Mario dal Barachìn

Pochi giorni fa è mancato Mario. In paese lo chiamavano familiarmente Mario Pelame, altri, Mario dal Barachìn. Aggiungere un appellativo al nome era necessario per distinguerlo da altri Mario. Quando era più giovane c’erano diversi Mario in paese, come ad esempio Mario at la Cénsica (che abitava proprio nella piazzetta dove c’è il chiosco del Barachìn). Oppure c’era Mario Zanella, che tutti chiamavano Marièt. C’era poi Marièl  Pinzetta, più anziano, il marito di Franca Rossi. Infine c’era Mariùn o Mario Cattafesta, più giovane.

Mario era di famiglia poverissima. Suo padre faceva il sellaio (ecco perché Mario lo chiamavano Pellame, da cui Pelame) e il materassaio, ma con tre figli da tirar su, la fatica era improba.

Il figlio più vecchio, Oreste, aveva iniziato a lavorare nella bottega di un falegname, per poi mettersi in proprio. Il più giovane, Gino, era stato avviato al mestiere di sarto, sempre come garzone, per poi, anni dopo, trasferirsi a Milano.

Mario, un giorno, aveva circa 13 o 14 anni, si era sentito dire da suo padre: “Senti, qui abbiamo bisogno che tu porti a casa qualche soldino. Non ce la facciamo a tirare avanti così. Ho parlato con Mario Fila, che sarebbe contento di prenderti. Va a parlare con lui per metterti d’accordo”.

Mario Fila era parente del padre di Mario e due braccia in più come manovale gli facevano comodo.

Mario Fila fu di poche parole:” Hai voglia di lavorare? Sì? Bene, allora domani ti aspetto da Batistìn alle sette con secchio e badile. Puntuale”. E lì la conversazione terminò. Batistìn era un piccolo imprenditore edile e Fila  era un suo dipendente. Poiché era diverso tempo che lavorava alle sue dipendenza, godeva di una certa autonomia ed autorità.

Il giorno dopo, alle sette, Mario era al lavoro, con secchio e badile, come concordato. Cominciava così per lui una nuova vita, dura, faticosa, come quella dei tanti suoi amici coetanei. Tanti facevano i garzoni presso qualche negozio, altri lavoravano a bottega presso qualche artigiano locale, altri ancora, figli di contadini, avevano già cominciato ad aiutare il padre nei lavori dei campi, nell’accudire il bestiame, nella mungitura e il resto. Altri, più fortunati, proseguivano gli studi, ma erano veramente pochissimi.

Mario aveva accettato di lasciare la scuola di buon grado. Era consapevole delle ristrettezze famigliari e del bisogno che avevano i suoi di poter contare su qualche aiuto in più. Cominciava così come manovale il suo lavoro nell’edilizia. Sustinente, come tutto il Paese, si leccava ancora qualche ferita lasciata dalla guerra e faticosamente si stava riprendendo, grazie agli aiuti del Piano Marshall e ad uno straordinario sforzo collettivo che in pochi anni avrebbe portato l’Italia a riprendersi e a meritarsi di nuovo la stima degli stranieri.

L’edilizia è da sempre un motore importante, un volano fondamentale per l’economia. Con un’edilizia fiorente, ogni altra attività gira, c’è crescita, c’è spazio per la speranza in un avvenire migliore. Mario aveva vissuto in pieno quegli anni; eravamo agli inizi degli anni 50 e si respirava una frenesia che da tempo ormai era scomparsa, fiaccata dai lutti, dalle distruzioni, dalla conseguente miseria materiale. Era ancora presto, ma qualcosina si cominciava a vedere. Un gelatino alla domenica non era più un sogno impossibile, così come un ballo ogni tanto, presso la locale sala da ballo. Poi, alla fine del lavoro, verso sera, era possibile dare quattro calci al pallone presso il campetto dell’Oratorio, con altri coetanei. Le energie c’erano, eccome, anche dopo una dura giornata di lavoro. Mario non disdegnava il lavoro pesante, lo faceva con dedizione e poco a poco aveva acquisito una discreta perizia. Il suo capo non lo dava a vedere, ma era evidente che lo teneva in considerazione, visto che gli affidava sempre più lavori non più come manovale ma come operaio semplice, con la sua parte di responsabilità. La paga non era gran che, ma almeno riusciva a dare una mano ai suoi e qualcosina gli rimaneva, magari per una gazzosa o un gelato. Quando metteva la paga nelle mani del padre, si sentiva importante, utile e a casa si riusciva a pagare qualche bolletta senza troppi affanni.

Mario giovanissimo calciatore. Una buona tecnica e un bel sinistro.

Mario aveva un carattere gioviale, era spiritoso e a volte usava il dialetto con le sue particolarità, i modi di dire, i proverbi, la gestualità per dare maggiore incisività alle sue storie, ai suoi ricordi.

Credo che fosse un artigiano coscienzioso e abile. I miei gli avevano commissionato dei lavori di ristrutturazione del tetto della nostra casa e qualche sistematina interna. Ricordo che mia madre lo apprezzò per il suo lavoro. Una cosa curiosa fu quella delle vespe. Pelame mi disse di non aver mai trovato tanti nidi di vespe  come sotto le tegole della nostra casa. A furia di punture, decise, con un suo compagno di lavoro, di comprare una bottiglietta di nafta. La tecnica da usare era semplice: ogni tegola alzata nascondeva quasi sicuramente un nido; si trattava quindi di battere sul tempo le vespe. Con una mano, alzava appena il bordo della tegola e con l’altra gettava un po’ di nafta sotto la tegola. Quando l’alzava del tutto, notava che le vespe sottostanti erano rimaste stecchite, senza nemmeno il tempo di fuggire dal nido.

Il lavoro di muratore però lo aveva fisicamente provato e spesso, sempre più spesso accusava dei dolori alla schiena che rendevano particolarmente pesante la sua attività.

Il destino aveva in serbo per lui delle novità.

Alla fine di una giornata di lavoro, come prima ricordavo, quando ancora era giovane, amava recarsi al campetto dell’Oratorio parrocchiale per dare quattro calci al pallone. Non era un talento sportivo, ma possedeva un buon sinistro, con cui spesso risolveva le partitelle che si giocavano sul campetto. A Sustinente, verso la fine degli anni’50, si giocava nel mese di agosto un torneo notturno a cui partecipavano diverse squadre dei centri limitrofi. Le squadre erano composte da cinque giocatori e duravano un’ora con due tempi di mezz’ora ciascuna.

La sua squadra era quella del Barachìn per vari motivi: conosceva bene il proprietario del chiosco, Bruno, poi, dato l’affiatamento con alcuni suoi amici coetanei, gli era stato proposto di far parte della squadra. In porta c’era Rodrigo, figlio del proprietario del bar; poi c’era Bruno Fattori, un giovane che aveva perduto i familiari durante il bombardamento americano del settembre 1944. Terminati gli studi secondari, si era iscritto all’Istituto di Educazione Fisica e, conseguito il diploma finale, si era dedicato all’insegnamento e, ben presto, alla carriera politica, senza mai abbandonare la sua grande passione per lo sport. Sarebbe poi diventato sindaco per molti anni, lasciando un buon ricordo come amministratore, riuscendo ad ottenere per il paese diversi fondi da utilizzare, tra l’altro, per costruire installazioni sportive. Purtroppo, così come per Rodrigo, la malattia se lo portò via ancora giovane.

Los tres amigos! Da sin.:Marco Crestani, Mario Zanella (Marièt) e Mario Gavioli

Per Mario, il calcio sarebbe stato, oltre che divertimento e sfogo, anche un mezzo per cambiargli la vita. Una sera, la figlia maggiore di Bruno, Roberta, si recò all’Oratorio per assistere a una partita della squadra che rappresentava il suo Barachìn. Fu lì che conobbe Mario e fu amore a prima vista, un vero e proprio colpo di fulmine. Ancora oggi, quando ne parla, a Roberta si illuminano gli occhi. Si fidanzarono molto velocemente, anche se Bruno, all’inizio era un po’ perplesso. Ma, si sa, “amor omnia vincit”.

Il Barachìn, che era diventato il suo posto di lavoro dopo aver cessato la sua attività di muratore, era diventato il luogo dove quasi ogni pomeriggio prendevo un caffè. A quell’ora, verso le 14.30/15, non c’erano molti avventori e con Mario intavolavo lunghi discorsi sui temi più svariati, la politica, il calcio, il pettegolezzo, il senso della vita, le cose pratiche, come riparare una perdita d’acqua, piastrellare un bagno, sistemare una grondaia. Io gli raccontavo le mie storie e lui le sue e spesso ricordava i primi inizi del suo lavoro di manovale, quell’ordine datogli da Mario Fila:” Domani, secchio e badile!”, oppure quella volta che Elso Canossa, un possidente locale,  seccato perché, per saggiare l’integrità delle tegole, Mario doveva picchiettarle, aveva chiesto al ragazzo di smetterla  e, visto che Mario lo snobbava, un pò perché aveva ricevuto ordini tassativi di continuare a farlo, da parte di Mario Fila, un po’ perché più che essere intimorito, era divertito, alla fine, esasperato, lo aveva cacciato a male parole. Ricordava anche come avesse rischiato seriamente la vita due volte, la prima, quando, eseguendo dei lavori nella chiesa parrocchiale, aveva messo un piede su una superficie che non aveva sostegni per cui stava precipitando da un’altezza di cinque metri e il suo collega lo aveva afferrato ad un braccio, salvandogli la vita. Oppure, quel giorno che si era recato a prendere un bagno nel Po ed era stato risucchiato da uno di quei vortici tanto improvvisi quanto letali che hanno funestato per tanti anni i paesi rivieraschi. Era stato riportato a galla, ormai esanime. Trascinato a riva, dopo molti tentativi di rianimazione, finalmente era tornato in vita. Lo ricordava con una certa intensità e ancora ringraziava Barulìn, un suo amico, che lo aveva salvato. Gli piaceva sfottermi per quello che, secondo lui, era un mio difetto e cioè l’avarizia.

Il mestiere del muratore, come si sa, è duro e lascia segni nel fisico. Sono segni che, subdolamente, non si manifestano quando si è ancora giovani e in forze. Con l’avanzare dell’età però, i primi doloretti, i primi acciacchi cominciano a farsi sentire e, nonostante il ricorso ad antidolorifici,  l’intensità e la persistenza diventano pessime compagne del viaggio della vita.

Gli ultimi anni, per Mario, sono stati un vero tormento. Operazioni chirurgiche di diverso tipo, pur se riuscite, hanno fiaccato poco a poco il suo fisico e ne hanno intaccato, in modo progressivo, la sua salute mentale.

Era invecchiato anzitempo, il suo sguardo non era più vigile, vivo. La sua bocca era semiaperta e tremolante in continuazione e ormai parlava a fatica. Questo deperimento mi aveva colpito: ormai parlava solo per lamentarsi e per esprimere il desiderio di morire.

L’ultima volta che parlai con lui, fu una domenica di fine estate. Era seduto fuori del chiosco, appena riparato dal sole grazie a una tettoia di tela. Era appena finita la Messa e mi avvicinai chiedendogli come si sentisse. Mi rispose con un filo di voce che non vedeva l’ora di morire. Per rincuorarlo, gli dissi le solite cose scontate. Il suo sguardo però era ormai perso nel vuoto.

Il barachìn: quante ore trascorse in questo locale!

Non sorrideva più, ormai. Dell’uomo ancora giovane con cui avevo trascorso così tanti pomeriggi, con cui avevo scambiato così tanti discorsi, con cui avevo riso di cuore così tante volte, non restava altro che un vecchio emaciato, rannicchiato su se stesso, senza più entusiasmo né voglia di vivere.  Lo salutai augurandogli di recuperare un po’ di salute. Mi rispose con un filo di voce, simile ormai a un rantolo. Non riuscii a capire che cosa mi aveva detto.

Mesi dopo, mentre consumavo la prima colazione presso una terrazza di Trapani, dove mi ero recato per una breve vacanza con alcuni miei amici concittadini, uno di loro mi comunicò la sua morte.

Non ne rimasi particolarmente colpito, pensai anzi che si era realizzato quanto da lui così desiderato. Al mio ritorno a casa, passai davanti al chiosco presso cui avevo passato tanti momenti spensierati con lui. Era tutto chiuso. I funerali avevano già avuto luogo. Non lo avrei mai più rivisto: dovetti  ripetermelo a me stesso per convincermi che era tutto finito. Non so, ma mi pare che in quel piccolo locale manchino la sua figura, le sue battute, i suoi sfottò, i suoi scherzi di quando stava bene, di quando la vita gli sorrideva e sembrava promettergli una vecchiaia serena.

Sit tibi terra levis, caro Mario!

 

 

 

Armando e lo “Scandalo al sole”

Armando Vanzini aveva qualche anno più di me. Statura media, corporatura regolare, né grasso né magro. Lo conoscevo senza averci mai parlato. Lo vedevo tutti i pomeriggi davanti a casa mia. Lavorava con suo cognato, Lino, che aveva sposato la sorella Fernanda. Faceva il fabbro e questo significa avere a che fare con saldatrici, flessibili, martelli, tenaglie e altro. Ma in un piccolo centro agricolo, una buona parte del lavoro consisteva, in quei tempi e cioè gli anni ’50 e ’60, nel ferrare cavalli da lavoro.

Lino dirigeva i lavori ed Armando eseguiva: erano però diversi nel modo di concepire il lavoro. Lino era un fabbro che amava la propria attività, ma non aveva la pazienza e la meticolosità necessarie per eseguire lavori di fino. Armando, invece, non concepiva certe manchevolezze. Per lui un lavoro doveva essere eseguito a regola d’arte. I contrasti tra lui e Lino nascevano proprio da questa diversa concezione. Una saldatura doveva essere perfetta e non si doveva notare quasi. Certe sbavature, certi difettucci di poco conto erano per lui intollerabili.

A volte, Lino perdeva la pazienza, stanco di dover riprendere continuamente Armando per quella sua mania della perfezione e lo mandava bruscamente a casa. Armando se ne andava, deluso e irritato. Immancabilmente, il giorno dopo, Fernanda, su pressione del marito, si recava dal fratello e lo pregava di tornare al lavoro aggiungendo che Lino era dispiaciuto. E Armando tornava, salvo, poi, dopo qualche tempo, litigare di nuovo.

D’estate, nei meriggi torridi, senza un filo di vento, dopo pranzo, ero solito coricarmi e tentare di schiacciare un pisolino. Tentare…ma troppo spesso quei tentativi non erano coronati da successo. In effetti, nell’officina di Lino, verso l’una e mezza, cominciava il tormento. Martellate, sibili, grattate, tonfi. Un fracasso che impediva di prendere sonno. Se chiudevo la finestra, il caldo diventava opprimente. Inoltre, la finestra della mia stanza era quella più vicina all’officina. Mi innervosivo, mi giravo e rigiravo nel letto, mi coprivo la testa con un cuscino… niente da fare. C’erano brevi intervalli di quiete che mi illudevano e che, come ogni illusione, la dura realtà riprendeva il sopravvento: ed era una serie di botte da orbi menate su lastre di lamiera, un sibilo improvviso, inquietante, tanto acuto quanto sgradevole provocato forse da un taglierino o da un flessibile.

I miei genitori erano più fortunati. Dormivano nella stanza più lontana dall’officina e i rumori giungevano loro più attenuati. Verso le 16 si alzavano. Mio padre scendeva in negozio (di alimentari) e mia madre si dedicava alle solite faccende di casa. Scendevo pure io ed uscivo. Al campetto dell’oratorio era ancora prestino, i ragazzi ci andavano verso le 17, quando i morsi del sole non erano più così micidiali. Avevo un’ora da riempire. Alla casa del Popolo, alla tv, trasmettevano telefilm per ragazzi, come PENNA DI FALCO Capo Cheyenne oppure RIN TIN TIN, con un ragazzino Rusty e il suo cane, adottati in un forte in territorio indiano, alle prese con mille avventure. Ma quando questi programmi non andavano in onda, mi recavo spesso da Adriano, il mio barbiere. Ricordo un giorno di giugno del 1959, era esattamente il 26 ed era la seconda tappa del Tour de France , Metz-Namur. La vinse il nostro Vito Favero, che un anno prima era arrivato sorprendentemente secondo in classifica generale a Parigi, davanti al suo capitano Gastone Nencini.

Il radiocronista commentava con entusiasmo l’impresa di Favero, che però, qualche giorno dopo, all’undicesima tappa, si sarebbe ritirato.

Nella bottega di Adriano, mi sedevo al tavolo e sfogliavo il giornale sportivo, se non era TUTTOSPORT era LA GAZZETTA DELLO SPORT, qualche rivista e ascoltavo distrattamente i discorsi che si tenevano fra Adriano e i suoi clienti. Mi piaceva soprattutto il leggero rumore che produceva il rasoio sulla pelle coperta da una patina di crema da barba. Ogni passata, la barba scompariva e la pelle tornava pulita, soda, fresca. Alla fine, dalla mensola accanto allo specchio, Adriano prendeva una sorta di peretta di gomma: premendo sulla parte bassa, dal beccuccio usciva uno spray che inondava l’ambiente di un gradevolissimo profumo. Quando, una volta al mese, toccava a me, uscivo sentendomi inondato da quel profumo e mi sembrava di essere un gran signore, riverito e rispettato da tutti.

Tornando ad Armando, a volte mi sedevo sui gradini di casa e osservavo Armando e Lino intenti a lavorare. Quell’anno, il 1959, io ero dodicenne, era di moda una musica di Max Steiner (il grande Steiner autore di tante colonne sonore di film americani) e suonata dall’orchestra di Percy Faith. Si chiamava Scandalo al sole (il titolo originale era A Summer Place) ed era la colonna sonora del film omonimo, diretto da Delmer Daves, con Richard Egan, Dorothy McGuire, Sandra Dee e Troy Donahue.

La colonna sonora ebbe un successo strepitoso e, ancora oggi, rimane nella memoria infinitamente più del film stesso. Dato che era trasmessa continuamente alla radio (alla TV non c’erano ancora programmi musicali come quelli attuali), era entrata nella mente di tutti e, ovviamente, anche in quella di Armando. Ecco, se dovessi associare quel ragazzo a un oggetto, a un’immagine o a una musica, per me il binomio Armando-Scandalo al sole resta assoluto, intoccabile.

Passava ore ed ore a fischiare quel motivo; era qualcosa di quasi ossessivo, compulsivo. La fischiava mentre cercava di sistemare un giunto di un trattore o raddrizzare una biella. Non lo faceva quando ferrava un cavallo, perché a Lino non piaceva che si distraesse, lo voleva tutto concentrato. E non a torto, visto che il cavallo a volte faceva movimenti bruschi che facevano cadere la zampa che si stava ferrando; allora Lino sbottava e, afferrata una grossa tenaglia, menava due o tre botte sui lombi dell’animale che si acquietava quasi subito. Quando giungeva il momento di appoggiare il ferro rovente sullo zoccolo, il contatto sprigionava un forte odore di bruciato che non provocava alcun dolore al cavallo. E’ un odore che mi ha accompagnato per tanti anni e mi fa ritornare a quel tempo. Accanto a Lino, vedo Armando, sempre tranquillo, attento e, soprattutto, mentre fischia quella benedetta canzone.

Quelle note lente, melodiche e malinconiche mi riportano ai lunghi ed interminabili pomeriggi estivi, alla ricerca dell’ombra, all’attesa di dare quattro calci ad un pallone nel campetto dell’Oratorio con gli amici, alle radioline a transistor con musiche oggi improponibili ma non per me, che ho sempre avuto un debole per la musica da “crooner”, con personaggi oggi dimenticati come il maestro Gigi Cichellero, Cinico Angelini,  cantanti come Natalino Otto e Flo Sandon’s,  Gino Latilla, Luciano Tajoli e tanti altri. Per cercare l’ombra, il negozio di Adriano era quello che ci voleva e poi c’era quel profumo…

Non ho mai parlato con Armando; essendo un po’ più grande di me, c’era una piccola barriera fra noi fatta di rispetto e imbarazzo. Faceva parte di una compagnia di giovani, tra cui mio cugino Mimmo, che era molto affiatata e che aveva nel curato di allora, don Ermes, una sorta di chioccia cordiale e alla mano. Spesso si riunivano in canonica e si divertivano come ci si divertiva una volta nei piccoli paesi: una risottata, una partita al biliardino o a ping-pong. La canonica era ormai un ambiente troppo stretto per contenere l’esuberanza di quei giovani. Il parroco stava ultimando la costruzione dell’Oratorio, un edificio che aveva, in principio, il compito di riunire i giovani per le attività ludiche e di formazione spirituale. Io e i miei amici ne avremmo fatto una specie di rifugio dorato. Armando, nella sua semplicità, aveva legato con tutti. Era il classico compagno tranquillo che non creava problemi, che amava ascoltare più che raccontare, a cui piaceva ridere, bere e mangiare con moderazione, senza grilli per la testa, il classico buon ragazzo di campagna che aspettava il momento per vivere la sua vita.

Quel momento, alla fine, arrivò e il sodalizio con Lino si ruppe: Armando aveva conosciuto una ragazza di un paese vicino, Novellara, nel Modenese e l’aveva sposata. Aveva trovato quasi subito lavoro presso una grossa fabbrica locale. Lei era professoressa e aveva trovato in Armando ciò che andava cercando: semplicità, affetto e laboriosità. La loro era serena come le tante unioni tra giovani di paese. Quella che per tanti sapientoni poteva essere noia, per loro e per tanti altri era una routine accettata di buon grado, vissuta con la consapevolezza che la vita semplice, laboriosa ed onesta è da preferire all’avventura, alla piccola trasgressione. Il destino, però, aveva in serbo qualcosa di diverso.

Ad aiutare Lino ora c’era un ragazzo del luogo, Giorgio, che gli sarebbe stato accanto per molti anni e che, anche quando trovò un altro lavoro, non avrebbe mai smesso di essergli amico e di andare spesso a trovarlo, aiutandolo fino agli ultimi suoi giorni di vita.

Anni dopo, quando avevo ormai lasciato il mio paesino per recarmi nella capitale, mia madre, o mio fratello, mi comunicarono che Armando non c’era più. Se l’era portato via un infarto. Era un cuore ancora giovane che aveva ancora tanto da dare, da gioire e soffrire come tutti, ma che il destino non aveva premiato per avere scelto di vivere una vita tranquilla. Come accettare queste disgrazie? Queste assurde violazioni ad un codice che riteniamo tutti valido fin che tutto ci sorride e che poi scopriamo essere capriccioso e troppo spesso malvagio.

Ora, al posto dell’officina, la figlia di Lino ha fatto costruire una casa e ora ci abita assieme al marito. Là dove sostavano attrezzi agricoli, cavalli e asini in attesa della ferratura, c’è un’aiuola con fiori e piccoli arbusti. Quando ci passo accanto, mi sembra di sentire, disperse nel vento, le note fischiettate di quella canzone, ma quasi subito, il rombo di un’auto che transita sulla strada principale se le porta via, rubandomi anche delle sensazioni che ogni tanto si presentano e mi aiutano ad ingentilirmi l’animo.

 

 

 

MESCHINU E IL NONSENSE

                                    

Il negozio di barbiere di Meschinu  dava sulla strada principale, anche se dal lato opposto a quello di Adriano Grisanti, di cui ho abbondantemente parlato, pur se non in faccia l’uno con l’altro.

Di nome faceva Rino Stellini ed era un vero personaggio curioso. L’umanità è fatta di tanti piccoli esseri, uno diverso dall’altro per etnìa, lingua, usi, costumi, carattere. Pur con tutte queste diversità, gli esseri umani hanno in comune la razionalità e la usano per orientare le loro azioni, definire i loro programmi, comprendere ciò che li circonda, ciò che vedono e sentono. Anche i sentimenti, in certa parte, sono informati alla ragione. Fortunatamente, le ragioni del cervello non coincidono spesso con quelle del cuore e questo rende spesso imprevedibile il nostro mondo. Per fortuna.

Ma a rendere ancora più vario il genere umano, intervengono delle anomalie che arricchiscono il già ricchissimo repertorio di differenze fra individuo ed individuo. Sono le cosiddette eccentricità, le stranezze che infrangono lo strato di razionalità entro cui ci muoviamo. Alcune di queste anomalie sono propedeutiche alle sensibilità artistiche, le quali, se incoraggiate anche in piccola misura, contribuiscono a rendere straordinario questo mondo e degno di essere vissuto.

Alcune di queste stranezze, quando non esistono quegli elementi che chiamerei detonatori, restano solo tali e il mondo è privato, per un’infinità di motivi, di possibili artisti, scienziati e campioni dello sport.

Anche in piccoli centri rurali, come quello dove sono nato, esistono dei potenziali personaggi non comuni. Ad esempio, mio zio, aveva una capacità quasi demoniaca di leggere al contrario parole di varie lettere, di fare di conto moltiplicando e dividendo numeri di tre cifre ad una velocità sbalorditiva. In tutto il resto, era una persona comune, con gusti, inclinazioni, comportamenti plebei, del tutto simili a quelli che frequentava.

La singolarità di Meschinu (a proposito, non sono mai riuscito a scoprire l’origine di quel buffo nomignolo; del resto, molti di questi nomignoli si tramandano di padre in figlio e, spesso, occorre andare indietro di tre o quattro generazioni) era il non sense e cioè quella forma particolare di linguaggio senza logica, con associazioni libere e imprevedibili, con situazioni surreali. Nel teatro dell’assurdo, esistono forme di linguaggio che si avvicinano alla parlata del mio ex-concittadino, come ad esempio Samuel Beckett in EN ATTENDANT GODOT oppure il “gramelot” di Dario Fo. Ma in Fo, il gramelot era un geniale miscuglio di dialetti che avevano un senso, anche se spesso in situazioni assurde e impossibili, inverosimili come “La fame del Zanni”

La lingua è un formidabile strumento per farsi un’idea dei nostri simili. Da un discorso, anche abbastanza breve, è possibile capire molto: l’origine sociale, la capacità razionale, la provenienza geografica, il grado di istruzione, lo spessore culturale e altro. In Meschinu, ad un occhio (e orecchio) attenti, capivi subito che si trattava di una persona con una particolare predilezione per un linguaggio “creativo”. I poeti, i letterati e gli scrittori, con ben altre basii, è chiaro, riescono ad ottenere delle associazioni verbali e concettuali, delle soluzioni inimmaginabili e straordinarie per sonorità, capacità evocativa, per purezza del verso, per ritmo, che sono inimmaginabili per i comuni mortali.

Meschinu, invece, era attratto dalle parole un po’ ricercate e le usava in contesti che nulla avevano a che fare con quelle parole. Come ad esempio, quella volta che mi trovavo a passare di fronte al Bar Centrale, sotto i portici. Mentre ero all’altezza della porta, vedo uscire Meschinu, col suo camice candido, da barbiere, farmisi incontro e guardandomi, mormorare, in perfetto italiano:” Sono stanco ed affranto!”.

Un’altra volta, ero più o meno, nello stesso punto e mi trovo il buon Meschinu che mi squadra e come se stesse riassumendo, in poche parole, un fatto sportivo, mi dice, in dialetto:”Ier j’a szügà al nèdar müt e la gata bleu; al nèdar l’a vint un a szeru, a sgnà al bõ at testa (ieri hanno giocato l’anatra selvatica e la gatta blu. L’anitra ha vinto uno a zero: ha segnati il bue di testa).

Altre volte, mi si avvicinava e mi diceva, convinto :” Sfacià!”(Sfacciato). Non c’era certo acrimonia nei miei riguardi, ma il desiderio insopprimibile di sfogare la sua continua voglia di esprimere la sua simpatia nei miei confronti, sapendo bene che non me la prendevo, anzi!

Era anche intonato. Una volta, attraversando la strada per rientrare in negozio, lo sentii cantare le prime strofe di una canzone di Achille Togliani, un noto cantante melodico degli anni ’50:” L’incanto di una rosa deliziosa, profumata, sei per me, mogliettina”. La cantava con una voce educata, ben modulata e non sguaiata. Ancora oggi lo ricordo con certa tenerezza.

Rino non era né bello né brutto, né alto né basso, almeno secondo i parametri degli anni’40. Aveva i capelli castani e ricci pettinati all’indietro, come usava tanti anni fa. Il suo naso era pronunciato, ma il viso, nel suo complesso, era regolare. Non era analfabeta, ma si esprimeva quasi esclusivamente in dialetto. Non era sguaiato né volgare, aveva un modo di fare quasi delicato. Io non ero, come ho già detto, suo cliente, ma immaginavo quelle mani sottili usare con certa maestria il pettine, le forbici e il rasoio, rigorosamente di quelli a serramanico. Non aveva il garzone a dargli una mano: la gente preferiva gli altri barbieri. Lui poteva contare solo su alcuni clienti abituali, pochi, per la verità. Quindi doveva fare tutto da solo e tempo gliene avanzava. Quando era inoperoso, spesso attraversava la strada e si recava al bar da Ezio, dove non consumava ma si limitava a scambiare qualche chiacchiera con gli avventori presenti, oppure sfogliava distrattamente il giornale, prevalentemente sportivo. Aveva praticato, in gioventù, il calcio. Giocava nella squadra locale e, da quel che mi ricordavano alcuni suoi coetanei o quasi, era un personaggio pittoresco. Una domenica, se l’era presa, non so bene perché, con il portiere avversario (secondo me, lo aveva apostrofato poco elegantemente) e gli aveva giurato che un golletto glielo avrebbe fatto. Giocava in attacco: era veloce e mingherlino. Durante un’azione di gioco, gli era capitata un’occasione ghiotta e ne aveva approfittato. Era riuscito a segnare. Memore di quanto promesso, aveva raccolto il pallone in fondo alla rete, poi, avviandosi verso il centro del campo, si era rivolto, beffardo, al portiere, dicendogli in dialetto:” Hai visto? Te l’avevo detto che ti avrei segnato. Sei contento adesso?”.

In paese, tutti sapevano che Rino era un po’ “matto”, nel senso che era un pochino eccentrico, ma non ho mai sentito nessuno lamentarsi di lui o accusarlo di qualcosa. Se ne parlava, con il sorriso fra le labbra, come avviene quando si parla di qualcuno che, in fondo, ci è caro e a cui si perdona volentieri qualche stravaganza.

Del resto cos’è che rende interessante una persona? Quando si perde nell’anonimato? Quando si adatta talmente bene all’ambiente e alla massa da perdersi, svanire, confondersi con essa? Da quando la normalità è un merito? E soprattutto, che cosa sarebbe questo povero mondo se fossimo tutti uguali, se tutti ci comportassimo allo stesso modo? I tipi originali come Rino rendono più piacevole, imprevedibile, allegra la nostra esistenza.

Mio padre era suo cliente. Non so se lo facesse per stima o per aiutarlo, pur se con qualche spicciolo solamente, a sbarcare il lunario, ma ho sempre apprezzato quella scelta. In piccoli paesi come il nostro, ci si aiuta, di solito, e si cerca, silenziosamente, senza tanta pubblicità, di venire incontro concretamente a chi si trova in difficoltà. Io non sono mai andato a frugare nelle tasche di Meschinu, che certamente non navigava nell’oro, però viveva con grande dignità le sue ristrettezze economiche.

Non riesco a togliermi dalla mente quest’ometto sorridente, sempre pronto alla battuta, gentile. Più lo ricordo e più mi sembra di vedere una generazione di giovani come Rino, piena di speranze stroncate, precipitata in una guerra assurda, costretta a vivere in condizioni incomparabilmente peggiori di quella, come la mia, che le sarebbe succeduta.

Allora quel suo sorriso, quella sua levità, quella sua piccola follia mi sembrano testimoni inoppugnabili di un piccolo grande uomo, capace di vivere orgogliosamente la propria povertà, incapace di odiare e sempre pronto alla battuta, contento di vedere spuntare negli altri un piccolo sorriso, come piccolo risarcimento, come un modo gentile di mostrare la sua presenza, di fare presente che sì, c’era anche lui, modestamente, dignitosamente come, del resto, aveva vissuto tutta la sua vita.

 

 

 

Rumanìn

Con queste note vorrei fissare nella memoria, prima che svaniscano, episodi, momenti, ricordi, volti di persone che, quando ero ragazzino, ho conosciuto e che, per non so quali meccanismi del cervello, mi sono rimasti impressi. Quelle persone continuano a vivere in me e, quando non sarò più di questo mondo,forse moriranno ancora una volta. Ciò che scrivo è un tentativo, ingenuo, forse inutile, di trattenere una parte di esse ancora in vita. Non ho le loro foto e quindi già una buona parte di loro ormai non è più.

Accanto al negozio, si intravede sulla destra il muretto con le panchine in cemento. L’ultima, in fondo, è quella dove ci sedevamo con Rumanìn.

RUMANIN
Rumanìn era una ragazzo di qualche anno più grande di noi, senza però essere considerato ancora un adulto. Lavorava come garzone presso il negozio di barbiere dI Adriano Grisanti, presso cui mi recavo per il taglio di capelli.
Era di statura media, leggermente bassa. Aveva un volto pulito, con occhi svegli e la parlantina (in dialetto) sciolta. Nei pomeriggi d’estate, verso le 16, io e il mio amico Gilberto eravamo soliti sederci su una panchina di cemento incorporata, con altre a distanza regolare, in una lunga fila di prismi, sempre in cemento, di color bianco, sormontati da una lastra di cemento che andava dall’inizio alla fine di quella specie di muretto. Era da poco che era stato costruito. Al suo posto, prima, c’era un muro, alto circa un metro e mezzo. Quel muro costeggiava la proprietà dell’ex-podestà Moreschi. Quel muro lo ricordo bene in quanto possiedo una foto di un nostro ex-parroco, don Dino Biancardi, morto a fine anni ’40, conseguenza delle botte e maltrattamenti subiti in un carcere tedesco a Verona, accusato di favorire i partigiani. La foto lo ritrae mentre cammina lungo detto muro. Don Dino è il prete che mi ha battezzato.
Le 16 erano un orario che, d’estate, metteva fine alla calura insopportabile. Dopo quell’ora la sferza del solleone perdeva forza e lasciava respirare. Era l’ora della merenda, per i bambini. Era anche l’ora di apertura dei negozi, dopo la pausa prandiale e un riposino.
La panchina dove sedevamo io e Gilberto era proprio dalla parte opposta del negozio di Adriano, attraversando la strada. I clienti, a quell’ora, erano scarsi e così Rumanìn veniva spesso da noi a parlare del più e del meno. Era un ragazzo educato, non diceva parolacce ed era a suo agio con noi. Non ci sfotteva, visto che era un poco più vecchio di noi. Non è che facessimo grandi cose. A quell’età non ci si annoia e ci si diverte con niente. Facevamo gare innocentissime come scommettere se, nel giro di cinque minuti, sarebbero passate più auto bianche che scure, oppure se avremmo visto più uomini che donne.

Il racconto fa riferimento al negozio di barbiere del signor Adriano Grisanti. Nella foto, tale negozio non esiste più; però l’ultima finestra a piano terra del palazzo dipinto in giallo (che è il Municipio), in realtà è stata ricavata murando la porta del negozio e lasciando l’attuale apertura.

Quel giorno, parlavamo di giocattoli: Gilberto era fiero di descrivere i giocattoli che aveva. Lo stesso facevo io. In breve, si doveva decidere chi avesse i giocattoli migliori. Il giudice, insindacabile, era Rumanìn. Cominciammo a fare la spola dalla banchina alle nostre case, recando ogni volta un giocattolo e sottoponendolo al suo giudizio. Lui lo guardava, lo controllava e ricordo ancora l’ombra di un sorriso sul suo volto, unito alla sorpresa di vedere tanti giocattoli. Non era di famiglia benestante, il soprannome dei membri della sua famiglia era Magnamuschi (Mangiamosche). Le ristrettezze dalla famiglia non gli avevano permesso di iscriversi alla scuola media ( almeno a quel tempo non era ancora unificata) e presto era stato mandato dai suoi famigliari “a bottega”, per imparare un mestiere e guadagnarsi, poi, arrivata l’età adulta, il pane. Fare il garzone del barbiere era una buona sistemazione, pur se precaria. L’ambiente era pulito, profumato, i clienti amavano parlare e fare pettegolezzi; la radio era sempre accesa (la TV era ancora di là da venire). Bastava fare molta attenzione con il rasoio e seguire alla lettera le istruzioni di Adriano e le preferenze del cliente di turno. C’erano poi i giornali: da Adriano, oltra al quotidiano locale, la Gazzetta di Mantova, c’era, se non ricordo male, Tuttosport, il quotidiano sportivo di Torino ( a volte, ma forse mi sbaglio con altri negozi, Il Calcio e il Ciclismo Illustrati). Come riviste, poi, c’era TEMPO, uni periodico settimanale, specializzato in cronaca nera e pettegolezzi vari.
Quasi ogni giorno entravo nel negozio e, anche senza il taglio di capelli, mi sedevo a leggere quei giornali. Anche in età adulta. Non era il mio un atteggiamento strano. Adriano, una persona bonaria, mi permetteva di farlo e così spesso udivo i pettegolezzi, le storielle (alcune piccanti) e le eterne discussioni sportive. Il Giro d’Italia e il campionato di calcio di serie A erano gli argomenti più trattati. Rumanìn dava una mano ad Adriano a tenergli pulito il negozio, spazzare i capelli caduti al suolo e, al bisogno, sostituendosi a lui nel taglio di barba e capelli. Non mi ricordo di aver mai udito Adriano lamentarsi di lui.

LA casa si trova sul lato della Piazza Roma, la principale di Sustinente. Le due porte finestre, un tempo, appartenevano al negozio di cartoleria del signor Oddone Colognesi. La seconda, quella a destra, ospitava al suo interno il negozio dei fratelli Antonietti, entrambi barbieri. La domenica mattina, il luogo si animava, oltre che dei clienti del negozio, di ragazzi e di clienti del mercatino sotto il portico (che si nota, sottostante al balcone, dove si vendevano, regolarmente sfusi, sementi e formaggi.

Il negozio, in sé, era poco più di un bugigattolo: consisteva nel salone vero e proprio, con due poltrone reclinabili, in pelle, di fronte a due grandi specchiere. Dietro, addossato alla parete accanto alla porta d’uscita, c’era un tavolino con una sedia. Chi aspettava il proprio turno aveva a disposizione i giornali e le riviste. Accanto al salone c’era uno stanzino più lungo che largo, dove Adriano teneva i ferri del mestiere. Anni dopo, la Compagnia nazionale di Telefoni, la SIP-STIPEL, avendo bisogno di un centralino con cabina, aveva sistemato entrambi in quel budello. La cosa curiosa, allora, non essendoci teleselezione, per potere telefonare (per coloro che non possedevano un apparecchio proprio) venivano in negozio e prenotavano la telefonata. Il garzone (in effetti, si occupava più lui di quell’aspetto, del padrone), chiedeva alla centrale di mettere in comunicazione il centralino di Sustinente con il telefono della persona desiderata.
Rumanìn se ne stava docilmente accanto ad Adriano, mentre questi lavorava col rasoio per tagliare barba e capelli. Il rasoio, ogni volta che radeva una fascia di pelle del viso del cliente, si copriva di peli e di un’abbondante schiuma bianca che emanava un piacevole profumo di pulito. Questa crema, allora, si otteneva mettendo in una ciotolina una noce di crema, tolta da un vasetto posto ordinatamente su una mensola nello sgabuzzino. Affondava il pennello, di medie dimensioni, nella crema in fondo alla ciotola. Con movimenti abili ed esperti, lo girava in tondo fino ad ottenere una pasta omogenea. Poi copriva il volto nella parte inferiore di quella schiuma e, dopo avere fatto passare il rasoio, cinque o sei volte su una spessa cinghia di cuoio, cominciava la sua opera. Il rumore della rasatura era qualcosa di indefinibile, piacevole e seducente. Era contrassegnato dal suono “r”, qualcosa come rriiss, rriss (come ricorda bene Arturo Barea nel primo libro di LA FORJA DE UN REBELDE).
Il profumo discreto di quella crema, la pace pomeridiana di un paesino, la sferza assolata ormai esausta che lasciava posto ad una sorta di quiete dello spirito, prima di tornare agli affanni quotidiani, erano una dimensione quasi morale più che sensuale. L’impressione era che quella mezz’ora dedicata all’igiene esterna, aiutava a considerare il mondo con un atteggiamento distaccato, lontano dalle cure quotidiane. In quella mezz’ora, il mondo esterno si fermava, esisteva solo la compassata perizia nel maneggio del rasoio, i movimenti esperti e mai bruschi, il suono della radio che trasmetteva canzonette o, data l’ora, la cronaca dell’arrivo di una tappa del Giro d’Italia o del Tour de France.

Questo è il Barachìn, un chiosco-gelateria con tavoli all’aperto, vero punto d’incontro per la cittadinanza, soprattutto d’estate. La fontanella a quattro bracci che dava un apparente senso di refrigerio, era una fonte di ristoro preziosa a chi si trovava a passare da queste parti. Un’acqua che ha dissetato migliaia e miglia di cittadini. Il gelato, poi, era particolarmente apprezzato anche dai paesi limitrofi.

Rumanìn, come noi tutti, data l’età, era un esperto in nulla. Le sue idee erano semplici, mutuate dalle scarse parole del padre e influenzate dalla logorrea di Adriano che, come quasi tutti i barbieri, sapeva come solleticare l’interesse dei clienti, conoscendone le inclinazioni o le preferenze nei vari campi del sapere e del vivere quotidiano. A volte, sfottendo, con moderazione, altre volte provocando la reazione del cliente, sensibile a certe tematiche. Si intavolava così una conversazione, cui spesso si univano gli interventi dei clienti in attesa del loro turno. Il sapere di Rumanìn era una specie di “summa” delle idee che tante volte aveva sentito esprimere, magari in forma elementare e rozza, che rivelavano però, anche ad orecchie poco attente, il nucleo ideologico che ne era alla base.
Di che cosa si interessava Rumanìn? Per un ragazzo come lui, non c’erano particolari preoccupazioni sociali ed economiche. La cosa più importante era il divertimento. Questo consisteva, come per tutti i ragazzi della sua età (o quasi), in una partitella a pallone, giocata magari nella pausa di mezzogiorno sulla spiaggia del “Balutìn”, una sorta di isola sabbiosa formata dalle correnti del Po, le cui acque scorrevano a qualche centinaia di metri dal paese. Il pasto di mezzogiorno era un frugale piatto di minestra o di pasta scotta, rinforzato con una “ricciolina” di pane e un frutto di stagione. La sera poi, era sedersi al caffè, a giocare (o vedere giocare) a carte. D’estate, ci si sedeva all’aperto, ma non sempre era possibile consumare qualcosa, neanche una gazzosa, ai tavolini del bar della piazza, accanto alla fontana, che sembrava portare un poco di refrigerio. Solo i “ricchi” potevano permetterselo. Ragion per cui, al massimo una volta settimana era possibile concedersi il capriccio di un gelatino (il più piccolo) o una bibita povera come appunto la gazzosa.
Ma erano le ragazze il sogno proibito di quasi tutti i ragazzi dell’età di Rumanìn. Sì, ma come avvicinarle? Cosa poteva offrire un ragazzo povero come lui, senz’arte né parte a una donna? Gli avevano parlato, certi amici, di amori consumati in tutta fretta e a pagamento. Ma non era quello che lui voleva. E poi, come giustificare quell’eventuale prezzo di un rapporto mercenario, a suo padre o, peggio, a sua madre? No, la cosa migliore era lasciare perdere certi sogni e dedicare le proprie energie mentali allo sport, alle uscite con gli amici, a qualche “biciclettata” e a qualche nuotata nel Po o in uno di quei tanti canali d’irrigazione che abbondano nella nostra terra.
Nuotare nel Po era la cosa più semplice. Dopo una partitella, giocata a piedi nudi sulla sabbia del Balutìn, cosa c’era di meglio che gettarsi nelle acque del Po per una salutare rinfrescata?
Io non ci andavo quasi mai sul Balutìn. Prima di tutto i miei genitori mi avevano dissuaso, a forza di raccomandazioni e minacce, dal recarmi al Po. Il Po era pericolosissimo e ogni anno si portava via diversi ragazzi che, spericolati, sfidavano le acque infide del grande fiume. Poi non ero abituato a giocare a piedi nudi sulla sabbia. La pelle delle dita, con lo sfregamento contro il pallone e i granelli di sabbia, si rompeva facilmente e sanguinava. I piedi degli altri, invece, sembravano di cuoio e un po’ li invidiavo.
Combattevo l’afa meridiana leggendo qualche fumetto a letto, con le persiane abbassate di quel tanto da lasciar passare un audace raggio di sole, sufficiente a permettermi di leggere. Non avevo sonno e quindi leggevo molto, soprattutto (oltre ai fumetti, è chiaro) romanzi d’avventura per ragazzi e condensati da libri pubblicati da SELEZIONE del Reader’s Digest, una casa editrice ferocemente anticomunista, cui mio zio era abbonato. Io ero però interessato soprattutto ai libri, che pur se condensati, mi facevano viaggiare di fantasia in luoghi lontani e favolosi, oppure solleticavano la mia curiosità con racconti drammatici. Ricordo alcuni titoli come I TESTIMONI DI CERA, OPERAZIONE CICERO, MIA CUGINA RACHELE, PIANGI TERRA AMATA, BUONGIORNO MISS DOVE, IL CAPITANO NEWMAN, L’INTRUSO e tanti altri che non ricordo. Poco a poco mi ero fatto una certa idea di com’era il mondo e questo mi avrebbe aiutato poi a compiere determinate scelte.
Al Balutìn, invece, l’isoletta si riempiva di ragazzi e di grida, intervallate ogni tanto dallo scroscio di qualche tuffo nell’acqua o di rincorse per acciuffare il pallone, finito in acqua per un calcio maldestro. Verso le quindici, il luogo si svuotava e restava solo qualche bagnante, meno giovane, deciso a distendersi e farsi cuocere sulla graticola. Rumanìn, come tutti gli altri, risaliva la riva grazie a un passaggio che si era praticamente formato grazie al continuo andirivieni fra spiaggia e i campi vicini, e si accodava in bicicletta alla fila di giovanotti, lungo il sentiero che portava al paese.
Quanto a me, mi recavo, ogni tanto, al Po verso le 16 o le 17, accompagnato da mio padre o mio zio. Nei ricordi, oltre all’aspetto immagine, gioca un grande ruolo anche quello olfattivo. Ricordo che l’acqua del Po, almeno quella vicino alla sabbia, aveva un odore particolare, un miscuglio di terra bagnata, acqua sporca e fango, che mi è rimasto fino ad oggi e che, quando mi capita di camminare su quella sabbia, di colpo si risveglia e mi assale con tutta la forza delle cose passate e la malinconia di qualcosa di felice per sempre perduto.
Un pomeriggio, stavo giocando a casa di Gilberto, il mio amico, la cui casa era praticamente addossata alla mia. Nel retro di casa sua c’era uno spazio occupato perlopiù da assi di legno addossate alle pareti in modo ordinato in fasci disuguali,  per distinguerle a seconda dello spessore e del tipo di albero. Il padre di Gilberto, Ciro, commerciava in legname ed era contento che suo figlio giocasse con me fra tutto quel legno. All’improvviso, lo ricordo come fosse ieri, arrivò un altro amico e compagno quotidiano di giochi, Giancarlo Sacchi. Aveva il volto serio. In dialetto, ci comunicò che Rumanìn era morto annegato.
Restammo muti, per un po’. Giancarlo non conosceva i dettagli del fatto. E a noi poco interessavano. Poi, dopo qualche momento e senza dire una parola, ci avviammo, tutti e tre, presso il negozio del barbiere. Era chiuso. Feci un ritorno mesto a casa. Mi era passata la voglia di giocare. Comunicai la notizia a mia madre che restò, per qualche istante, interdetta. Tutti, in paese, lo conoscevano. Un ragazzo dalla faccia pulita, sorridente, sempre pronto a tirare quattro calci al pallone. Per un po’, io e Gilberto non ci sedemmo su quella panchina. Per rispetto. Per dolore.

 

Datemi

 

Mamma e Papà, che tenerezza nel vostro sguardo! In realtà, non vi ho mai perso: voi continuate ad essere dentro di me, sempre.

Datemi ancora per qualche ora quelle sere d’estate di quando avevo sedici anni, quel pomeriggio a Mantova accompagnato da mio padre a vedere i risultati scolastici e scoprire che ero stato promosso, quella terrazza aperta d’estate in città, quei pomeriggi estivi trascorsi con mio cugino Bruno, col povero zio Giancarlo e il mio povero papà.

Una delle ultime immagini di mamma e papà con Manu. E’ una domenica, appena usciti dalla Messa e davanti alla Chiesa.

   Ridatemi quelle sere passate in oratorio giocando a ping pong, costruendo un giornalino, quelle interminabili partite di calcio sul campetto.

Ridatemi, anche se per un giorno, la serenità di tornare a casa verso sera, sudato, stanco e trovare mia madre che mi chiedeva di lavarmi e sbrigarmi che la cena era quasi pronta.

Gael con mamma e papà.

 Ridatemi le sere trascorse al cinema estivo, le chiacchierate al bar con gli amici.

Ridatemi le prime emozioni nello scoprire l’universo femminile, il mio cuore pulsare all’impazzata, le pazzie per sperare di far breccia. I pomeriggi a Po, il ritorno in bicicletta fra la vegetazione alta, l’odore dell’acqua stagnante, il sole di luglio, la calma assonnata di un paesino della bassa mantovana, i negozi di barbiere da cui si sentiva la radio gracchiare le fasi conclusive del Tour de France, il profumo delle lozioni dopobarba e per capelli.

Gael e Manu a San Benedetto, aprile 2015.

 Datemi ancora una mezz’ora per ritrovarmi, ragazzino, un pomeriggio mentre ascoltavo la sigla di BALLATE CON NOI, “Delicado”, alla radio, con mia zia e mia madre vicine intente a cucire e rammendare. 

Datemi ancora per qualche momento la visione di un mondo sereno, dei miei genitori che cantavano assieme brani d’opera lirica, le speranze di una vita ancora da vivere, il domani, pieno di possibili piaceri e gioiose sorprese.

Tramonto sul Po, dalle mie parti. Le lunghe passeggiate accanto alla sua riva mi hanno aiutato a riflettere.

 Datemi l’energia vitale di quei giorni, a voglia instancabile di uscire, giocare con gli amici, parlare con loro di tutto. 

Datemi ancora una giornata da trascorrere assieme a mamma e papà; magari per fare una passeggiata assieme, sull’argine del Po. Mio papà, un po’ taciturno ma sempre pronto con una battuta a saldare una tenera unione fatta di rispetto ed amore. Mia mamma, con qualche sua domanda sulla mia fede, sulla mia situazione affettiva, sul mio lavoro, pronta a confortarmi e, all’occorrenza, ammonirmi sui pericoli di mancare la mia vita eterna.

Vista dall’argine del Po. Un paesino, una fuga di case.

 E pensare che ora sono loro ad essersela guadagnata con una vita di rinunce, fatta di semplicità e sobrietà, i valori che, poi, alla fine, contano e tutto il resto sono chiacchiere, vanità, piccole e grandi miserie.

Una processione di pini sotto un cielo chiazzato di nuvole, una stradina che scompare in lontananza. Non so dove siamo. Ma è una foto che è come una metafora della vita.

 Certo, lo so bene che ero pieno di ansie e paure, di complessi e fobie. Ancora non capisco come ho fatto a superare gli esami di maturità, data l’idiosincrasia per la matematica. Gioivo tanto, ma ero come prigioniero di complessi che mi impedivano di comportarmi come tanti amici miei. In loro notavo una sicurezza che io non avevo, una disinvoltura che invidiavo.

Non sopportavo i rimproveri, l’essere messo in secondo piano, il sentirmi inferiore intellettualmente agli altri. Mascheravo con una falsa modestia una rabbia impotente che facevo fatica a dominare. Non volevo propormi come leader per paura di essere contestato, deriso. Preferivo stare un passo indietro e bruciavo di rabbia impotente nel vedere che altri ottenevano quel che io avrei voluto.

Il Brenner Express. Venerdì alle 18 partenza da Roma. Arrivo a Ostiglia verso le 23. Papà ad attendermi. Poi a casa

 Spesso preferivo stare solo, nella mia camera, a leggere, che uscire e confrontarmi con gli altri. Spesso mi sentivo inadeguato, ingenuo e sentivo gli altri deridermi e allora mi chiudevo in me stesso e tenevo tutto dentro di me. Non avendo vissuto esperienze con l’altro sesso o relazioni mature con gli altri, quando scoprii l’amore, mi comportai da bambino, senza riflettere, accecato dal sentimento e obnubilato dalla passione. 

Malgrado queste mie debolezze, queste mancanze, questi limiti caratteriali, culturali ed intellettivi, la mia infanzia è stata, tutto sommato, felice. Felice perché sono stato amato e questo è stato il regalo più bello. Felice perché i valori autentici li ho vissuti così senza accorgermene e perché, conoscendoli, non mi è stato difficile praticarli né raggiungerli.

A Salamanca con il mio grande amico Santiago Blázquez. Un’amicizia cominciata nel 1970 a Madrid!

 La mia terra, ad un certo punto, mi stava stretta, è vero, come è logico che sia per un ragazzo che vuole scoprire il mondo. Ma sono contento perché, dopo aver scoperto gli spiragli del mondo, sono tornato alle nebbie, al grigiore atmosferico dei posti miei natali.  

Ricordo quando il venerdì pomeriggio, lasciato il lavoro, prendevo il mio treno, il Brenner Express che partiva alle 18. Quando arrivavo a Bologna, sentivo che l’aria era la mia, quella che conoscevo. Alla stazione di Ostiglia, ancora prima di scendere, vedevo un ometto, sotto la tettoia, in piedi, che mi aspettava, mio papà, il mio caro piccolo e immenso papà, di poche parole, di grande generosità, semplice, bonario, talvolta sanguigno, sempre leale e pronto ad accoglierti, da figliol prodigo ed offrirti il vitello grasso. 

Scendevo, lo abbracciavo, salivamo sulla piccola utilitaria ed arrivavamo a casa ormai a tarda ora, oltre le 23. Entravo in casa e sentivo l’odore tipico di casa mia. Ogni casa ha un suo odore. Ora che non ci sono più i miei, l’odore si sta a poco a poco perdendo ed è come se stessero per morire una seconda volta.

Laillé (Francia). 2015. William, al matrimonio di Manu e Peggy.

 

Ridatemeli quei momenti, per favore.

 

Pubblico e privato

 

A volte, capita che ricordando un film, ci colpisca una scena, un’immagine o una sequenza per motivi che esulano dal film stesso e che, invece, faccia riaffiorare ricordi di vita vissuta, esperienze personali. Questi ricordi, poi, si affacciano prepotentemente ogni volta che pensiamo a quel film al punto da diventare quasi parte integrante del film stesso, quasi una sorta di montaggio ulteriore a posteriori realizzato da noi stessi.

Uno di questi film è LA LUNGA NOTTE DEL’43 di Florestano Vancini. E’ nota la trama così come i fatti storici legati a quel periodo, uno dei più lugubri e tragici della nostra storia recente.

Cambiano i nomi, ma la sostanza rimane la stessa. Il regista trae il suo racconto dal noto romanzo di Giorgio Bassani (Una notte del ’43)facendo sua una possibile interpretazione della strage di civili operata da una squadraccia fascista a Ferrara, proprio accanto al muretto che divide la strada dal fossato che circonda il Castello Estense.

Lasciando da parte la storia amorosa fra il protagonista, Gabriele Ferzetti e Belinda Lee, collante del racconto, il nodo centrale del film è la situazione politica all’interno del partito fascista a Ferrara. Da un lato, il federale, Bolognesi (in realtà era Igino Ghisellini), uomo del compromesso e del dialogo. Dall’altro, Aretusi (Gino Cervi), fascista fanatico e deciso a liquidare una volta per tutte l’ala moderata e ristabilire con forza il fascismo più duro e autoritario, fedele al Patto d’acciaio con i nazisti e contrario ad ogni politica di conciliazione o apertura.

 

Non sono state ancora definitivamente chiarite le modalità che portarono all’assassinio di Bolognesi (Ghisellini),(anche se ai più, secondo diverse testimonianze post-belliche, pare più probabile la pista partigiana) ma Vancini avanza l’ipotesi, avanzata da Bassani e non solo, della resa dei conti fra fascisti, con Aretusi che organizza il delitto del federale.

Aretusi, con questo gesto, ottiene due risultati: da un lato, l’eliminazione del suo principale avversario politico e di alcuni maggiorenti ferraresi, contrari al fascismo, dall’altro il suo ritorno alla guida del partito a Ferrara e la conseguente politica fatta di vendette, caccia spietata agli antifascisti e supina condiscendenza nei riguardi dell’alleato germanico.

Dando infatti la colpa del delitto del federale a elementi partigiani, scatena la violenta reazione di una squadraccia, proveniente da Verona (dov’è riunito il congresso fascista), che giunta a Ferrara, rastrella alcuni noti personaggi antifascisti e li fucila.

Questo film, forse il più riuscito del bravo regista ferrarese, che ho avuto l’onore di intervistare personalmente anni fa, è da apprezzare per diversi motivi: il felice inserimento di temi personali in vicende dal valore storico e pubblico, l’ambientazione (anche se, incredibilmente, gran parte delle scene vennero girate in studio a Roma, dove si ricostruì perfettamente il Castello), la tensione drammatica sempre più angosciante.

Ma la scena che più mi è rimasta impressa, parlo di diversi anni fa quando ero ancora studente, è stata quella finale.

E’ una domenica di maggio del 1959 (o 1960): sta arrivando un’automobile proprio in pieno centro città. Fa caldo. Molti avventori sono seduti sotto i portici ad ascoltare la radiocronaca di una partita di calcio. Si tratta di Inghilterra-Italia del 6 maggio 1959, (finita 2 a 2). L’Italia sta perdendo dopo il primo tempo per 2 a 0. Un signore corpulento(superbamente interpretato da Gino Cervi), di una certa età e in maniche di camicia, comincia a inveire contro i nostri calciatori colpevoli di scarsa combattività e di poco coraggio e fa riferimento ai tempi in cui i giovani erano di ben altra tempra. La macchina da presa si avvicina e scopriamo che si tratta di Aretusi. Intanto, dalla macchina scende il signore che è appena giunto in città. Non è solo: c’è una signora con lui, sua moglie. E’ Franco, il protagonista del film, venuto per cercare Anna (Belinda Lee) che non vede dal 1943. Si avvicina al muretto con la lapide che ricorda la strage in cui morì anche suo padre. Gli si avvicina Aretusi, il quale, dopo un momento di incertezza o imbarazzo, gli porge amichevolmente la mano. Gliela stringe. Poco dopo, quando sua moglie gli chiede chi sia, risponde dicendo che si tratta di un ex capoccia del fascismo locale, ma che non ha mai fatto nulla di male.

E’ un finale che mi ha sempre colpito e continua a colpirmi. Da un lato, la straordinaria ambientazione in esterni, che rappresenta a meraviglia la quotidianità di una città ormai più di 60 anni fa. Dall’altro lo stupore nel vedere come un autentico criminale continui ad agire indisturbato, con la spudoratezza di sorridere amichevole al figlio di colui che ha contribuito a far uccidere. Come chiamare questo gesto di Franco? Volontà di dimenticare? Spirito di conciliazione? Quieto vivere? Vigliaccheria? Non lo so. Quel che so e che mi ricordo perfettamente certi personaggi, nella mia prima giovinezza, seduti al bar a pontificare ed inveire contro un governo imbelle, la democrazia malata e una gioventù smidollata. E tutti zitti. Nessuno che si prendesse la briga di rispondere. E loro, incoraggiati da quel silenzio, continuavano a blaterare.

Li ricordo come se fosse ieri e qui entra in ballo la mia giovinezza. Io li conosco quei pomeriggi primaverili o estivi domenicali sotto i portici. Ancora non c’era la tv, ma la radio gracchiava e i tavolini della terrazza erano già quasi tutti occupati. Alcuni avventori giocavano a carte, altri ascoltavano la partita, altri spettegolavano, altri ancora sorseggiavano una bibita o il caffè. Alcuni, tra i più anziani, avevano il capo reclinato sul davanti e beatamente dormivano. L’aria mite, non ancora resa torrida dal sole estivo cocente, aiutava la gente a restare seduta e a trascorrere pigramente un paio d’ore, prima di fare qualche “vasca” su e giù per i portici, a guardare le vetrine e a salutare.

E’ questo doppio aspetto che mi ha sempre fatto amare questo film. Da un lato, la tragedia umana di un intero Paese e dall’altro la quotidianità nei suoi aspetti più autentici, quasi minimali, quelli che Giorgio Bassani sa interpretare a meraviglia nelle sue storie ferraresi. L’odore del fieno che ti assale mentre sei a un funerale, il treno pieno di studenti che si prende ogni giorno per andare da Ferrara a Bologna, l’apparire improvviso di un airone nascosto dietro le sterpaglie del Po, il muro di cinta oltre il quale c’è il parco dei Finzi Contini. A volte, il quotidiano diventa storia (o intra-historia come scrive Unamuno), a volte diventa poesia. Altre ancora suscita nostalgia di un bellissimo tempo che fu e che vorremmo invano rivivere.

 

Ricordi di chierichetto

 

Averte faciem tuam Domine a peccatis meis et omnes iniquitates meas dele

Non ero particolarmente bravo a fare il chierichetto. Mi distraevo facilmente. Non capivo al volo quello che mi si diceva. Ero un po’ imbranato, ecco.

Non so perché. Quello di non capire al volo è sempre stato un handicap per me. Ho sempre avuto bisogno di chiarimenti, di seconde battute, purtroppo. Che invidia per quelli che capiscono tutto e subito!

Avrò avuto nove o dieci anni quando ho indossato le vesti del chierichetto. Si trattava di una tonaca nera con molti bottoni sul davanti e di una veste bianca col pizzo che mettevo sopra la tonaca. Si trattava di assistere il sacerdote, parroco o curato che fosse, alla Messa e a tutte le altre funzioni religiose: funerali, matrimoni, rogazioni, vespri, novene ecc.

Si cantava e pregava in latino soprattutto. Non ci capivo nulla, ma ero riuscito a mandare quasi tutto a memoria, al punto che, diversi anni dopo, durante gli esercizi spirituali a Cerlongo, un paesino del Mantovano, alcune suore si erano meravigliate che sapessi così bene tutti quei versi. La memoria non mi faceva certo difetto.

Ma subivo, più che partecipare. I miei, soprattutto mia madre, vollero che facessi il chierichetto ed io ubbidivo. Anche se a volte c’era da alzarsi presto per servire la messa delle 7, finita la quale, tornavo a casa, prendevo la cartella e me ne andavo a scuola.

Cosa ricordo? Tante piccole cose. La cameretta dove appendevamo agli attaccapanni le nostre tonache (eravamo una decina, circa). Oppure la figura del parroco, don Angelo Panizza, un prete pre-conciliare austero e profondo, anche se dichiaratamente e visceralmente anti-comunista, un sacerdote all’antica, pronto a riprendere verbalmente e ad alta voce, in chiesa, una donna senza velo in testa o a maniche scoperte. La nostra chiesa, un edificio in stile Rinascimento, ha una navata centrale e due, più strette, laterali. Lo spazio dell’altare è diviso dall’altare stesso. Sul davanti, proprio di fronte ai fedeli, si trova, al centro, l’altare e, ai lati due file corte di scranni. Su quello di destra, guardando l’altare, ci sono cinque scranni, con al centro, quello riservato al sacerdote. Sull’altro lato, di fronte, altri cinque scranni, riservati ai chierichetti.

C’è pure, sulla parte sinistra della navata centrale, un pulpito che ora non più, utilizzato, dove, tanto, ma tanto tempo fa, saliva il parroco o un predicatore, in corrispondenza di solennità religiose.

Ho un vago ricordo di quei predicatori, dalla voce potente e dalla retorica facile. Una retorica che è sempre stata uno dei talloni d’Achille di questo Paese, prediletto dal cielo per bellezza paesaggistica, personalità eccellenti ma maledetto dai demoni della superficialità e dall’individualismo becero e strapaesano.

Nella navata centrale ci sono due file di banchi di legno, lunghi ciascuno circa quattro metri, composti ciascuno da uno schienale e da un inginocchiatoio. Si appoggiavano i gomiti sull’asse che correva per tutta la lunghezza del banco, e su cui generazioni di giovani avevano inciso nomi e disegni.

Una fila, quella a sinistra, era riservata alle donne. La destra, agli uomini. Con il passare degli anni quest’usanza è andata via via scomparendo, ma non del tutto. Ancora oggi, molti uomini non si spostano mai sulla fila delle donne e viceversa. Come ho detto poco fa, i giorni feriali erano scanditi dalla messa delle 7 e dal rosario pomeridiano. Il giorno festivo prevedeva tre messe.Una alle 7, la seconda alle 9, detta messa del fanciullo. La terza, chiamata messa cantata, era alle 11 e prevedeva la presenza dei confratelli: una decina circa di uomini attempati che portavano una tonaca e una candela e si sedevano nelle prime file. La messa era appunto cantata, in gregoriano, credo. Durava un po’ di più ed era frequentata dagli adulti.

La domenica mattina, il negozio di alimentari dei miei genitori era aperto, per cui essi assistevano alla Messa delle 7. Ricordo che quando tornavano, sentivo spesso mio padre che ripeteva salmi o inni appena cantati alla messa: mi svegliavo così e ne ero contento. Significava che c’era pace in casa e tutto stava andando bene.

Il pomeriggio della domenica c’era la funzione religiosa dei Vespri. Ma prima, alle 14, o alle 14.30, non ricordo bene, si andava a dottrina. Consisteva in una lezione di catechismo tenuta da un giovane del luogo e poi nella benedizione. La lezione veniva tenuta in differenti stanze, a seconda della classe frequentata. Ovviamente, per ogni gruppo c’era un catechista diverso. Durava circa mezz’ora. Anch’io, per un certo periodo, sono stato catechista. Alla fine del catechismo, si andava tutti insieme in chiesa, per la benedizione, che era poi il canto di alcuni salmi con benedizione finale. Ricordo che eravamo in tanti. Cosa, oggi, impossibile.

Finito il catechismo, mi precipitavo, con qualche amico, al campo sportivo, dove giocava la squadra locale. Arrivavamo sempre con mezz’ora di ritardo, a causa del catechismo, ma non era poi così importante.

Alle cinque, come ho detto, c’erano i Vespri. Essi consistevano in una serie di canti, un sermone e, infine, la benedizione.

D’estate, alla fine del vespro, attraversavo la strada principale ed andavo a sedermi ad un tavolo libero presso la terrazza del bar Barachin, già affollato.

Con i miei amici, passavo così una mezz’oretta a parlare, fantasticare e gustare un cono gelato o una bibita.

Passeggiavamo poi su e giù per il paese ed incrociavamo le ragazze, che salutavamo, lanciando qualche battuta scherzosa e mai pesante.

Era difficile passeggiare singolarmente: significava che si era fidanzati. Si usava passeggiare in gruppo, ragazzi e ragazze, quando già si era alle scuole superiori.

Chierichetto, un po’ lo sono rimasto sempre. Ancora oggi, quando sento bestemmiare, mi trovo a disagio e ancora oggi, quando mi trovo all’estero o in una città fuori dalla mia provincia, quando passo accanto a una chiesa, sento il desiderio di entrarci e sedermi, in silenzio, in uno degli ultimi banchi per riflettere su me stesso e la mia fede, sempre più messa a dura prova. Il silenzio all’interno dell’edificio mi suscita un senso di pace interiore e un vago sentore di cose passate, di ricordi quasi sopiti, di dubbi e conflitti interni mai del tutto risolti.  Sollevo allora lo sguardo verso quel crocefisso immobile, immutabile, silente e, pure, così misterioso ed eloquente.

Quando esco e vengo accolto dal frastuono urbano, mi pare di riaffacciarmi sul quotidiano, libero, affrancato dalle dure costrizioni della mia morale, ma presto consapevole che la mia libertà è qualcosa di indefinibile, inafferrabile, indicibile, qualcosa che nel momento in cui la esprimo, è già parte e non tutto. Essere cristiano, ma non esserlo come comunemente si pensa. Impegnarsi, ma non sentirmi legato. Geloso dei miei spazi, della mia intimità, in pace con tutti e col mondo, ma non disponibile a spendermi in modo autentico, così disinteressato, come se, essendolo, venissi a perdere quel senso di libertà che mi appaga, pure se in parte.

“Male” direbbe, mi par di sentirlo, il buon don Angelo Panizza. “Che cristiano sei? Esci dal tuo egoismo e impegnati! Dà, senza se e senza ma”. Caro don Angelo, mi sembra di rivederti, sorridente ma anche austero e grave. Lasciami essere così come sono, lasciami essere anche un po’ egoista: è quel che mi permette di essere cristiano senza pentirmi di esserlo. Non aspiro ad essere santo, ma solo a sentire il piacere di sentirmi cristiano, proclamarmi tale e praticare la mia fede nel modo a me più congeniale. Dammi una carezza, don Angelo, come quelle che solevi darmi quando ti ero vicino, come chierichetto, durante i riti religiosi.

 

 

 

 

Musica nella notte

 

 

Tutto intorno tace. E’ tardi. La buona gente dorme, riposa: domani sarà un giorno come gli altri. Si torna al lavoro, chi il lavoro ce l’ha. E’ un momento speciale. Per coloro che non andranno a lavorare, si tira tardi. Si sta fuori, al bar, a giocare a carte, a biliardo. Altri restano in casa a guardare la tv. Altri ancora, soprattutto i giovani, ascoltano la radio. La radio. Soprattutto musica. La musica, di notte, non è come ascoltarla di giorno. Non è per i rumori intorno, per la luce del sole, per le voci che si odono, gli inviti di mamma a fare un determinato lavoro. E’ il suono che è diverso.Un suono più intimo, forse malinconico, pur se la musica è allegra. E’ un suono che senti amico e che ti invita a pensare. Agli amori che furono. Ai tempi della gioventù, quando la radio era lo strumento di intrattenimento principale. Alle serate passate ad ascoltare canzoni vecchie e nuove, nel lettino della mia stanzetta, non ancora tardi e autorizzato quindi a concedermi quel piccolo piacere che era l’ascolto.

E fantasticavo. La radio è come un libro: ti invita a pensare, immaginare, vivere esperienze nuove, diverse dal tran tran quotidiano. E galoppavo sull’ippogrifo della mia immaginazione e inventavo viaggi, avventure, amori .Il tipo di suono mi rendeva ora malinconico, ora allegro, ora triste, ora felice. Mettevo il volume molto basso e così mi sembrava di essere in un campo aperto, in piena notte, in un silenzio quasi irreale. Più in là vedevo case, alcune delle quali con una finestra illuminata. Chi c’era là? Qualcuno magari che ascoltava la radio come me. Oppure qualcuno intento a leggere o a terminare un lavoro urgente. Oppure qualcuno che stava male ed era assistito da un familiare o da una persona amica.

Ricordo ore intere all’interno di un’auto a fare l’amore o parlare, parlare, parlare di mille cose, mentre la radio suonava. Oppure ricordo serate in un camping francese ad ascoltare la radio sdraiato sul lettino d’un camper mentre, in cielo, una luna piena chiara mi aiutava a distinguere le tante sagome che avevo attorno.

Quella stessa luna piena che anni prima, sul Costa del Sol, mi accompagnava affacciato al finestrino per essere schiaffeggiato da un’aria finalmente fresca, mentre, nello scompartimento, già dormivano beatamente i miei compagni di viaggio ed io, insonne, ascoltavo la radio. Erano passate più di due ore da quando avevamo lasciato Malaga e la tristezza di lasciare l’Andalusia era acuita da canzoni tristi e dalla prospettiva che pochi giorni dopo sarei tornato ad un lavoro ingrato. Era come se io e quella musica fossimo un tutt’uno. Come se quella musica capisse la mia tristezza e cullasse la mia insonnia.

Oppure, era una stanza della residenza per studenti a Verona. I miei compagni di camera erano usciti. Si era in tempo d’esami, le lezioni all’università erano finite. Preparavo gli esami di giorno, ma quella sera avevo preferito ripassare alcuni argomenti su cui non mi sentivo del tutto sicuro. Poi, stanco, e chiuso il libro, mi sdraiavo sul lettino con la radiolina accanto, a volume basso. Le finestre erano aperte ed udivo le auto, qualche passante, qualche voce di ragazzi allegri. La musica mi ricordava casa. Terminati gli esami, sarei tornato a casa. “I meridiano ozi delle aie”, le serate con gli amici all’aperto, sulla terrazza del bar, a progettare viaggi, avventure, le passeggiate mattutine sull’argine maestro del Po ad annusare l’aria fresca di una giornata serena.

La radio. E il desiderio di vivere anch’io quegli amori appassionati, il timore di amori disperati, la speranza di un futuro sereno, tra lavoro e famiglia. E la presenza amica dei miei.

Oppure ancora, la radio in una piccola camerata di una caserma senese ai tempi del mio servizio militare. La ascoltavamo il sabato verso sera, terminate le corvés e i servizi: ci preparavamo ad uscire e lustravamo le scarpe, ci lavavamo e pettinavamo a dovere, pronti a uscire per andare a cenare in qualche pizzeria del centro. Eravamo fanciullescamente felici di sapere che poco dopo saremmo usciti e ci saremmo divertiti, io e i miei compagni modenesi, reggiani, veronesi, bresciani. Istintivamente ci cercavamo per udire l’inflessione così cara e ci scoprivamo vicini, quasi rasserenati sapendoci provenire da terre vicine. La radio trasmetteva canzoni alla moda e, scioccamente, ci immaginavamo tra poco, borghesi, senza uniforme, a spasso per la città come tutti.

Ora, giunto alla soglia dei settanta, la musica è troppo spesso fonte di ricordi. Cosa facevo quando ascoltavo questa canzone? Dov’ero quando ne suonano un’altra? Se poi aggiungiamo che ormai mi sento privato di qualsiasi motivo di ottimismo, la frittata è completa.

Ma se mi limito all’ascolto notturno della musica, che è poi il tema di queste riflessioni, devo dire che trasmettono canzoni nuove e questo non mi dovrebbe indurre al ricordo. Purtroppo, ciò che succede è che è il fatto stesso di ascoltare la musica di notte che mi spinge a ricordare.

La musica ha il potere di entrare subito in circolo, riesce infatti a toccare punti del cervello tali da liberare endorfine che agiscono subito. La notte, inoltre, contribuisce a concentrare l’attenzione sulle note e a indurre a un certo rilassamento.

Eppure, nonostante tutto quanto ho scritto, riesco ancora a immaginare possibili incontri, romantiche emozioni, o magari immagino come sarebbe cambiata la mia esistenza se un determinato avvenimento fosse andato in un modo piuttosto che in un altro.

Se quella relazione fosse continuata e cresciuta? Amavo quella donna. Immaginavo un futuro radioso accanto a lei. Il suo rifiuto mi ha privato di un’esistenza magari felice. Cos’è la nostra vita allora? Un accidentato percorso che va ad esclusioni: rifiutato da una persona, impossibilitato a proseguire gli studi per la morte del padre, escluso da una carriera universitaria perché respinto ad un concorso, tagliato fuori da un trasferimento in un’altra città perché la sostituzione di colui che me l’aveva proposto con un altro dirigente era saltata e così via. Come in un flipper, la nostra vita rimbalza in più occasioni contro circostanza favorevoli e sfavorevoli che disegnano una via, un percorso che all’inizio poteva avere mille direzioni e mille destini diversi.

Ora, la musica notturna mi ricorda che sono qui, che questa è la realtà vera, che tutto il resto è passato, che le mie decisioni sono state prese, che il caso e mille altre variabili mi hanno condotto qui, davanti a questa radio.

Però è lecito pensare che ora sarei potuto stare in un altro luogo, accanto ad altre persone, in una condizione migliore. Ma è pur vero il contrario. Potrei addirittura non esserci più su questa terra.

La riflessione sul mio essere qui e ora mi conduce ad accettare ciò che sono, con un pizzico di rimpianto per ciò che sarebbe potuto essere e non è stato.

Ma il concetto basilare è : cosa ho fatto della mia vita? Come l’ho vissuta? L’ho buttata via tra stupidaggini, superficialità, vanità, oppure l’ho costruita poco a poco con sacrificio, altruismo, cosciente che la vita che ci è stata data è una e una soltanto e che a nulla varrà rimpiangere quando sarà troppo tardi. Che senso hanno i miei quasi settanta anni? Alcuni miei compagni di scuola che se ne sono andati tempo fa, avrebbero certo desiderato vivere qualche anno in più, se non altro per spendere qualche goccia di vita in più nei modi a loro più congeniali.

Mentre la musica continua a suonare, penso che anch’essa mi ha spesso allontanato dalle riflessioni profonde, dal senso vero della vita, invitandomi invece a dedicarmi a sognare sciocchi piaceri effimeri. Quel mio amico, ad esempio, che è passato a miglior (?) vita dopo aver faticato come una bestia nei campi, o quell’altro che ha dedicato gran parte delle sue energie in un continuo turbinio di avventure sessuali, fino a divenirne vittima. O quell’altro ancora, tutto preso ad accumulare beni, proprietà, conti bancari, salvo poi andarsene all’improvviso, lasciando tutto a una manciata di eredi scialacquatori e dissoluti. Ma forse io non sono meglio di loro.

 

La mia terra

La mia terra è piatta come un biliardo. Nei pochi giorni in cui l’aria è tersa e non sporcata dall’umidità e dallo smog, è possibile scorgere a nord le prime montagne veronesi (il monte Baldo, ad esempio), ma tutto il resto è piatto, piano e la vista si perde verso l’infinito. Tuttavia, a differenza del paesaggio della Castiglia, così come scrive Unamuno, il cielo non è così terso ed azzurro e, soprattutto il paesaggio nostro non è arido e secco. La nostra è una terra grassa, fertile, e le tentazioni “terrene” qui si mescolano con la sanguignità della gente. E’ una terra piatta che non è quasi mai banale. Il nostro Po è come una linfa vitale che irrora i nostri campi e dona loro un’energia che, sopita durante i lunghi inverni freddi, si sprigiona poderosa ed innerva sapientemente le nostre zolle che lentamente sciolgono la loro durezza e diventano poco a poco ora tenere e sabbiose, ora riluttanti, svelano la loro intima essenza argillosa.

Non è mai banale, perché qui secoli di storia hanno visto interminabili file di instancabili braccianti modellare intere aree, erigere argini maestosi, scavare canali irrigui, dissodare ettari di terre vergini, drenare immense distese paludose rendendo alla fine questa terra una delle più fertili al mondo e un autentico Eden di “nourritures terrestres” i cui frutti sono vanto per l’intero orbe.

Qui era terra di teste matte, originali e geniali, di passatori cortesi, di capipopolo ardenti, di corridori, piloti, scrittori, poeti, meccanici intraprendenti, gaudenti prigionieri delle loro passioni, schiavi del lavoro, eccetera eccetera.

Da qui partirono i miei avi, conterranei, per recarsi a Roma: Virgilio, in primis e poi tanti altri.

In una terra divenuta troppo stretta, Roma diventava l’emblema del mondo. Florestano Vancini, quando gira “Le stagioni del nostro amore”,immagina il ritorno alla propria terra come un ritorno all’autenticità, alle proprie radici, quelle che non possono tradire, quelle che rimangono i punti di riferimento del nostro essere, così come accade con Bevilacqua quando immagina il ritorno del protagonista di “Questa specie d’amore” nella terra parmense, e così come, ma solo per certi aspetti, Bertolucci ne “La Strategia del ragno”.

L’autenticità è un po’ la faccia nobile della dignità. Io sono fiero di essere nato qui, in un paesino della bassa padana mantovana e sono quello che sono grazie a quel che ho ricevuto e vissuto qui.

Le nostre estati sono ricordi di un’età dell’oro. Nei nostri ricordi, il cielo è sempre stato azzurro, i colori vivaci, le case pulite, le persone amabili. Abbiamo scacciato i brutti ricordi e le dolorose esperienze e i nostri genitori sono qui davanti a noi e ci sorridono.

I nostri inverni sono grigi, freddissimi, colmi di neve e nebbia, ma all’interno delle case, il tepore della stufa, l’odore del cibo, il profumo del bucato appena lavato ed asciugato, la fragranza del pane fresco e caldo, il rosso rutilante della salsiccia umida e trasudante grasso e il giallo corposo della polenta appena rovesciata sull’asse di legno accanto al camino o alla stufa. In camera da letto, il freddo intenso veniva mitigato dal benessere che invadeva il nostro corpo appena sotto le coperte, entro cui era stato sistemato uno scaldino che accoglieva le braci.

Ricordo le case coloniche d’estate, con le aie assolate e lucenti, i muri con le finestre socchiuse per impedire l’assalto del sole. Tutto mi è familiare e tutto mi dà una sensazione di benessere e di pace. Quelle case le ho visitate, ho bevuto il vino forte di quelle viti, ho stretto le mani grosse e poderose dei loro abitanti, ho mangiato il pane e salame offertimi, ho scambiato impressioni e pareri con loro.

A questo proposito, sento l’impulso di ricordare quegli straordinari versi di Antonio Machado:

[…]Y no conocen la prisa /ni aun en los dias de fiesta/Donde hay vino beben vino/donde no hay vino agua fresca/Son buenas gentes que viven/laboran, pasan y sueñan/y en un dia como tantos/ descansan bajo la tierra.

Rivedo gli attrezzi agricoli, sento il muggito di file ordinate di mucche scandito dallo sferragliare delle catene, i vecchi intabarrati nelle sere d’inverno avvolti in una nuvola di fumo del loro toscano. Sento il freddo umido e pungente della nebbia di gennaio, l’incenso della chiesa durante il vespro domenicale, il fumo acre e fastidioso delle osterie, il crepitio dei ciocchi nel camino, l’odore pulito della notte, il profumo pesante dei calendarietti del barbiere sotto Natale, le budella dei maiali lavate da mio zio dentro una bacinella che ammorbavano la cucina per tutta la sera, il tepore del letto che mi accoglieva bambino nella mia stanza gelida.

 

Rieccomi bambino che, durante la piena del 1951, accompagnato da alcuni familiari sull’argine, metto la manina nell’acqua, una distesa immensa, minacciosa e terribile che in me risvegliava solo curiosità.

Rieccomi chierichetto che, alle 6 di mattino, percorre i campi nel mese di maggio assieme al parroco e a due file di fedeli per recitare le “rogazioni” (A peste, fame et bello, libera nos Domine. Ut fructus terrae dare et conservare digneris, te rogamus audi nos).E alla fine, uno spuntino presso una casa in piena campagna, a base di pane, salame e vino rosso di quello buono.

I campi, la campagna, “li cavdagni”, le bestie nella stalla, il foraggio, l’irrigazione, l’aratura, la semina e il raccolto. Cos’è cambiato dai tempi di Virgilio? Tanto, certo. In termini materiali, forse. Della mentalità contadina antica molto è invece rimasto: l’accumulo, l’acquisto di altra terra, il lavoro duro, continuo. In termini sociali, molto è cambiato: ora gli agricoltori possiedono la propria terra, anche se la vecchia mentalità impedisce in buona parte di usufruire degli agi e delle comodità cosiddette superflue. Il vecchio contadino può essere anche giovane, ma i vecchi vizi, le vecchie tradizioni e spesso superstizioni e pregiudizi, sono duri a morire.

 

Ora, la mia terra è una specie di oasi pacifica che cammina in un mondo che corre. I giovani trovano lavoro in città, oppure a Milano, oppure ancora molto più lontano. Portano la loro mentalità là dove vanno a vivere ma più spesso assorbono quella di fuori e, tornando nella loro terra, sempre meno sopportano il nostro vecchio stile di vita. Forse hanno ragione loro. Forse non siamo più all’altezza dei tempi. Forse puzziamo troppo di campagna, di superato, di vecchio. Tuttavia, quando mi trovo sull’argine che costeggia il Po e vedo, da lontano, il nostro campanile e i tetti, penso all’immane fatica di chi ha eretto quegli argini, rendendo più abitabile il nostro paese, ai sacrifici, alle privazioni di coloro che, generazione dopo generazione, hanno edificato Sustinente e tutti i villaggi della Bassa, di chi, senza poter ricevere un’istruzione adeguata, senza risorse, spesso umiliati e offesi, sono riusciti a vivere onestamente, dignitosamente, decorosamente, dando a noi tutti la possibilità di vivere in prosperità e nel pieno dei nostri diritti di cittadini liberi.

 

E, a volte, quando mi trovo tra estranei, o addirittura all’estero, non esito a rispondere, quando mi viene chiesto di dove sono, “Sono italiano, nato in un piccolo paese della provincia di Mantova, Nord Italia, di nome Sustinente” e ne vado fiero.

 

Il suono delle campane

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Avevo tredici anni. Mi trovavo in macchina con un prete e un autista. Ero stato cacciato dal collegio salesiano di Legnago perché ero un po’ troppo discolo. Avevano caricato sull’auto le mie valigie e stavano riportandomi a casa. Eravamo ai primi di febbraio del 1960.

Giunti ad Ostiglia, udimmo le campane. Era l’Angelus e quindi erano le 18 Risultato immagine per Borghi toscana umbriacirca.

 

A quel suono, l’autista, che non sapeva nulla della mia espulsione, esclamò: “Ah, le campane! Quando le sento, si muove qualcosa dentro di me”.

A 13 anni, non potevo conoscere l’effetto delle campane. E’ una questione di età, di esperienze, di sensibilità e di educazione religiosa.

Mi è capitato, tanti anni dopo, di passeggiare per un borgo toscano, uno di quei borghi dove l’aria che respiri è uno strano composto di storia, religiosità, artigianato d’eccellenza. Era un tardo pomeriggio d’autunno. I miei passi risuonavano sul selciato di uno dei tanti vicoli, così numerosi in quel borgo.

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Tra poco, con i miei amici, avremmo concluso la nostra visita al villaggio e avremmo fatto ritorno a Roma.

Già cominciavo a pensare al viaggio in auto, al traffico in autostrada, all’ora tarda alla quale saremmo arrivati a casa.

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D’un tratto, inaspettato, giunse il suono delle campane. Una lunga scampanellata che mi penetrò nella parte più intima.

In quel suono riconobbi la mia infanzia, il volto dei miei cari, il profumo d’incenso dei turiboli all’ora dei vespri, la quiete del mio paese natale, il senso profondo della mia religiosità.

I miei amici passeggiavano accanto a me e si soffermavano ogni tanto a contemplare un paesaggio che si apriva improvvisamente davanti a noi, oppure ad ammirare uno scorcio interessante, un monumento. In loro c’era interesse, ma dentro di me non c’era solo quello. C’era uno sconvolgimento interiore che mi distaccava quasi dal luogo dove mi trovavo e mi proiettava lontano. Era una sensazione che non potevo definire “tout court” nostalgia; era piuttosto un senso di pienezza interiore e, al tempo stesso, una condizione che non sentivo più mia e che avevo inesorabilmente perso.

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Era come rivivere i momenti più belli della mia vita in pochi istanti. Era come toccarli con mano, sapendo che non erano più reali, come se mi fosse dato, grazie a una concessione superiore, di assaporare senza gustarle rivivendole, esperienze di pace, serenità ed intensa spiritualità.

Mi ero fermato in quel vicolo, sull’acciottolato così caratteristico di tanti borghi toscani ed umbri. Con un po’ di concentrazione, riuscivo ad udire suoni provenire dall’interno di qualche casa. Poteva essere il gracchiare di una radio, la trasmissione di una partita di tennis in tv, o il tintinnio di qualche posata e di piatti che qualcuno, da qualche parte lì vicino, stava governando.

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Tutt’intorno c’era vita, magari annoiata, magari abitudinaria. Tutti sembravano intenti a qualcosa di quotidiano. Gli stessi amici miei li vedevo un po’ distratti. Si scambiavano qualche frase, qualcuno parlava già del ritorno a casa o del giorno dopo.

Io invece ero come trasognato. Quei rintocchi chiari, regolari, erano come una chiamata. Non era più un susseguirsi di ricordi. Ma era ora un interrogarsi su chi ero, e che cosa facevo. Come se avessi disperso, con gli anni, un tesoro di insegnamenti, di buone intenzioni, di promesse e mi venisse chiesto all’improvviso, là e in quel momento, di rendere finalmente conto del mio operato.

Immancabilmente, posto di fronte alla coscienza, mi sentivo inadeguato, carente, consapevole che la mia vita stava fluendo, trascorrendo e che gli appigli di ciò che ritenevo sicuro (l’amore dei miei genitori, l’infanzia felice, il conforto della fede) erano sottoposti a dura prova.

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Che ci facevo io là? Chi erano veramente quelle persone con cui mi trovavo e che troppo superficialmente chiamavo amici? Le scelte di vita che avevo compiuto erano dettate da riflessione seria o piuttosto da decisioni prese troppo alla leggera, spinto da elementi scivolosi, friabili e fragili come certi sentimenti che credevo profondi, certi desideri spacciati forse per sacrosanti diritti ed empito di libertà ed indipendenza.

D’un tratto, altrettanto bruscamente di come erano iniziati, i rintocchi cessarono.

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Per qualche istante, si librò nell’aria l’eco degli ultimi suoni. Poi tutto tornò come prima. Il rumore dei passi sull’acciottolato, il rombo di una motocicletta da qualche parte oltre le case che avevamo di fronte, il cinguettio di qualche uccello sulla grondaia di un palazzotto alla nostra destra. La fila di case ora si fermava: continuava sul lato sinistro, mentre sull’altro lato, si apriva uno squarcio di paesaggio finalmente libero dalla presenza pesante, ossessiva delle case.

Appoggiato su una sorta di palizzata rudimentale che impediva il libero accesso verso la scarpata, contemplavo il panorama che si apriva davanti a me. La vallata era ampia ma non particolarmente scoscesa. Quella mancanza di asperità e di dislivelli erti e scoscesi ben si armonizzava con lo spirito gentile di quei luoghi, così imbevuti di religiosità, di acuto senso del bello, di quiete domestica, ormai definitivamente sopiti gli antichi fragori di acerrime lotte comunali e di odi tanto profondi quanto insensati.

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La Storia era passata per quei luoghi e si era lasciata dietro di sé macerie materiali e morali che, poco a poco, col ristabilimento della ragionevolezza e il comporsi paulatino delle reciproche violente opposizioni, erano state come sommerse dalla patina del tempo. Ora, erano state erette costruzioni di varia civiltà che il mite clima, il soave pendio delle colline, la laboriosità delle genti e i molti talenti individuali nell’artigianato e non solo, avevano reso irresistibilmente suggestive.

Le prime ombre della sera sembravano scendere dalle lontane colline in fondo alla vallata. Un alito di vento mi portò il profumo di cibo cucinato: dietro quelle case, si pensava ormai alla preparazione della cena. Ci si sarebbe seduti a tavola, ci si sarebbe scambiato le solite parole, le solite frasi, i soliti commenti. Qualche bimbo avrebbe fatto i capricci. Qualche anziano si sarebbe lamentato della propria vecchiaia. Qualcuno sarebbe nato e qualcun altro avrebbe esalato l’ultimo respiro.

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Avrei voluto entrare in una di quelle case e dire alla prima persona che si fosse parata davanti:” Mi scusi. Mi sento bene qui, in spirito e in corpo. Voi mi piacete così come mi piacciono questi luoghi. Avrei voglia di tornare a casa. Ma, non rida, la prego, non so più quale sia veramente casa mia.

Abito a Roma, ma sono nato al nord e ho ancora i miei familiari là. Non so più che devo fare.

Le campane e questi luoghi mi hanno come messo in crisi ed ora non so più se ritornare dai miei o alla mia nuova vita. Non so, veramente, mi creda”.

Mentre pensavo a queste cose, un amico mi chiamò:”Dai che si sta facendo tardi. E’ ora di tornare”.

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Mi unii meccanicamente al gruppetto dei miei amici. Saremmo andati al parcheggio vicino alla chiesa e avremmo fatto ritorno a casa. Il giorno dopo sarei tornato al lavoro. Avrei visto le solite persone, avrei detto le stesse cose, le stesse frasi. Avrei, magari, verso sera, telefonato ai miei. Avrei chiesto come stavano e avrei loro promesso che presto avrei fatto una scappata per restare un paio di giorni con loro.

Per provare a ritrovare delle sensazioni che ormai non provavo più.

Per fingere di stare bene ed essere, nonostante tutto, felice.

Fingere. Appunto.