Pochi giorni fa è mancato Mario. In paese lo chiamavano familiarmente Mario Pelame, altri, Mario dal Barachìn. Aggiungere un appellativo al nome era necessario per distinguerlo da altri Mario. Quando era più giovane c’erano diversi Mario in paese, come ad esempio Mario at la Cénsica (che abitava proprio nella piazzetta dove c’è il chiosco del Barachìn). Oppure c’era Mario Zanella, che tutti chiamavano Marièt. C’era poi Marièl Pinzetta, più anziano, il marito di Franca Rossi. Infine c’era Mariùn o Mario Cattafesta, più giovane.
Mario era di famiglia poverissima. Suo padre faceva il sellaio (ecco perché Mario lo chiamavano Pellame, da cui Pelame) e il materassaio, ma con tre figli da tirar su, la fatica era improba.
Il figlio più vecchio, Oreste, aveva iniziato a lavorare nella bottega di un falegname, per poi mettersi in proprio. Il più giovane, Gino, era stato avviato al mestiere di sarto, sempre come garzone, per poi, anni dopo, trasferirsi a Milano.
Mario, un giorno, aveva circa 13 o 14 anni, si era sentito dire da suo padre: “Senti, qui abbiamo bisogno che tu porti a casa qualche soldino. Non ce la facciamo a tirare avanti così. Ho parlato con Mario Fila, che sarebbe contento di prenderti. Va a parlare con lui per metterti d’accordo”.
Mario Fila era parente del padre di Mario e due braccia in più come manovale gli facevano comodo.
Mario Fila fu di poche parole:” Hai voglia di lavorare? Sì? Bene, allora domani ti aspetto da Batistìn alle sette con secchio e badile. Puntuale”. E lì la conversazione terminò. Batistìn era un piccolo imprenditore edile e Fila era un suo dipendente. Poiché era diverso tempo che lavorava alle sue dipendenza, godeva di una certa autonomia ed autorità.
Il giorno dopo, alle sette, Mario era al lavoro, con secchio e badile, come concordato. Cominciava così per lui una nuova vita, dura, faticosa, come quella dei tanti suoi amici coetanei. Tanti facevano i garzoni presso qualche negozio, altri lavoravano a bottega presso qualche artigiano locale, altri ancora, figli di contadini, avevano già cominciato ad aiutare il padre nei lavori dei campi, nell’accudire il bestiame, nella mungitura e il resto. Altri, più fortunati, proseguivano gli studi, ma erano veramente pochissimi.
Mario aveva accettato di lasciare la scuola di buon grado. Era consapevole delle ristrettezze famigliari e del bisogno che avevano i suoi di poter contare su qualche aiuto in più. Cominciava così come manovale il suo lavoro nell’edilizia. Sustinente, come tutto il Paese, si leccava ancora qualche ferita lasciata dalla guerra e faticosamente si stava riprendendo, grazie agli aiuti del Piano Marshall e ad uno straordinario sforzo collettivo che in pochi anni avrebbe portato l’Italia a riprendersi e a meritarsi di nuovo la stima degli stranieri.
L’edilizia è da sempre un motore importante, un volano fondamentale per l’economia. Con un’edilizia fiorente, ogni altra attività gira, c’è crescita, c’è spazio per la speranza in un avvenire migliore. Mario aveva vissuto in pieno quegli anni; eravamo agli inizi degli anni 50 e si respirava una frenesia che da tempo ormai era scomparsa, fiaccata dai lutti, dalle distruzioni, dalla conseguente miseria materiale. Era ancora presto, ma qualcosina si cominciava a vedere. Un gelatino alla domenica non era più un sogno impossibile, così come un ballo ogni tanto, presso la locale sala da ballo. Poi, alla fine del lavoro, verso sera, era possibile dare quattro calci al pallone presso il campetto dell’Oratorio, con altri coetanei. Le energie c’erano, eccome, anche dopo una dura giornata di lavoro. Mario non disdegnava il lavoro pesante, lo faceva con dedizione e poco a poco aveva acquisito una discreta perizia. Il suo capo non lo dava a vedere, ma era evidente che lo teneva in considerazione, visto che gli affidava sempre più lavori non più come manovale ma come operaio semplice, con la sua parte di responsabilità. La paga non era gran che, ma almeno riusciva a dare una mano ai suoi e qualcosina gli rimaneva, magari per una gazzosa o un gelato. Quando metteva la paga nelle mani del padre, si sentiva importante, utile e a casa si riusciva a pagare qualche bolletta senza troppi affanni.
Mario aveva un carattere gioviale, era spiritoso e a volte usava il dialetto con le sue particolarità, i modi di dire, i proverbi, la gestualità per dare maggiore incisività alle sue storie, ai suoi ricordi.
Credo che fosse un artigiano coscienzioso e abile. I miei gli avevano commissionato dei lavori di ristrutturazione del tetto della nostra casa e qualche sistematina interna. Ricordo che mia madre lo apprezzò per il suo lavoro. Una cosa curiosa fu quella delle vespe. Pelame mi disse di non aver mai trovato tanti nidi di vespe come sotto le tegole della nostra casa. A furia di punture, decise, con un suo compagno di lavoro, di comprare una bottiglietta di nafta. La tecnica da usare era semplice: ogni tegola alzata nascondeva quasi sicuramente un nido; si trattava quindi di battere sul tempo le vespe. Con una mano, alzava appena il bordo della tegola e con l’altra gettava un po’ di nafta sotto la tegola. Quando l’alzava del tutto, notava che le vespe sottostanti erano rimaste stecchite, senza nemmeno il tempo di fuggire dal nido.
Il lavoro di muratore però lo aveva fisicamente provato e spesso, sempre più spesso accusava dei dolori alla schiena che rendevano particolarmente pesante la sua attività.
Il destino aveva in serbo per lui delle novità.
Alla fine di una giornata di lavoro, come prima ricordavo, quando ancora era giovane, amava recarsi al campetto dell’Oratorio parrocchiale per dare quattro calci al pallone. Non era un talento sportivo, ma possedeva un buon sinistro, con cui spesso risolveva le partitelle che si giocavano sul campetto. A Sustinente, verso la fine degli anni’50, si giocava nel mese di agosto un torneo notturno a cui partecipavano diverse squadre dei centri limitrofi. Le squadre erano composte da cinque giocatori e duravano un’ora con due tempi di mezz’ora ciascuna.
La sua squadra era quella del Barachìn per vari motivi: conosceva bene il proprietario del chiosco, Bruno, poi, dato l’affiatamento con alcuni suoi amici coetanei, gli era stato proposto di far parte della squadra. In porta c’era Rodrigo, figlio del proprietario del bar; poi c’era Bruno Fattori, un giovane che aveva perduto i familiari durante il bombardamento americano del settembre 1944. Terminati gli studi secondari, si era iscritto all’Istituto di Educazione Fisica e, conseguito il diploma finale, si era dedicato all’insegnamento e, ben presto, alla carriera politica, senza mai abbandonare la sua grande passione per lo sport. Sarebbe poi diventato sindaco per molti anni, lasciando un buon ricordo come amministratore, riuscendo ad ottenere per il paese diversi fondi da utilizzare, tra l’altro, per costruire installazioni sportive. Purtroppo, così come per Rodrigo, la malattia se lo portò via ancora giovane.
Per Mario, il calcio sarebbe stato, oltre che divertimento e sfogo, anche un mezzo per cambiargli la vita. Una sera, la figlia maggiore di Bruno, Roberta, si recò all’Oratorio per assistere a una partita della squadra che rappresentava il suo Barachìn. Fu lì che conobbe Mario e fu amore a prima vista, un vero e proprio colpo di fulmine. Ancora oggi, quando ne parla, a Roberta si illuminano gli occhi. Si fidanzarono molto velocemente, anche se Bruno, all’inizio era un po’ perplesso. Ma, si sa, “amor omnia vincit”.
Il Barachìn, che era diventato il suo posto di lavoro dopo aver cessato la sua attività di muratore, era diventato il luogo dove quasi ogni pomeriggio prendevo un caffè. A quell’ora, verso le 14.30/15, non c’erano molti avventori e con Mario intavolavo lunghi discorsi sui temi più svariati, la politica, il calcio, il pettegolezzo, il senso della vita, le cose pratiche, come riparare una perdita d’acqua, piastrellare un bagno, sistemare una grondaia. Io gli raccontavo le mie storie e lui le sue e spesso ricordava i primi inizi del suo lavoro di manovale, quell’ordine datogli da Mario Fila:” Domani, secchio e badile!”, oppure quella volta che Elso Canossa, un possidente locale, seccato perché, per saggiare l’integrità delle tegole, Mario doveva picchiettarle, aveva chiesto al ragazzo di smetterla e, visto che Mario lo snobbava, un pò perché aveva ricevuto ordini tassativi di continuare a farlo, da parte di Mario Fila, un po’ perché più che essere intimorito, era divertito, alla fine, esasperato, lo aveva cacciato a male parole. Ricordava anche come avesse rischiato seriamente la vita due volte, la prima, quando, eseguendo dei lavori nella chiesa parrocchiale, aveva messo un piede su una superficie che non aveva sostegni per cui stava precipitando da un’altezza di cinque metri e il suo collega lo aveva afferrato ad un braccio, salvandogli la vita. Oppure, quel giorno che si era recato a prendere un bagno nel Po ed era stato risucchiato da uno di quei vortici tanto improvvisi quanto letali che hanno funestato per tanti anni i paesi rivieraschi. Era stato riportato a galla, ormai esanime. Trascinato a riva, dopo molti tentativi di rianimazione, finalmente era tornato in vita. Lo ricordava con una certa intensità e ancora ringraziava Barulìn, un suo amico, che lo aveva salvato. Gli piaceva sfottermi per quello che, secondo lui, era un mio difetto e cioè l’avarizia.
Il mestiere del muratore, come si sa, è duro e lascia segni nel fisico. Sono segni che, subdolamente, non si manifestano quando si è ancora giovani e in forze. Con l’avanzare dell’età però, i primi doloretti, i primi acciacchi cominciano a farsi sentire e, nonostante il ricorso ad antidolorifici, l’intensità e la persistenza diventano pessime compagne del viaggio della vita.
Gli ultimi anni, per Mario, sono stati un vero tormento. Operazioni chirurgiche di diverso tipo, pur se riuscite, hanno fiaccato poco a poco il suo fisico e ne hanno intaccato, in modo progressivo, la sua salute mentale.
Era invecchiato anzitempo, il suo sguardo non era più vigile, vivo. La sua bocca era semiaperta e tremolante in continuazione e ormai parlava a fatica. Questo deperimento mi aveva colpito: ormai parlava solo per lamentarsi e per esprimere il desiderio di morire.
L’ultima volta che parlai con lui, fu una domenica di fine estate. Era seduto fuori del chiosco, appena riparato dal sole grazie a una tettoia di tela. Era appena finita la Messa e mi avvicinai chiedendogli come si sentisse. Mi rispose con un filo di voce che non vedeva l’ora di morire. Per rincuorarlo, gli dissi le solite cose scontate. Il suo sguardo però era ormai perso nel vuoto.
Non sorrideva più, ormai. Dell’uomo ancora giovane con cui avevo trascorso così tanti pomeriggi, con cui avevo scambiato così tanti discorsi, con cui avevo riso di cuore così tante volte, non restava altro che un vecchio emaciato, rannicchiato su se stesso, senza più entusiasmo né voglia di vivere. Lo salutai augurandogli di recuperare un po’ di salute. Mi rispose con un filo di voce, simile ormai a un rantolo. Non riuscii a capire che cosa mi aveva detto.
Mesi dopo, mentre consumavo la prima colazione presso una terrazza di Trapani, dove mi ero recato per una breve vacanza con alcuni miei amici concittadini, uno di loro mi comunicò la sua morte.
Non ne rimasi particolarmente colpito, pensai anzi che si era realizzato quanto da lui così desiderato. Al mio ritorno a casa, passai davanti al chiosco presso cui avevo passato tanti momenti spensierati con lui. Era tutto chiuso. I funerali avevano già avuto luogo. Non lo avrei mai più rivisto: dovetti ripetermelo a me stesso per convincermi che era tutto finito. Non so, ma mi pare che in quel piccolo locale manchino la sua figura, le sue battute, i suoi sfottò, i suoi scherzi di quando stava bene, di quando la vita gli sorrideva e sembrava promettergli una vecchiaia serena.
Sit tibi terra levis, caro Mario!