Giudea e anche la Galilea dove ha cominciato.

Il prefetto si consulta con il tribuno e alcuni dignitari. Alla fine il prefetto dice: Poiché quest’uomo è Galileo, e secondo il forum delicti commissi, il giudizio spetta al r[e della Gal]ilea, Ero[de Anti]pa. Ora egli si trova qui a [Gerusalem]me. Ordino quindi che il prigioniero venga portato davanti al re di Galilea.

Parte illeggibile.

Il prefetto: Dunque? Di che si incolpa quest’uomo? Di sola bestemmia. Allora giudichiamo quest’uomo colpevole di bestemmia. La condanna è flagellazione dura. Si dia esecuzione della sentenza”.

Il prigioniero viene condotto al cortile interno e flagellato con trenta colpi.

Il prigioniero viene portato di fr[onte al pref]etto.

Il prefetto si reca al balcone del piazzale e dice:

“Non ho trovato colpe in quest’uomo. L’ho giudicato colpevole di bestemmia e l’ho fatto flagellare duramente.”

La popolazione urla la sua disapprovazione. [La folla sta aum]entando di numero e il cla[more aumen]ta.

Pila[to rientra e di]ce al prigioniero:

“Cosa posso fare p[er toglierti da que]sta situazione? Non sei co[lpevole, perché non ti dif]endi?

Il prigioniero: “Non sono preoccupato per me. Sono venu[to per annunciare al mon]do la verità”

Il prefetto : La verità? Quale verità?”

Il prigioniero non risponde.

Il prefetto: Non ti capisco. Quelli vogliono la tua morte. Solo io posso salvarti. Ma devi dirmi se è vero che hai bestemmiato”

Il prigioniero:”Posso bestemmiare il Padre mio?”

Il prefetto :”Ho capito”.

Rivolto al[ tribuno:” C’è un modo di salvare qu]est’uomo e c[almare quella g]ente?”

Il tribuno:”La liberazione pasq[uale di un co]ndannato”

Il prefetto:”Vero. Hai dett[o bene. Chi potrem]mo liberare?

Il tribuno: Un certo Bar Abbas, un assassino e ribelle. Un pericolo grave per Roma. Ma la popolazione è divisa. Per alcuni è un patriota, per altri un bandito”.

Il prefetto si consulta con altri ufficiali.

Il prefetto dice: Ordino che venga condotto il prigioniero Bar Abbas”.

Viene condotto il prigioniero.

Il prefetto ordina di di portare i due prigionieri sul balcone. Si reca al balcone e si mette di fianco al Galileo Joshua. Il prefetto si rivolge alla folla, ora molto agitata e ostile. Un soldato è stato ferito dal lancio di una pietra. Il prefetto è molto alterato.

“Davanti a voi ci sono Joshua il Galileo, colpevole di bestemmia e Bar Abbas, assassino e ribelle. Secondo le tradizioni, che Roma rispetta, viene data la possibilità al popolo di scegliere quale prigioniero liberare. Chi volete che io liberi? Joshua o Bar Abbas?

Passano p[och]i momenti di sil[enzi]o. Poi alc[une voci gri]dano fo[rte: Bar Ab]bas”. Poco dopo, tutta la folla url[a “Bar Abbas”]

Pilato dice: Ma Bar Ab[bas è un ass]assino. Joshua è solo un povero profeta pazzo. Ma è innoc[ente per le leg]gi di Roma

La folla urla sempre più forte. Pilato ordina al capo della guardia di tenersi pronto.

[Pilato è]sempre più alterato. Non si [decide].

Un uomo si avvicina a Caio Pullo dalla terrazza e gli parla: dall’abito che indossa e dal portamento deve essere un capo giudeo. Poi si allontana e Pullo dice: “Per il bene di Roma e per la legge nostra, tu devi mandare a morte il falso profeta. Se non lo fai, non fai il bene di Roma e quindi non sei amico di Cesare”.

Questa iscrizione è stata scoperta recentemente a Cesarea Marittima, nel 1961 e testimonia, senza ombra di dubbio, che Ponzio Pilato è realmente esistito ed era prefetto della Giudea. Notare il nome dell’imperatore Tiberio, cui l’iscrizione è dedicata.

Il tribuno dice a Pilato: Questo processo lo [stanno facendo i giudei e] non Roma. Ciò non è tollerabile.

Il prefetto scuote il capo e chiama un servo a portargli un bacile con dell’acqua. Si lava le mani e dice rivolto allo scrivano: Scrivi che io non ho giudicato colpevole di morte quest’uomo. Mi lavo le mani del sangue di un innocente. Scrivilo.

Il prigioniero viene condotto nel cortile scortato dalle guardie.

Alla fine, un militare gli carica sulle spalle l’asse traverso dei condannati alla crocifissione. Il prigioniero non ha detto una parola. Il prigioniero viene condotto al luogo del supplizio.

Pilato ordina di scrivere:

Roma accede alla richiesta del Sinedrio e decreta la condanna a morte del prigioniero con l’accusa di essersi proclamato, in contrasto con la religione giudaica, figlio di Dio e re dei Giudei. Tuttavia Roma non trova colpe in questo prigioniero per la nostra legge. La sentenza viene emessa per questioni di ordine pubblico e nell’interesse del Senato e del popolo romano. La sentenza viene eseguita secondo la prassi nei casi di infamità con il supplizio della croce. Si ordina che venga apposta sulla sommità la motivazione della sentenza: J(oshua) N(azarenus) R(ex) J(udeorum); si ordina inoltre che non venga scritta l’iniziale P(ropheta) e non venga scritta l’iniziale S(imulator).

Pilato ha detto.

Rovine di Peltuinum, vicino a l’Aquila, ritenuta la città dove Pilato visse in esilio, dopo essere caduto in disgrazia.

La cosa straordinaria e che rende quel documento di immensa rilevanza storica sono le osservazioni dello scrivano, il quale non si limita a redigere quanto detto ma scrive anche quello che vede, dando l’impressione di trovarci di fronte quasi una sceneggiatura per il cinema.

Le prime voci discordanti provennero dalla stessa Italia: alcuni studiosi, agnostici, pur ammettendo l’autenticità del documento, negarono che quel documento apportasse qualcosa di veramente nuovo.

Era vero che un certo Joshua o Gesù era stato un profeta e che era stato condannato a morte da Pilato. Ma non c’era nel documento parola su un’eventuale risurrezione né particolari che facessero riferimento alla natura divina di quel condannato. Tutto, quindi, era come prima. Per gli agnostici e gli atei, Gesù continuava ad essere un semplice saggio, un profeta un po’ invasato, come tanti altri di quel tempo, che continuando a proclamarsi figlio di Dio, sobillando migliaia di persone un po’ sprovvedute e usando trucchi tali da farli sembrare miracoli, finì per allarmare le autorità religiose della Giudea e meritarsi la condanna per blasfemia (come del resto previsto nella legislazione di quel popolo).

A queste voci si accodarono tante altre, da ogni parte del mondo. Ma in Italia, e questa fu la cosa più sconcertante, si scatenò sui giornali e in televisione, una vera e propria sarabanda di interventi, tra i più disparati, a cui vennero chiamati a partecipare personaggi del tutto privi di qualsiasi base teologica o storica. Si cominciò a manifestare sempre più vivacemente un vero e proprio astio anti-cristiano, un sottile piacere nel negare ogni importanza al documento e un richiamo alla laicità e alla ragione, vera e unica misura di tutte le cose.

Il cristianesimo venne chiamato a rispondere di innumerevoli malefatte e, in nome del politicamente corretto, si cominciò a esaltare religioni come quella ebraica e quella islamica, per tanti aspetti superiori a quella cristiana.

Arrivò poi dal Nord Europa una vera e propria crociata anti-religiosa, con fior di interventi dei maggiori filosofi e pensatori. Le religioni erano la causa principale dei mali del mondo: guerre, persecuzioni, intolleranza, conquiste e superstizioni. Bisognava finalmente aprirsi all’impero della ragione e spogliarsi, una volta per tutte, da un apparato consunto e logoro costruito sulla menzogna e sul senso di colpa, con cui si erano controllate per secoli intere popolazioni per fini certamente non evangelici, ma allo scopo di creare una vera e propria oligarchia a cui si doveva obbedienza cieca ancor più che a un monarca assoluto.

Di fronte a questa ondata di fervore anti-cristiano, il mondo cattolico si ritirò in buon ordine e preferì non alimentare altre polemiche. Il documento in questione venne sigillato in un’urna e posto nella Basilica di San Pietro, accanto alla tomba del Santo.

A un anno dalla scoperta, era tutto dimenticato.

Ma folle di pellegrini provenienti da tutto il pianeta e appartenenti alle religioni più disparate continuarono per giorni e giorni a fare la fila per vedere, solo per qualche momento, l’urna e la copia del documento esposta su una bacheca accanto al teca che conteneva l’urna.

Ora a distanza di cinque anni dal ritrovamento, quel documento è considerato valido solo dal punto di vista storico e linguistico. Nulla più.

 

Nota: Il verbale è stato redatto in latino traducendo quanto detto da Pilato, Caio Pullo e Gesù. Il tribuno Festo scrive in latino quanto detto a Pilato. Si è cercato, per quanto possibile, di riportare fedelmente in italiano quanto scritto nel verbale, pur se qualche difficoltà si deve alla traduzione delle parti mancanti.

Domeniche di paese

Sustinente 7.2.2011 ore 16 017
Un piccolo paesino, quasi insignificante, ma un piccolo mondo, sempre meno popolato e sempre più dormitorio. La campagna sembra coprire quasi le case. Non si vede anima viva. Privacy o prefigurazione di un futuro cupo?

Le ricordo bene le domeniche, da ragazzo, al mio paese. Un paesino della Bassa mantovana, stretto fra il Po e le valli veronesi ormai redente dal secolare asservimento alle inondazioni, bonificate e rese fertilissime.

Il giorno di festa era regolato, allora, dai riti religiosi: tre messe mattutine, l’istruzione cattolica (la “dottrina”) e un vespro pomeridiano. Ero chierichetto e la mia famiglia era molto religiosa, soprattutto mia madre, la quale aveva ricevuto un’educazione religiosa pre-conciliare e quindi tendente al moralismo, all’osservanza esteriore dei precetti, al timore fisico dell’inferno e del peccato. L’innata bontà dei miei genitori aveva temperato questo clima quasi oppressivo e repressivo e la mia infanzia è stata segnata da una sensazione di serenità e spensieratezza che ha contribuito a formarmi un carattere mite.

Andare a messa non lo sentivo come un obbligo noioso e senza senso. Lo consideravo necessario anche se non mi sono mai appassionato alla frequentazione religiosa. Da ragazzo, si accettano le regole e non si discutono. A quel tempo la chiesa era frequentata in modo assiduo e la grande maggioranza, cattolica, non vedeva di buon occhio chi disertava la messa. Si trattava perlopiù di famiglie di socialisti e comunisti, di gaudenti, di superficiali o, semplicemente, di persone legate al concreto, al quotidiano e per nulla interessate alle questioni religiose.

Il paese, di solito tranquillo fino alla noia, mostrava segni di fermento in occasione delle campagne elettorali o durante la sagra di San Rocco, il patrono, a metà agosto.

Sustinente 7.2.2011 ore 16 001
Il monumento ai caduti. Riportato allo stato originale.

La domenica, allora, i negozi di alimentari e i barbieri erano aperti, oltre ovviamente ai caffè e alle osterie. Sotto i portici, venivano esposti per la vendita prodotti locali come il formaggio grana e carrube, sementi e mangimi. Si intavolavano affari tra agricoltori che si concludevano spesso con l’aiuto dei mediatori.

In primavera e d’estate, c’era animazione in piazza. Fuori dai bar, la gente si attardava a conversare. Di solito, la prima colazione veniva consumata a casa. Il caffè veniva preso a metà mattina, tra una chiacchiera e l’altra. Diversi uomini aspettavano la domenica per un taglio di capelli. Un gradevole odore di lozioni e profumi usciva dai saloni e ricordo che aspiravo a pieni polmoni quell’olezzo e mi sarei attardato volentieri nei paraggi. Mi incuriosiva udire i discorsi della gente, tutti rigorosamente in dialetto. Gli argomenti erano quelli di sempre: gli affari, lo sport, i pettegolezzi, le donne.

A casa mia, si lavorava anche di domenica mattina. Avevamo un negozio di alimentari e lo gestivamo in due famiglie, quella di mio zio e quella di mio padre. Mio nonno lo ricordo soprattutto quando era costretto a star seduto, essendogli stata amputata una gamba, e si divertiva con un bastone a spaventare i bimbi che accompagnavano le madri che venivano a fare la spesa.

Mi svegliavano, almeno quando ero ancora piccolo, verso le otto e alle nove andavo alla “messa del fanciullo”. Finita la messa, tornavo a casa oppure mi recavo in oratorio per giocare a ping pong o al biliardino.

Sustinente 7.2.2011 ore 16 003
Via XX Settembre nell’attualità. Colpisce la desolazione e l’assenza della gente. Un segnale di quel che sarà Sustinente in futuro?

Alla mezza, e cioè a mezzogiorno e mezzo, pranzavamo: il pranzo di solito consisteva, d’inverno e in autunno, in una minestrina di carne, lesso di manzo e gallina, mostarda o patate lesse e, come dolce, spesso la “sbrisolona”, che mio padre insisteva a chiamare “sfrigulà”.

D’inverno, alle due, andavo a seguire l’istruzione religiosa: per ogni classe delle elementari, c’era una saletta e un giovane parrocchiano si affannava a parlarci di Vangelo, di Gesù, di vita cristiana, con scarso successo. La nostra mente era altrove. Dopo mezz’ora ci recavamo in chiesa per cantare un paio di salmi e ricevere la benedizione. Finita la funzione religiosa, ogni due settimane, correvamo verso il campo sportivo per vedere la partita di calcio. Alla fine, tornavamo verso casa, ma spesso ci fermavamo da Renato “Rutamòla”, un venditore ambulante che trainava, prendendolo per due lunghe stanghe, un grosso carretto, delle noccioline americane, dei lupini oppure castagnaccio o caldarroste. Tornavo a casa contento e, se non era già buio, uscivo a giocare con alcuni miei coetanei lungo il vicolo che costeggiava casa mia.

La domenica mattina era sempre il momento migliore; il pomeriggio era un lento approssimarsi col pensiero al giorno dopo. Forse non era “tristezza e noia” come dice il poeta, ma un graduale spostamento dei propri pensieri verso il lunedì, carico, come sempre, di impegni e lavoro. La mattina della domenica era ancora un momento di leggerezza, di “détente”, di rilassamento. C’era voglia di scherzare, di dire battute, di prendere in giro amichevolmente. Ho qualche flash che ogni tanto mi torna in mente e vedo il barbiere, uno dei tanti, uscire in camice bianco dal negozio e intonare le prime note di “Mogliettina”, una canzone allora in voga di Natalino Otto. Si chiamava Rino, ma in paese lo chiamavamo Meschino. Un uomo eccentrico, imprevedibile, a volte infantile per certi suoi giochi verbali assurdi, veri e propri non-sense. Oppure, ricordo davanti al salone di un altro barbiere, Adriano, quasi di fronte a quello di Rino, sul marciapiede, in giacca e cravatta, alcuni giovani che facevano crocchio e facevano passare il tempo fra commenti e pettegolezzi. Sempre sul marciapiede davanti al bar ENAL, che un tempo si chiamava “Dopolavoro”(eredità fascista), era quasi di rigore parlare di sport. Ricordo un cartello esposto davanti alla sala Tv: “In questo locale le trasmissioni sportive hanno la precedenza”. In quella sala vidi alcune partite del Mondiale di calcio in Svezia (1958) e alcune gare dell’Olimpiade di Roma (tra cui la vittoria di Berruti).

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Il Municipio. La seconda finestra a destra, al piano terra, un tempo era la porta del negozio di barbiere di Adriano Grisanti, luogo di interminabili discussioni sportive, politiche e pettegolezzi locali.

Il pomeriggio, ricordo mio zio, seduto accanto alla radio ad ascoltare la radiocronaca delle partite di calcio e, più tardi, del programma Tutto il calcio minuto per minuto.

A volte, ma non spesso, mi chiamava per accompagnarlo in macchina a Ferrara (assieme ad altri sportivi) a vedere giocare contro la SPAL una “grande” di turno, come l’Inter, la Juve o il Milan.

Ricordo ancora una puntata a Ferrara, in macchina con quattro conoscenti di mio zio. Era una domenica di fine inverno; non faceva più freddo, ma il sole non era ancora re incontrastato. I paesi che attraversavamo erano ancora semivuoti: ci si attardava a tavola o a schiacciare un pisolino. Ricordo solo qualche passante lungo le strade, umide e non ancora accarezzate dal sole vero, quello di maggio. Ricordo vagamente un giocatore dell’Inter, il grande Luis Suarez, che era venuto a prendersi il pallone proprio sotto i miei occhi, al di là della rete divisoria. Ricordo la sua fronte ampia, stillante sudore e la sua fretta nel portare il pallone all’angolo del campo per battere il “corner”.

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Luis Suiarez, calciatore spagnolo “gallego” di La Coruna. Regista impareggiabile della Grande Inter degli anni’60, allenata da Helenio Herrera e sotto la presidenza di Angelo Moratti.

Come in ogni paese, c’erano delle macchiette, dei tipi originali che erano parte integrante del folklore locale e tutti li si accettava con la naturale bonomia della nostra gente, pronta a criticare ma anche a dare una mano. Non era raro che, certe domeniche, venisse a pranzo qualche povero cristo, bersagliato dalla sfortuna. Ricordo uno di loro, un certo Renato, che non voleva chiedere apertamente di essere invitato a pranzo: sarebbe stato come perdere un po’ della sua dignità o almeno di quel poco che ancora gli era rimasto e alla quale non avrebbe rinunciato per nulla al mondo. Si era messo d’accordo con mia zia dicendole che quando intendeva venire a pranzo da noi, si sarebbe messo all’interno del bar Enal dietro la vetrata che dava sul marciapiede, in modo che mia zia, tornando dalla messa, lo vedesse e aggiungesse quindi un posto a tavola. A quei tempi era normale. Magari, invece di invitarlo a tavola, si portava un piatto sul davanzale, col cibo ancora caldo, in modo che il povero di turno si sfamasse senza arrecare troppo disturbo alla famiglia.

Il primo grande scossone alle abitudini, al modo di stare assieme, lo diede la televisione. All’inizio, parlo degli anni fra il 1954 e il 1959, pochissimi avevano il televisore, così come pochissimi avevano il telefono. In occasioni di programmi di largo ascolto, non era raro vedere certe famigli spostarsi, con i seggiolini, presso la casa di chi possedeva l’apparecchio. Era il caso di “Lascia o raddoppia”, per esempio, ma non solo. Noi il televisore lo comprammo nei primi anni Sessanta, quando ormai in molte case era diventato un oggetto come un altro. Lo scossone di cui parlo avvenne proprio a metà decennio, quando appunto, molti lo possedevano. Il cinema ed i caffè cominciarono a perdere clienti. Nei paesi, l’abitudine di recarsi al caffè, dopo cena, era troppo inveterata per svanire. In città era diverso: i quartieri dormitorio, le fungaie umane create dal boom economico e il crescente disagio sociale causato dall’aumento del costo della vita, dalla disoccupazione e dalla crescente criminalità, scoraggiavano ad uscire. I bar chiudevano sempre più presto e le vie e le piazze si spopolavano. Ormai iniziava un’era nuova, quelle delle tante monadi, chiuse in casa, con la luce della tv sempre accesa.

Nei paesi no, questo non avveniva. La sera, quando non si era d’inverno, ci si attardava nei caffè o nelle terrazze all’aperto dei bar. La qualità della vita era migliorata e ancora non si recepivano i primi segnali dello sconvolgimento sociale che stava per arrivare.

La domenica, la gente si vestiva con giacca e cravatta, come sempre. Un’abitudine, questa, in parte ancora vigente.

Un’altra abitudine che ormai non esiste più è quella delle “vasche”. Consisteva nel percorrere su e giù diverse volte la via principale in gruppi di due o più persone. Di solito, i gruppi erano composti o da soli maschi o da sole femmine. Erano i tempi in cui era un’eccezione andare in macchina a prendere un caffè e fare una passeggiata in città.

La prosperità ha cambiato tutto.

Le “vasche” erano una buona occasione per salutare la ragazza che piaceva, con un sorriso o un’occhiata prolungata di quel minimo per far capire che non si trattava di semplice normalità.

Durante la bella stagione, ci si sedeva all’aperto ai tavolini del bar gelateria IL BARACHIN e questo avveniva dopo i Vespri, la funzione pomeridiana che terminava verso le 17.30, l’ora giusta per evitare il caldo pomeridiano e “tirare” l’ora di cena.

Era anche l’ora, più o meno, del ritorno di coloro che erano andati ad assistere alla partita di calcio della squadra locale. Tornando, molti si sedevano ai tavoli e commentavano le fasi della partita tra di loro e con altri avventori.

Quando ricordo questo, mi tornano alla mente le immagini di uno dei migliori film di Florestano Vancini e cioè LA LUNGA NOTTE DEL ’43. La scena si svolge a Ferrara un pomeriggio di tarda primavera. Siamo all’inizio degli anni ‘50. Sotto i portici della strada che costeggia il Castello Estense, alcuni avventori sono seduti ai tavolini di un bar. Alcuni di loro conversano; altri si sono appisolati, altri ancora guardano un po’ annoiati il viavai, per la verità ancora molto ridotto, dei passanti, in specie di sesso femminile. La radio trasmette la radiocronaca di una partita di calcio. Credo che si tratti di Italia-Inghilterra giocata a Londra il 6 maggio del 1959 e finita in pareggio:due a due. Alcuni giovani in piedi guardano la partita alla tv. Il televisore è all’interno di un negozio di elettrodomestici chiuso, ma come avveniva in quegli anni, la tv, ancora un oggetto di lusso, veniva lasciata accesa dal titolare dei negozi anche fuori orario, per dare modo ai passanti di assistere a qualche programma di successo ed invogliare all’acquisto.

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Piazza Roma vista dai giardini. A sinistra, il Barachìn, in fondo, la Chiesa e la Canonica e, a lato, l’Oratorio. Al centro, la nostra fontana, brutta se si vuole, ma ormai divenuta insostituibile.

Quelle immagini sono per me straordinariamente vere e riflettono alla perfezione un quadro sociale dell’epoca. Per rendere il quadro veramente completo, il regista inserisce nel film un tocco geniale: alla fine del secondo tempo, esce dal bar un signore un po’ attempato, in maniche di camicia, che comincia a prendersela con i giocatori italiani che stanno prendendo una sonora batosta dai figli della perfida Albione. “Sfaticati buoni a nulla, gliela farei vedere io a quelli…” e così via. Quante volte ho udito queste frasi e quante volte le ho sentite pronunciare da certi signori non più giovani. Come ad esempio, quella domenica in cui, passando davanti ai gradini che scendevano verso l’ingresso della Casa del Popolo, proprio in centro paese, udii più o meno le stesse parole. Era appena terminata una partita della Nazionale. Non doveva essere andata molto bene per i nostri colori. Tra la gente che usciva, udii un signore che conoscevo bene dire: “Ah, va là Lorenzi…” senza terminare la frase, ma lasciando intendere che il cannoniere nerazzurro, noto a tutti col nomignolo di “Veleno”, lo aveva proprio deluso. E pensare che lo stesso, all’arrivo dei bombardieri americani sul nostro paese tra il 1944 e il ’45, aveva manifestato tutta la sua contrarietà esclamando “Eccoli lì…i liberatori!”, che lasciava capire quanto fosse legato al regime che ci aveva portato alla guerra,alla perdita della libertà e all’odio. Questo signore era proprio parente stretto (in senso ideologico) del personaggio (di nome Aretusi, magnificamente interpretato da Gino Cervi) del film in questione. E pensare che anni prima si era reso colpevole di un atto nefando (la cosa non è provata al 100%, ma tant’è), facendo assassinare il federale fascista di Ferrara (nel film si chiamava Bolognesi, ma nella realtà era Ghisellini), per lui troppo accomodante, e fare poi ricadere la colpa sui partigiani. Delitto che poi porterà alla vendetta fascista e alla strage del ’43.

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Gino Cervi, nei panni di un ex-caporione fascista, uscendo dal bar, se la prende con gli sfaticati italiani che stanno perdendo una partita di calcio con gli inglesi. Quasi le stesse parole usate anni prima con gli italiani scansafatiche, al tramonto del regime mussoliniano.

Storie terribili ma vere, comuni ad ogni paese delle nostre lande padane, popolate da gente generosa, ma sanguigna, legata alla propria terra, di natura conservatrice, ma capace di rivolte terribili, vere e proprie “jacqueries”, dove nasce e prospera il socialismo agrario, contro la prepotenza dei “padroni”, ma dove anche si diffonde il fenomeno opposto e cioè quello fascista, vera e propria reazione dei proprietari terrieri al dilagante movimento di riscossa contadina.

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Quante volte i miei compaesani hanno percorso questa stradina che porta dal paese al Po? Lungo questo sentiero, quanti sogni, quante illusioni, quanti progetti cullati, realizzati o infranti?

Ancora oggi, mentre percorro gli argini, le rive dei fossi, le “cavdagni” (dal latino Capitanie), penso a quelle domeniche povere di povera gente, di gente semplice e solidale, a quei crocchi di giovani che si ritrovavano fuori dalla chiesa appena finita la Messa e discutevano animatamente di futuro, di cambiamenti, di progetti. C’ero anch’io fra loro. La nostalgia per quei tempi e quelle domeniche testimonia la sostanziale positività di ciò che si è fatto e, fatalmente, la consapevolezza che un sereno periodo della nostra vita è ormai, irrimediabilmente, un ricordo.

 

Mario dal Barachìn

Pochi giorni fa è mancato Mario. In paese lo chiamavano familiarmente Mario Pelame, altri, Mario dal Barachìn. Aggiungere un appellativo al nome era necessario per distinguerlo da altri Mario. Quando era più giovane c’erano diversi Mario in paese, come ad esempio Mario at la Cénsica (che abitava proprio nella piazzetta dove c’è il chiosco del Barachìn). Oppure c’era Mario Zanella, che tutti chiamavano Marièt. C’era poi Marièl  Pinzetta, più anziano, il marito di Franca Rossi. Infine c’era Mariùn o Mario Cattafesta, più giovane.

Mario era di famiglia poverissima. Suo padre faceva il sellaio (ecco perché Mario lo chiamavano Pellame, da cui Pelame) e il materassaio, ma con tre figli da tirar su, la fatica era improba.

Il figlio più vecchio, Oreste, aveva iniziato a lavorare nella bottega di un falegname, per poi mettersi in proprio. Il più giovane, Gino, era stato avviato al mestiere di sarto, sempre come garzone, per poi, anni dopo, trasferirsi a Milano.

Mario, un giorno, aveva circa 13 o 14 anni, si era sentito dire da suo padre: “Senti, qui abbiamo bisogno che tu porti a casa qualche soldino. Non ce la facciamo a tirare avanti così. Ho parlato con Mario Fila, che sarebbe contento di prenderti. Va a parlare con lui per metterti d’accordo”.

Mario Fila era parente del padre di Mario e due braccia in più come manovale gli facevano comodo.

Mario Fila fu di poche parole:” Hai voglia di lavorare? Sì? Bene, allora domani ti aspetto da Batistìn alle sette con secchio e badile. Puntuale”. E lì la conversazione terminò. Batistìn era un piccolo imprenditore edile e Fila  era un suo dipendente. Poiché era diverso tempo che lavorava alle sue dipendenza, godeva di una certa autonomia ed autorità.

Il giorno dopo, alle sette, Mario era al lavoro, con secchio e badile, come concordato. Cominciava così per lui una nuova vita, dura, faticosa, come quella dei tanti suoi amici coetanei. Tanti facevano i garzoni presso qualche negozio, altri lavoravano a bottega presso qualche artigiano locale, altri ancora, figli di contadini, avevano già cominciato ad aiutare il padre nei lavori dei campi, nell’accudire il bestiame, nella mungitura e il resto. Altri, più fortunati, proseguivano gli studi, ma erano veramente pochissimi.

Mario aveva accettato di lasciare la scuola di buon grado. Era consapevole delle ristrettezze famigliari e del bisogno che avevano i suoi di poter contare su qualche aiuto in più. Cominciava così come manovale il suo lavoro nell’edilizia. Sustinente, come tutto il Paese, si leccava ancora qualche ferita lasciata dalla guerra e faticosamente si stava riprendendo, grazie agli aiuti del Piano Marshall e ad uno straordinario sforzo collettivo che in pochi anni avrebbe portato l’Italia a riprendersi e a meritarsi di nuovo la stima degli stranieri.

L’edilizia è da sempre un motore importante, un volano fondamentale per l’economia. Con un’edilizia fiorente, ogni altra attività gira, c’è crescita, c’è spazio per la speranza in un avvenire migliore. Mario aveva vissuto in pieno quegli anni; eravamo agli inizi degli anni 50 e si respirava una frenesia che da tempo ormai era scomparsa, fiaccata dai lutti, dalle distruzioni, dalla conseguente miseria materiale. Era ancora presto, ma qualcosina si cominciava a vedere. Un gelatino alla domenica non era più un sogno impossibile, così come un ballo ogni tanto, presso la locale sala da ballo. Poi, alla fine del lavoro, verso sera, era possibile dare quattro calci al pallone presso il campetto dell’Oratorio, con altri coetanei. Le energie c’erano, eccome, anche dopo una dura giornata di lavoro. Mario non disdegnava il lavoro pesante, lo faceva con dedizione e poco a poco aveva acquisito una discreta perizia. Il suo capo non lo dava a vedere, ma era evidente che lo teneva in considerazione, visto che gli affidava sempre più lavori non più come manovale ma come operaio semplice, con la sua parte di responsabilità. La paga non era gran che, ma almeno riusciva a dare una mano ai suoi e qualcosina gli rimaneva, magari per una gazzosa o un gelato. Quando metteva la paga nelle mani del padre, si sentiva importante, utile e a casa si riusciva a pagare qualche bolletta senza troppi affanni.

Mario giovanissimo calciatore. Una buona tecnica e un bel sinistro.

Mario aveva un carattere gioviale, era spiritoso e a volte usava il dialetto con le sue particolarità, i modi di dire, i proverbi, la gestualità per dare maggiore incisività alle sue storie, ai suoi ricordi.

Credo che fosse un artigiano coscienzioso e abile. I miei gli avevano commissionato dei lavori di ristrutturazione del tetto della nostra casa e qualche sistematina interna. Ricordo che mia madre lo apprezzò per il suo lavoro. Una cosa curiosa fu quella delle vespe. Pelame mi disse di non aver mai trovato tanti nidi di vespe  come sotto le tegole della nostra casa. A furia di punture, decise, con un suo compagno di lavoro, di comprare una bottiglietta di nafta. La tecnica da usare era semplice: ogni tegola alzata nascondeva quasi sicuramente un nido; si trattava quindi di battere sul tempo le vespe. Con una mano, alzava appena il bordo della tegola e con l’altra gettava un po’ di nafta sotto la tegola. Quando l’alzava del tutto, notava che le vespe sottostanti erano rimaste stecchite, senza nemmeno il tempo di fuggire dal nido.

Il lavoro di muratore però lo aveva fisicamente provato e spesso, sempre più spesso accusava dei dolori alla schiena che rendevano particolarmente pesante la sua attività.

Il destino aveva in serbo per lui delle novità.

Alla fine di una giornata di lavoro, come prima ricordavo, quando ancora era giovane, amava recarsi al campetto dell’Oratorio parrocchiale per dare quattro calci al pallone. Non era un talento sportivo, ma possedeva un buon sinistro, con cui spesso risolveva le partitelle che si giocavano sul campetto. A Sustinente, verso la fine degli anni’50, si giocava nel mese di agosto un torneo notturno a cui partecipavano diverse squadre dei centri limitrofi. Le squadre erano composte da cinque giocatori e duravano un’ora con due tempi di mezz’ora ciascuna.

La sua squadra era quella del Barachìn per vari motivi: conosceva bene il proprietario del chiosco, Bruno, poi, dato l’affiatamento con alcuni suoi amici coetanei, gli era stato proposto di far parte della squadra. In porta c’era Rodrigo, figlio del proprietario del bar; poi c’era Bruno Fattori, un giovane che aveva perduto i familiari durante il bombardamento americano del settembre 1944. Terminati gli studi secondari, si era iscritto all’Istituto di Educazione Fisica e, conseguito il diploma finale, si era dedicato all’insegnamento e, ben presto, alla carriera politica, senza mai abbandonare la sua grande passione per lo sport. Sarebbe poi diventato sindaco per molti anni, lasciando un buon ricordo come amministratore, riuscendo ad ottenere per il paese diversi fondi da utilizzare, tra l’altro, per costruire installazioni sportive. Purtroppo, così come per Rodrigo, la malattia se lo portò via ancora giovane.

Los tres amigos! Da sin.:Marco Crestani, Mario Zanella (Marièt) e Mario Gavioli

Per Mario, il calcio sarebbe stato, oltre che divertimento e sfogo, anche un mezzo per cambiargli la vita. Una sera, la figlia maggiore di Bruno, Roberta, si recò all’Oratorio per assistere a una partita della squadra che rappresentava il suo Barachìn. Fu lì che conobbe Mario e fu amore a prima vista, un vero e proprio colpo di fulmine. Ancora oggi, quando ne parla, a Roberta si illuminano gli occhi. Si fidanzarono molto velocemente, anche se Bruno, all’inizio era un po’ perplesso. Ma, si sa, “amor omnia vincit”.

Il Barachìn, che era diventato il suo posto di lavoro dopo aver cessato la sua attività di muratore, era diventato il luogo dove quasi ogni pomeriggio prendevo un caffè. A quell’ora, verso le 14.30/15, non c’erano molti avventori e con Mario intavolavo lunghi discorsi sui temi più svariati, la politica, il calcio, il pettegolezzo, il senso della vita, le cose pratiche, come riparare una perdita d’acqua, piastrellare un bagno, sistemare una grondaia. Io gli raccontavo le mie storie e lui le sue e spesso ricordava i primi inizi del suo lavoro di manovale, quell’ordine datogli da Mario Fila:” Domani, secchio e badile!”, oppure quella volta che Elso Canossa, un possidente locale,  seccato perché, per saggiare l’integrità delle tegole, Mario doveva picchiettarle, aveva chiesto al ragazzo di smetterla  e, visto che Mario lo snobbava, un pò perché aveva ricevuto ordini tassativi di continuare a farlo, da parte di Mario Fila, un po’ perché più che essere intimorito, era divertito, alla fine, esasperato, lo aveva cacciato a male parole. Ricordava anche come avesse rischiato seriamente la vita due volte, la prima, quando, eseguendo dei lavori nella chiesa parrocchiale, aveva messo un piede su una superficie che non aveva sostegni per cui stava precipitando da un’altezza di cinque metri e il suo collega lo aveva afferrato ad un braccio, salvandogli la vita. Oppure, quel giorno che si era recato a prendere un bagno nel Po ed era stato risucchiato da uno di quei vortici tanto improvvisi quanto letali che hanno funestato per tanti anni i paesi rivieraschi. Era stato riportato a galla, ormai esanime. Trascinato a riva, dopo molti tentativi di rianimazione, finalmente era tornato in vita. Lo ricordava con una certa intensità e ancora ringraziava Barulìn, un suo amico, che lo aveva salvato. Gli piaceva sfottermi per quello che, secondo lui, era un mio difetto e cioè l’avarizia.

Il mestiere del muratore, come si sa, è duro e lascia segni nel fisico. Sono segni che, subdolamente, non si manifestano quando si è ancora giovani e in forze. Con l’avanzare dell’età però, i primi doloretti, i primi acciacchi cominciano a farsi sentire e, nonostante il ricorso ad antidolorifici,  l’intensità e la persistenza diventano pessime compagne del viaggio della vita.

Gli ultimi anni, per Mario, sono stati un vero tormento. Operazioni chirurgiche di diverso tipo, pur se riuscite, hanno fiaccato poco a poco il suo fisico e ne hanno intaccato, in modo progressivo, la sua salute mentale.

Era invecchiato anzitempo, il suo sguardo non era più vigile, vivo. La sua bocca era semiaperta e tremolante in continuazione e ormai parlava a fatica. Questo deperimento mi aveva colpito: ormai parlava solo per lamentarsi e per esprimere il desiderio di morire.

L’ultima volta che parlai con lui, fu una domenica di fine estate. Era seduto fuori del chiosco, appena riparato dal sole grazie a una tettoia di tela. Era appena finita la Messa e mi avvicinai chiedendogli come si sentisse. Mi rispose con un filo di voce che non vedeva l’ora di morire. Per rincuorarlo, gli dissi le solite cose scontate. Il suo sguardo però era ormai perso nel vuoto.

Il barachìn: quante ore trascorse in questo locale!

Non sorrideva più, ormai. Dell’uomo ancora giovane con cui avevo trascorso così tanti pomeriggi, con cui avevo scambiato così tanti discorsi, con cui avevo riso di cuore così tante volte, non restava altro che un vecchio emaciato, rannicchiato su se stesso, senza più entusiasmo né voglia di vivere.  Lo salutai augurandogli di recuperare un po’ di salute. Mi rispose con un filo di voce, simile ormai a un rantolo. Non riuscii a capire che cosa mi aveva detto.

Mesi dopo, mentre consumavo la prima colazione presso una terrazza di Trapani, dove mi ero recato per una breve vacanza con alcuni miei amici concittadini, uno di loro mi comunicò la sua morte.

Non ne rimasi particolarmente colpito, pensai anzi che si era realizzato quanto da lui così desiderato. Al mio ritorno a casa, passai davanti al chiosco presso cui avevo passato tanti momenti spensierati con lui. Era tutto chiuso. I funerali avevano già avuto luogo. Non lo avrei mai più rivisto: dovetti  ripetermelo a me stesso per convincermi che era tutto finito. Non so, ma mi pare che in quel piccolo locale manchino la sua figura, le sue battute, i suoi sfottò, i suoi scherzi di quando stava bene, di quando la vita gli sorrideva e sembrava promettergli una vecchiaia serena.

Sit tibi terra levis, caro Mario!

 

 

 

Armando e lo “Scandalo al sole”

Armando Vanzini aveva qualche anno più di me. Statura media, corporatura regolare, né grasso né magro. Lo conoscevo senza averci mai parlato. Lo vedevo tutti i pomeriggi davanti a casa mia. Lavorava con suo cognato, Lino, che aveva sposato la sorella Fernanda. Faceva il fabbro e questo significa avere a che fare con saldatrici, flessibili, martelli, tenaglie e altro. Ma in un piccolo centro agricolo, una buona parte del lavoro consisteva, in quei tempi e cioè gli anni ’50 e ’60, nel ferrare cavalli da lavoro.

Lino dirigeva i lavori ed Armando eseguiva: erano però diversi nel modo di concepire il lavoro. Lino era un fabbro che amava la propria attività, ma non aveva la pazienza e la meticolosità necessarie per eseguire lavori di fino. Armando, invece, non concepiva certe manchevolezze. Per lui un lavoro doveva essere eseguito a regola d’arte. I contrasti tra lui e Lino nascevano proprio da questa diversa concezione. Una saldatura doveva essere perfetta e non si doveva notare quasi. Certe sbavature, certi difettucci di poco conto erano per lui intollerabili.

A volte, Lino perdeva la pazienza, stanco di dover riprendere continuamente Armando per quella sua mania della perfezione e lo mandava bruscamente a casa. Armando se ne andava, deluso e irritato. Immancabilmente, il giorno dopo, Fernanda, su pressione del marito, si recava dal fratello e lo pregava di tornare al lavoro aggiungendo che Lino era dispiaciuto. E Armando tornava, salvo, poi, dopo qualche tempo, litigare di nuovo.

D’estate, nei meriggi torridi, senza un filo di vento, dopo pranzo, ero solito coricarmi e tentare di schiacciare un pisolino. Tentare…ma troppo spesso quei tentativi non erano coronati da successo. In effetti, nell’officina di Lino, verso l’una e mezza, cominciava il tormento. Martellate, sibili, grattate, tonfi. Un fracasso che impediva di prendere sonno. Se chiudevo la finestra, il caldo diventava opprimente. Inoltre, la finestra della mia stanza era quella più vicina all’officina. Mi innervosivo, mi giravo e rigiravo nel letto, mi coprivo la testa con un cuscino… niente da fare. C’erano brevi intervalli di quiete che mi illudevano e che, come ogni illusione, la dura realtà riprendeva il sopravvento: ed era una serie di botte da orbi menate su lastre di lamiera, un sibilo improvviso, inquietante, tanto acuto quanto sgradevole provocato forse da un taglierino o da un flessibile.

I miei genitori erano più fortunati. Dormivano nella stanza più lontana dall’officina e i rumori giungevano loro più attenuati. Verso le 16 si alzavano. Mio padre scendeva in negozio (di alimentari) e mia madre si dedicava alle solite faccende di casa. Scendevo pure io ed uscivo. Al campetto dell’oratorio era ancora prestino, i ragazzi ci andavano verso le 17, quando i morsi del sole non erano più così micidiali. Avevo un’ora da riempire. Alla casa del Popolo, alla tv, trasmettevano telefilm per ragazzi, come PENNA DI FALCO Capo Cheyenne oppure RIN TIN TIN, con un ragazzino Rusty e il suo cane, adottati in un forte in territorio indiano, alle prese con mille avventure. Ma quando questi programmi non andavano in onda, mi recavo spesso da Adriano, il mio barbiere. Ricordo un giorno di giugno del 1959, era esattamente il 26 ed era la seconda tappa del Tour de France , Metz-Namur. La vinse il nostro Vito Favero, che un anno prima era arrivato sorprendentemente secondo in classifica generale a Parigi, davanti al suo capitano Gastone Nencini.

Il radiocronista commentava con entusiasmo l’impresa di Favero, che però, qualche giorno dopo, all’undicesima tappa, si sarebbe ritirato.

Nella bottega di Adriano, mi sedevo al tavolo e sfogliavo il giornale sportivo, se non era TUTTOSPORT era LA GAZZETTA DELLO SPORT, qualche rivista e ascoltavo distrattamente i discorsi che si tenevano fra Adriano e i suoi clienti. Mi piaceva soprattutto il leggero rumore che produceva il rasoio sulla pelle coperta da una patina di crema da barba. Ogni passata, la barba scompariva e la pelle tornava pulita, soda, fresca. Alla fine, dalla mensola accanto allo specchio, Adriano prendeva una sorta di peretta di gomma: premendo sulla parte bassa, dal beccuccio usciva uno spray che inondava l’ambiente di un gradevolissimo profumo. Quando, una volta al mese, toccava a me, uscivo sentendomi inondato da quel profumo e mi sembrava di essere un gran signore, riverito e rispettato da tutti.

Tornando ad Armando, a volte mi sedevo sui gradini di casa e osservavo Armando e Lino intenti a lavorare. Quell’anno, il 1959, io ero dodicenne, era di moda una musica di Max Steiner (il grande Steiner autore di tante colonne sonore di film americani) e suonata dall’orchestra di Percy Faith. Si chiamava Scandalo al sole (il titolo originale era A Summer Place) ed era la colonna sonora del film omonimo, diretto da Delmer Daves, con Richard Egan, Dorothy McGuire, Sandra Dee e Troy Donahue.

La colonna sonora ebbe un successo strepitoso e, ancora oggi, rimane nella memoria infinitamente più del film stesso. Dato che era trasmessa continuamente alla radio (alla TV non c’erano ancora programmi musicali come quelli attuali), era entrata nella mente di tutti e, ovviamente, anche in quella di Armando. Ecco, se dovessi associare quel ragazzo a un oggetto, a un’immagine o a una musica, per me il binomio Armando-Scandalo al sole resta assoluto, intoccabile.

Passava ore ed ore a fischiare quel motivo; era qualcosa di quasi ossessivo, compulsivo. La fischiava mentre cercava di sistemare un giunto di un trattore o raddrizzare una biella. Non lo faceva quando ferrava un cavallo, perché a Lino non piaceva che si distraesse, lo voleva tutto concentrato. E non a torto, visto che il cavallo a volte faceva movimenti bruschi che facevano cadere la zampa che si stava ferrando; allora Lino sbottava e, afferrata una grossa tenaglia, menava due o tre botte sui lombi dell’animale che si acquietava quasi subito. Quando giungeva il momento di appoggiare il ferro rovente sullo zoccolo, il contatto sprigionava un forte odore di bruciato che non provocava alcun dolore al cavallo. E’ un odore che mi ha accompagnato per tanti anni e mi fa ritornare a quel tempo. Accanto a Lino, vedo Armando, sempre tranquillo, attento e, soprattutto, mentre fischia quella benedetta canzone.

Quelle note lente, melodiche e malinconiche mi riportano ai lunghi ed interminabili pomeriggi estivi, alla ricerca dell’ombra, all’attesa di dare quattro calci ad un pallone nel campetto dell’Oratorio con gli amici, alle radioline a transistor con musiche oggi improponibili ma non per me, che ho sempre avuto un debole per la musica da “crooner”, con personaggi oggi dimenticati come il maestro Gigi Cichellero, Cinico Angelini,  cantanti come Natalino Otto e Flo Sandon’s,  Gino Latilla, Luciano Tajoli e tanti altri. Per cercare l’ombra, il negozio di Adriano era quello che ci voleva e poi c’era quel profumo…

Non ho mai parlato con Armando; essendo un po’ più grande di me, c’era una piccola barriera fra noi fatta di rispetto e imbarazzo. Faceva parte di una compagnia di giovani, tra cui mio cugino Mimmo, che era molto affiatata e che aveva nel curato di allora, don Ermes, una sorta di chioccia cordiale e alla mano. Spesso si riunivano in canonica e si divertivano come ci si divertiva una volta nei piccoli paesi: una risottata, una partita al biliardino o a ping-pong. La canonica era ormai un ambiente troppo stretto per contenere l’esuberanza di quei giovani. Il parroco stava ultimando la costruzione dell’Oratorio, un edificio che aveva, in principio, il compito di riunire i giovani per le attività ludiche e di formazione spirituale. Io e i miei amici ne avremmo fatto una specie di rifugio dorato. Armando, nella sua semplicità, aveva legato con tutti. Era il classico compagno tranquillo che non creava problemi, che amava ascoltare più che raccontare, a cui piaceva ridere, bere e mangiare con moderazione, senza grilli per la testa, il classico buon ragazzo di campagna che aspettava il momento per vivere la sua vita.

Quel momento, alla fine, arrivò e il sodalizio con Lino si ruppe: Armando aveva conosciuto una ragazza di un paese vicino, Novellara, nel Modenese e l’aveva sposata. Aveva trovato quasi subito lavoro presso una grossa fabbrica locale. Lei era professoressa e aveva trovato in Armando ciò che andava cercando: semplicità, affetto e laboriosità. La loro era serena come le tante unioni tra giovani di paese. Quella che per tanti sapientoni poteva essere noia, per loro e per tanti altri era una routine accettata di buon grado, vissuta con la consapevolezza che la vita semplice, laboriosa ed onesta è da preferire all’avventura, alla piccola trasgressione. Il destino, però, aveva in serbo qualcosa di diverso.

Ad aiutare Lino ora c’era un ragazzo del luogo, Giorgio, che gli sarebbe stato accanto per molti anni e che, anche quando trovò un altro lavoro, non avrebbe mai smesso di essergli amico e di andare spesso a trovarlo, aiutandolo fino agli ultimi suoi giorni di vita.

Anni dopo, quando avevo ormai lasciato il mio paesino per recarmi nella capitale, mia madre, o mio fratello, mi comunicarono che Armando non c’era più. Se l’era portato via un infarto. Era un cuore ancora giovane che aveva ancora tanto da dare, da gioire e soffrire come tutti, ma che il destino non aveva premiato per avere scelto di vivere una vita tranquilla. Come accettare queste disgrazie? Queste assurde violazioni ad un codice che riteniamo tutti valido fin che tutto ci sorride e che poi scopriamo essere capriccioso e troppo spesso malvagio.

Ora, al posto dell’officina, la figlia di Lino ha fatto costruire una casa e ora ci abita assieme al marito. Là dove sostavano attrezzi agricoli, cavalli e asini in attesa della ferratura, c’è un’aiuola con fiori e piccoli arbusti. Quando ci passo accanto, mi sembra di sentire, disperse nel vento, le note fischiettate di quella canzone, ma quasi subito, il rombo di un’auto che transita sulla strada principale se le porta via, rubandomi anche delle sensazioni che ogni tanto si presentano e mi aiutano ad ingentilirmi l’animo.

 

 

 

Cinque anni senza il Capitano

 

Capitano, mio Capitano, sono passati cinque anni da quando hai deciso di farla finita. Mi hai lasciato orfano di te e non riesco a colmare il vuoto con qualcuno o qualcosa che almeno assomigli alla dolce e geniale follia a cui mi avevi abituato. Mi hai lasciato solo come quando se ne andò, non di sua volontà, John Lennon, o Alberto Sordi e scopro d’un tratto che la vita è tutto un susseguirsi di addii, un continuo amare qualcuno e dovere poi rinunciare a lui, contro la tua volontà, obbligandoti così a fare fronte al mistero della vita cercando di trovare delle risposte che aiutino a proseguire.

Walter Whitman non riusciva a darsi pace quando apprese che il suo Capitano era stato assassinato mentre era a teatro, per opera di un folle che aveva urlato, ancora con la pistola fumante in mano: ”Sic semper tyrannis!”.

O Capitano! Mio Capitano! Il nostro viaggio tremendo è terminato; la nave ha superato ogni ostacolo, l’ambìto premio è conquistato.

I geni non dovrebbero mai morire. Dovrebbero restare come fari per la nostra povera umanità che, in luogo di migliorare, troppo spesso s’arresta, o arretra. Essi sono, come dice il Nostro Poeta: “[…] come quei che va di notte, che porta il lume dietro e sé non giova, ma dopo sé fa le persone dotte”.

“Ma o cuore! Cuore! Cuore! O gocce rosse di sangue, là sul ponte dove giace il mio Capitano caduto, gelido, morto”.

Morto come John, il Capitano di un’America che credeva, ingenuamente, che un mondo nuovo era in arrivo, mentre Jacqueline cercava, altrettanto ingenuamente, di raccogliere pezzi del suo cervello spappolato su una macchina a Dallas, Texas. O gelido come suo fratello Bob, anni dopo, gelido come il futuro che credeva di rilanciare. Piangi America! Piangi, se oggi sei solo un simulacro delle illusioni del mio Capitano!

Io non ho mai avuto un professore come Keating. Se lo avessi avuto, oggi sarei un altro. Forse sarei su una nave dell’Open Arms, o forse farei parte di un’équipe di Médecins sans frontières. Sarei saltato sicuramente su un banco a sputare tutta la mia rabbia verso chi pretende di insegnare senza sentirsi parte di coloro a cui si rivolge.

Perché te ne sei andato, mio Capitano? Mi sento tradito, abbandonato. Mi manca il tuo entusiasmo, Capitano, la tua incrollabile speranza che il mondo migliorerà un giorno. E invece qui, mio Capitano, tutto crolla, tutto sembra franare, come le mie speranze, le mie idee, la mia fede e i miei valori.

Ma come, tu che hai creato una radio laggiù nel Vietnam che ha rivoluzionato il concetto stesso di radio, ridendo e masticando amaramente, nonostante le umiliazioni di chi pretendeva di darti lezioni, regalando momenti di spasso a molti che, ore o giorni dopo, avrebbero lasciato la vita su un campo di riso oppure in una giungla avversa, tu, proprio tu hai deciso di farla finita?

Capitano, mio Capitano, vorrei essere arrabbiato con te, ma non ce la faccio. Se te ne sei andato, vuol dire che proprio non ce la facevi più. Non te la sei proprio sentita di metterti una pallina rossa sul naso e cercare di non pensarci, eh? Quanti sono i Patch Adams che sono germogliati grazie a te e hanno contribuito a rendere meno orrenda il termine di vita di tante piccole creature? O quanti sono i disadattati, ormai senza speranza che, grazie a te, hanno avuto un risveglio temporaneo che ha fatto loro riscoprire ciò che avevano perso per sempre, che il mondo, dopotutto, riserva ancora momenti meravigliosi.

No, non riesco a non commuovermi, anche dopo tanti anni, nel vederti lasciare la tua aula, la tua classe, e sentire la voce di uno dei tuoi ragazzi che, in barba a tutte le regole, al grigiore, all’ottusità del sistema, sale su un banco e ti invoca:” Capitano, mio Capitano!”.

Che insegnante sarei stato se fossi come te, mannaggia! Avrei perso il lavoro, certo, ma vuoi mettere che soddisfazione? La mia vita avrebbe avuto un senso che oggi, forse, non ha.

Capitano, mio Capitano. Grazie. Così, semplicemente, umanamente.

 

MESCHINU E IL NONSENSE

                                    

Il negozio di barbiere di Meschinu  dava sulla strada principale, anche se dal lato opposto a quello di Adriano Grisanti, di cui ho abbondantemente parlato, pur se non in faccia l’uno con l’altro.

Di nome faceva Rino Stellini ed era un vero personaggio curioso. L’umanità è fatta di tanti piccoli esseri, uno diverso dall’altro per etnìa, lingua, usi, costumi, carattere. Pur con tutte queste diversità, gli esseri umani hanno in comune la razionalità e la usano per orientare le loro azioni, definire i loro programmi, comprendere ciò che li circonda, ciò che vedono e sentono. Anche i sentimenti, in certa parte, sono informati alla ragione. Fortunatamente, le ragioni del cervello non coincidono spesso con quelle del cuore e questo rende spesso imprevedibile il nostro mondo. Per fortuna.

Ma a rendere ancora più vario il genere umano, intervengono delle anomalie che arricchiscono il già ricchissimo repertorio di differenze fra individuo ed individuo. Sono le cosiddette eccentricità, le stranezze che infrangono lo strato di razionalità entro cui ci muoviamo. Alcune di queste anomalie sono propedeutiche alle sensibilità artistiche, le quali, se incoraggiate anche in piccola misura, contribuiscono a rendere straordinario questo mondo e degno di essere vissuto.

Alcune di queste stranezze, quando non esistono quegli elementi che chiamerei detonatori, restano solo tali e il mondo è privato, per un’infinità di motivi, di possibili artisti, scienziati e campioni dello sport.

Anche in piccoli centri rurali, come quello dove sono nato, esistono dei potenziali personaggi non comuni. Ad esempio, mio zio, aveva una capacità quasi demoniaca di leggere al contrario parole di varie lettere, di fare di conto moltiplicando e dividendo numeri di tre cifre ad una velocità sbalorditiva. In tutto il resto, era una persona comune, con gusti, inclinazioni, comportamenti plebei, del tutto simili a quelli che frequentava.

La singolarità di Meschinu (a proposito, non sono mai riuscito a scoprire l’origine di quel buffo nomignolo; del resto, molti di questi nomignoli si tramandano di padre in figlio e, spesso, occorre andare indietro di tre o quattro generazioni) era il non sense e cioè quella forma particolare di linguaggio senza logica, con associazioni libere e imprevedibili, con situazioni surreali. Nel teatro dell’assurdo, esistono forme di linguaggio che si avvicinano alla parlata del mio ex-concittadino, come ad esempio Samuel Beckett in EN ATTENDANT GODOT oppure il “gramelot” di Dario Fo. Ma in Fo, il gramelot era un geniale miscuglio di dialetti che avevano un senso, anche se spesso in situazioni assurde e impossibili, inverosimili come “La fame del Zanni”

La lingua è un formidabile strumento per farsi un’idea dei nostri simili. Da un discorso, anche abbastanza breve, è possibile capire molto: l’origine sociale, la capacità razionale, la provenienza geografica, il grado di istruzione, lo spessore culturale e altro. In Meschinu, ad un occhio (e orecchio) attenti, capivi subito che si trattava di una persona con una particolare predilezione per un linguaggio “creativo”. I poeti, i letterati e gli scrittori, con ben altre basii, è chiaro, riescono ad ottenere delle associazioni verbali e concettuali, delle soluzioni inimmaginabili e straordinarie per sonorità, capacità evocativa, per purezza del verso, per ritmo, che sono inimmaginabili per i comuni mortali.

Meschinu, invece, era attratto dalle parole un po’ ricercate e le usava in contesti che nulla avevano a che fare con quelle parole. Come ad esempio, quella volta che mi trovavo a passare di fronte al Bar Centrale, sotto i portici. Mentre ero all’altezza della porta, vedo uscire Meschinu, col suo camice candido, da barbiere, farmisi incontro e guardandomi, mormorare, in perfetto italiano:” Sono stanco ed affranto!”.

Un’altra volta, ero più o meno, nello stesso punto e mi trovo il buon Meschinu che mi squadra e come se stesse riassumendo, in poche parole, un fatto sportivo, mi dice, in dialetto:”Ier j’a szügà al nèdar müt e la gata bleu; al nèdar l’a vint un a szeru, a sgnà al bõ at testa (ieri hanno giocato l’anatra selvatica e la gatta blu. L’anitra ha vinto uno a zero: ha segnati il bue di testa).

Altre volte, mi si avvicinava e mi diceva, convinto :” Sfacià!”(Sfacciato). Non c’era certo acrimonia nei miei riguardi, ma il desiderio insopprimibile di sfogare la sua continua voglia di esprimere la sua simpatia nei miei confronti, sapendo bene che non me la prendevo, anzi!

Era anche intonato. Una volta, attraversando la strada per rientrare in negozio, lo sentii cantare le prime strofe di una canzone di Achille Togliani, un noto cantante melodico degli anni ’50:” L’incanto di una rosa deliziosa, profumata, sei per me, mogliettina”. La cantava con una voce educata, ben modulata e non sguaiata. Ancora oggi lo ricordo con certa tenerezza.

Rino non era né bello né brutto, né alto né basso, almeno secondo i parametri degli anni’40. Aveva i capelli castani e ricci pettinati all’indietro, come usava tanti anni fa. Il suo naso era pronunciato, ma il viso, nel suo complesso, era regolare. Non era analfabeta, ma si esprimeva quasi esclusivamente in dialetto. Non era sguaiato né volgare, aveva un modo di fare quasi delicato. Io non ero, come ho già detto, suo cliente, ma immaginavo quelle mani sottili usare con certa maestria il pettine, le forbici e il rasoio, rigorosamente di quelli a serramanico. Non aveva il garzone a dargli una mano: la gente preferiva gli altri barbieri. Lui poteva contare solo su alcuni clienti abituali, pochi, per la verità. Quindi doveva fare tutto da solo e tempo gliene avanzava. Quando era inoperoso, spesso attraversava la strada e si recava al bar da Ezio, dove non consumava ma si limitava a scambiare qualche chiacchiera con gli avventori presenti, oppure sfogliava distrattamente il giornale, prevalentemente sportivo. Aveva praticato, in gioventù, il calcio. Giocava nella squadra locale e, da quel che mi ricordavano alcuni suoi coetanei o quasi, era un personaggio pittoresco. Una domenica, se l’era presa, non so bene perché, con il portiere avversario (secondo me, lo aveva apostrofato poco elegantemente) e gli aveva giurato che un golletto glielo avrebbe fatto. Giocava in attacco: era veloce e mingherlino. Durante un’azione di gioco, gli era capitata un’occasione ghiotta e ne aveva approfittato. Era riuscito a segnare. Memore di quanto promesso, aveva raccolto il pallone in fondo alla rete, poi, avviandosi verso il centro del campo, si era rivolto, beffardo, al portiere, dicendogli in dialetto:” Hai visto? Te l’avevo detto che ti avrei segnato. Sei contento adesso?”.

In paese, tutti sapevano che Rino era un po’ “matto”, nel senso che era un pochino eccentrico, ma non ho mai sentito nessuno lamentarsi di lui o accusarlo di qualcosa. Se ne parlava, con il sorriso fra le labbra, come avviene quando si parla di qualcuno che, in fondo, ci è caro e a cui si perdona volentieri qualche stravaganza.

Del resto cos’è che rende interessante una persona? Quando si perde nell’anonimato? Quando si adatta talmente bene all’ambiente e alla massa da perdersi, svanire, confondersi con essa? Da quando la normalità è un merito? E soprattutto, che cosa sarebbe questo povero mondo se fossimo tutti uguali, se tutti ci comportassimo allo stesso modo? I tipi originali come Rino rendono più piacevole, imprevedibile, allegra la nostra esistenza.

Mio padre era suo cliente. Non so se lo facesse per stima o per aiutarlo, pur se con qualche spicciolo solamente, a sbarcare il lunario, ma ho sempre apprezzato quella scelta. In piccoli paesi come il nostro, ci si aiuta, di solito, e si cerca, silenziosamente, senza tanta pubblicità, di venire incontro concretamente a chi si trova in difficoltà. Io non sono mai andato a frugare nelle tasche di Meschinu, che certamente non navigava nell’oro, però viveva con grande dignità le sue ristrettezze economiche.

Non riesco a togliermi dalla mente quest’ometto sorridente, sempre pronto alla battuta, gentile. Più lo ricordo e più mi sembra di vedere una generazione di giovani come Rino, piena di speranze stroncate, precipitata in una guerra assurda, costretta a vivere in condizioni incomparabilmente peggiori di quella, come la mia, che le sarebbe succeduta.

Allora quel suo sorriso, quella sua levità, quella sua piccola follia mi sembrano testimoni inoppugnabili di un piccolo grande uomo, capace di vivere orgogliosamente la propria povertà, incapace di odiare e sempre pronto alla battuta, contento di vedere spuntare negli altri un piccolo sorriso, come piccolo risarcimento, come un modo gentile di mostrare la sua presenza, di fare presente che sì, c’era anche lui, modestamente, dignitosamente come, del resto, aveva vissuto tutta la sua vita.