Grazie, signora Thatcher

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Tra denuncia sociale e commedia

Un film riuscito a metà. Molto buona la parte della denuncia sociale; poco convincente quella relativa alle “performances” della banda e dei singoli orchestrali. La prima è dura, realistica e fa male come un pugno allo stomaco. l’altra è una commediola, gradevole, ma abbastanza posticcia. Il regista ha sicuramente cercato di evitare toni troppo cupi e il rischio di realizzare un film troppo pessimistico, costruendo una trama esile, in forte contrasto con l’ambientazione sociale, che risollevasse un pò il morale del pubblico.

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Ad un occhio acuto, però, resta chiaro l’assunto di fondo, e cioè la tragica realtà di un Paese in ginocchio, con un’industria massacrata e delocalizzata, con migliaia di operai definitivamente fuori dal mercato, con intere aree industriali dismesse, abbandonate e desolatamente vuote. La crisi sta picchiando duro e tutto sembra peggiorare invece di migliorare. Rispetto ai tempi della Thatcher, il Regno Unito sta ancora peggio. I tagli alla spesa pubblica (500.000 impiegati pubblici lasciati a casa), l’impennata delle tasse universitarie, la disoccupazione, la criminalità giovanile (e l’abbandono scolastico) in pauroso aumento, sono gli elementi alla base di una situazione spaventosa. Che cosa resta ai cittadini di questa piccola città mineraria ormai moribonda? Resta il pub, qualche birra, qualche gioco a freccette, la tv, il calcio (o il cricket) e la noia di un’esistenza ormai senza speranza, un tirare a campare a base di sogni infranti di una generazione ormai fottuta.

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Eppure questi orchestrali cercano di dare un senso, ancorchè minimo o patetico, alla loro vita grama, ostinatamente legati alla loro band un pò scalcagnata ma, grazie al direttore, in grado di offrire prestazioni decorose. Per la verità, più che l’amore per la propria banda, a far decidere ai componenti di rimanere e continuare a suonare, è l’arrivo di una procace e avvenente ragazza che compare improvvisamente ne lla cittadina e che si dimostra una brava musicista. Il punto debole del film è qui, inutile girarci attorno, ma è una trovata meno peggiore di altre, diciamolo pure.Risultato immagine per grazie signora thatcher film

 Che poi la banda, ormai “arruolata” a pieni voti la ragazza, vinca la sfida delle migliori bande inglesi è un artificio tirato un pò per i capelli. Il merito comunque del regista è quello di aver saputo combinare abbastanza bene la denuncia sociale e la commediola ad uso delle famigliole.

 

Grazie, signora Thatcher (Brassed Off) (1996) Mark Herman

 

 

 

Elogio del nostro doppiaggio

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Emilio Cigoli

Per anni sono vissuto nella convinzione, argomentata e impeccabile, che il doppiaggio fosse una sorta di tradimento. Cancellare la voce del protagonista e sostituirla con quella di un doppiatore era ritenuto, in certi ambienti, scorretto. Si sosteneva che la voce originale facesse un tutt’uno con il film e che il doppiaggio rompesse quell’unità inscindibile fra voce, attore e scena.

Poco a poco però, è maturata in me l’idea che il doppiaggio, se eseguito da ottimi interpreti, ci avvicinasse meglio alla comprensione del film.

I miei studi linguistici e i molti film visti in originale mi hanno gradualmente portato ad alcune riflessioni che rivalutano l’uso del doppiaggio.

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Mario Besesti

Lungi da essere tipico di un Paese arretrato culturalmente, come generalmente il doppiaggio veniva qualificato, esso aiuta lo spettatore a comprendere ad entrare meglio nel personaggio.

Il doppiaggio di cui parlo è quello evidentemente eseguito da veri professionisti e da interpreti traduttori di alto profilo. Non mi riferisco, è chiaro, a certe traduzioni (veri e propri tradimenti) affrettate e dilettantistiche e a certi doppiaggi eseguiti alla bell’è meglio per risparmiare sui costi.

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Tina Lattanzi

In effetti, se ci riferiamo alla versione originale sottotitolata, devo dire che quasi mai ho notato una precisa rispondenza nella nostra lingua rispetto all’originale. E’ vero ovviamente che questo attiene alla traduzione in sé, senza particolare riferimento ai sottotitoli. E’ estremamente difficile rendere in italiano le sottigliezze e i giochi di parole dei testi originali stranieri, non è una novità. Questo poi è particolarmente vero riguardo appunto ai sottotitoli di un film, eseguiti perlopiù da buoni traduttori che però non possono perdere troppo tempo in sottigliezze interpretative. Questo mortifica parecchio la versione originale, svilita e impoverita da sottotitoli semplificati e poco incisivi.

Ferruccio Amendola

Mi riferisco qui in particolare al doppiaggio vero e proprio, senza sottotitoli. La fortuna del nostro Paese è quella di godere di una tradizione superba di doppiatori di altissima qualità.

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Francesco Pannofino

Assistere a un film in originale, leggendo i sottotitoli (per la stragrande maggioranza di coloro che non conoscono a perfezione qualche lingua straniera), è un’esperienza che non è mai compiuta, completa, definitiva.

Sentir parlare Clark Gable e comprenderlo attraverso dei sottotitoli è un avvicinamento alla completezza, ma esiste un “décalage” che lascia sempre un po’ di amaro in bocca, almeno per i palati esigenti e cioè i cinefili.

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Oreste Lionello

Se invece il doppiaggio è eseguito da interpreti di grandi capacità, riusciamo a comprendere meglio il personaggio, ma attenzione, non solo per le parole che dice ma anche per la varietà di toni, le flessibilità, le vibrazioni della voce. Abbiamo dei doppiatori, per fortuna, che studiano bene il personaggio e che riescono a interpretarlo quasi perfettamente.

Riusciamo quindi a capire certe pieghe interpretative che l’attore originale intende includere nella sua recitazione se vengono rese bene anche nel doppiaggio.

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Luca Ward

Prendiamo il caso di Roberto Pedicini nella sua interpretazione di Kevin Spacey in HOUSE OF CARDS. Oppure, se vogliamo andare più indietro, come non ricordare l’immenso Emilio Cigoli? Il suo lavoro in L’OSCAR INSANGUINATO, quando interpreta Vincent Price, è a dir poco straordinario. Oppure ancora Ferruccio Amendola quando interpretava Bob De Niro. E che dire di Oreste Lionello doppiatore di Woody Allen? Allen stesso, pur favorevole alla versione originale, si complimentò con Lionello stesso per come riusciva ad entrare nel personaggio, nelle sue balbettanti elucubrazioni intellettuali, nei suoi tic, nelle sue pause ed incertezze.

Non potendo capirlo nell’originale, abbiamo la possibilità di avvicinarci alla sua compiutezza, con il vantaggio di sentirlo più nostro, visto che vengono per forza usati modi di dire italiani, dato che certe espressioni, certi modismi anglosassoni, non otterrebbero da noi la stessa comprensione e partecipazione emotiva.

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Giancarlo Giannini

In fondo, vedere un film è anche partecipazione emotiva. Quale migliore modo di entrare nella complessità di un personaggio, se non quello di capire non solo ciò che si dice, ma soprattutto come si dice?

Certo, esiste il rischio del birignao, un difetto che accadeva per esempio, a Tina Lattanti. Il lavoro del doppiatore, in questi casi, dà più importanza al proprio modo di “sentire”il personaggio, infarcendolo di “decorazioni” vocali non necessarie e superflue, che finiscono per “tradire” l’attore originale.

Oppure esiste il rischio di interpretare male, ma questo avviene raramente nelle produzioni di qualità. Il doppiatore tiene troppo alla propria dignità professionale per rischiarla così alla leggera.

La cosa strana è che difficilmente un grande doppiatore è pure un grande attore. Forse perché l’arte del doppiaggio è sentita “inferiore” a quella della recitazione.

In questi giorni sto apprezzando in modo particolare il lavoro di Roberto Pedicini: non mi riferisco alle splendide interpretazioni dei personaggi di Ralph Fiennes, Woody Harrelson, Jim Carrey e Javier Bardem fra gli altri. Penso soprattutto con ammirazione al lavoro che ha compiuto sul personaggio di Frank Underwood interpretato da Kevin Spacey. L’intensità, la precisione, ma soprattutto le sfumature della recitazione sono un motivo, non foss’altro che questo, per non perdere quella serie tv.

In casi come questo, ci si rende conto che il montaggio diventa un valore in sé, a prescindere dalla qualità del film. La voce suadente, gli improvvisi sbalzi di tono, la cantilena che arricchiscono il personaggio di Underwood, aprono squarci di luce sulla psicologia di quel detestabile politico lobbista, aiutano a svelarne le ambiguità e il sostanziale tentativo manipolatore. Quante volte riusciamo a percepire, con un po’ di attenzione, le incrinature, le piccole pause che rivelano le vere intenzioni di chi ci sta di fronte?

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Maria Pia De Meo

Credo che sia possibile, addirittura, migliorare con un doppiaggio di alta qualità la resa vocale di un personaggio, ma sarebbe oltremodo rischioso farne una scuola di pensiero.

Quando il compianto Claudio G.Fava ebbe l’idea di istituire un festival per il doppiaggio, ne comprendeva perfettamente il valore, oltre che tecnico, anche artistico. Effettivamente, una manifestazione così restituisce la giusta dimensione a professionisti che ci hanno fatto amare tanti attori, più ancora di quanto sarebbe accaduto se ci fossimo limitati a leggerne i dialoghi nei sottotitoli.

 

 

 

 

 

 

 

 

Geronimo un piccolo capolavoro

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Se non è un capolavoro, poco ci manca. Poche volte, il Western ha offerto un prodotto tanto importante quanto ben diretto e scritto. In effetti, dietro il regista, si sente l’alito forte, possente e sapiente di un John Milius al meglio. Milius è molto meglio quando scrive di quando dirige, lo si sa. In GERONIMO, i dialoghi sono la parte più significativa del film, oltre all’intensa e sofferta interpretazione di Wes Studi, un attore (pellerossa doc) che scientemente, intelligentemente e coerentemente accetta (quasi sempre) ruoli legati alle sue origini. La storia è fin troppo nota e non vale la pena soffermarsi. I

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n questo film si scontrano le due visioni opposte dell’America: quella legata al tema della vittoria ad ogni costo, incurante degli aspetti morali e sociali, e quella che fa riferimento alla dignità e all’onore. L’America che trionfa è la prima e questo provoca gravi fratture al proprio interno. Dietro agli splendori della vittoria, si manifestano i primi scricchiolii di una Nazione che sta per spaccarsi in due. “Provo vergogna” dice il giovane tenentino (Matt Damon) di fronte a “Cappotto d’orso Miles”, il generale trionfatore cialtrone che assapora con grande soddisfazione la sua vittoria personale.Se ne vanno i giusti, restano i mediocri. Si sta costruendo una Nazione, ma non nel senso che vorrebbe Gatewood (Jason Patric) l’ufficiale che ha catturato Geronimo. Nasce una Nazione, pare suggerire Milius, che parte col piede sbagliato: annienta un’intera nazione indiana con l’inganno e maschera la propria incapacità con la menzogna; allontana gli uomini d’onore e premia gli inetti, i ruffiani e i senza scrupoli. Un film che ci avvicina a SOLDATO BLU, a NESSUNA PIETA’ PER ULZANA e a HOMBRE. ossia il meglio del western sociale prodotto negli ultimi trent’anni. Da vedere, assolutamente. 

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Se non è un capolavoro, poco ci manca. Poche volte, il Western ha offerto un prodotto tanto importante quanto ben diretto e scritto. In effetti, dietro il regista, si sente l’alito forte, possente e sapiente di un John Milius al meglio. Milius è molto meglio quando scrive di quando dirige, lo si sa. In GERONIMO, i dialoghi sono la parte più significativa del film, oltre all’intensa e sofferta interpretazione di Wes Studi, un attore (pellerossa doc) che scientemente, intelligentemente e coerentemente accetta (quasi sempre) ruoli legati alle sue origini. La storia è fin troppo nota e non vale la pena soffermarsi. In questo film si scontrano le due visioni opposte dell’America: quella legata al tema della vittoria ad ogni costo, incurante degli aspetti morali e sociali, e quella che fa riferimento alla dignità e all’onore.

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L’America che trionfa è la prima e questo provoca gravi fratture al proprio interno. Dietro agli splendori della vittoria, si manifestano i primi scricchiolii di una Nazione che sta per spaccarsi in due. “Provo vergogna” dice il giovane tenentino (Matt Damon) di fronte a “Cappotto d’orso Miles”, il generale trionfatore cialtrone che assapora con grande soddisfazione la sua vittoria personale.Se ne vanno i giusti, restano i mediocri. Si sta costruendo una Nazione, ma non nel senso che vorrebbe Gatewood (Jason Patric) l’ufficiale che ha catturato Geronimo. Nasce una Nazione, pare suggerire Milius, che parte col piede sbagliato: annienta un’intera nazione indiana con l’inganno e maschera la propria incapacità con la menzogna; allontana gli uomini d’onore e premia gli inetti, i ruffiani e i senza scrupoli. Un film che ci avvicina a SOLDATO BLU, a NESSUNA PIETA’ PER ULZANA e a HOMBRE. ossia il meglio del western sociale prodotto negli ultimi trent’anni. Da vedere, assolutamente. 

 

Geronimo (1994) Walter Hill

 

Dossier Odessa

 

Che molti ex appartenenti alle SS fossero sostenuti dall’organizzazione ODESSA e aiutati a rifugiarsi in Sud America o altrove è una verità che è venuta a galla. per il grande pubblico, solo negli Anni ’70. E il romanzo di Forsyth, seguito dal film, hanno dato un contributo notevole alla divulgazione di quel complesso “affaire”. Il coinvolgimento di alti personaggi politici, di istituzioni e di branchie dello stesso Vaticano hanno rallentato e ostacolato la diffusione di certe scottanti verità. Il film, come il libro, tocca nervi scoperti che finiscono per provocare molto imbarazzo in certi Paesi, come la Germania (negli anni ’70 molti ex-SS si trovavano in posti di responsabilità a livello privato e pubblico) e l’Italia (una delle città da dove gli ex-nazisti si imbarcavano per il Sud America era Genova) e lo stesso Vaticano.

Non sono d’accordo con coloro che qualificano questo film come un prodotto convenzionale, privo di suspense, “greve come un ippopotamo” (Morandini). Per me è un film interessante dal punto di vista storico e non è nemmeno male come “thriller”. Storicamente mi pare che non ci siano particolari sbavature o errori. Mi pare anzi che l’autore del libro abbia fatto un buon lavoro di documentazione. Inoltre, la trama si dipana con un ritmo discreto e se si dice che il film pecca di convenzionalismo, rispondo che per me il convenzionalismo non è di per sè un difetto, se forma e contenuto si combinano armonicamente per formare un prodotto credibile e, mi spingo a dire, avvincente.

Ognuno segue la forma che vuole, e se lo fa bene, tanto di cappello. Anche il cinema di Raoul Walsh era convenzionale, ma i suoi film erano un prodigio di tecnica narrativa e mai nessuno si è mai sognato di accusarlo di convenzionalismo. Particolarmente indovinate mi sembrano le scene dell'”interrogatorio” da parte di un ex-SS nei confronti del protagonista (condite da un pizzico di ironia quando gli viene chiesto che cosa vedeva in alto nel lager di Flossenburg). Interessante è anche il “raduno” di ex commilitoni della divisione Sigfrido e il fervorino dell’ex-ufficiale. Ma mi sembra particolarmente indovinata la scena fra l’ex-SS Ruschmann e il protagonista.

Non ho letto il libro, ma quanto dice Maximilian Schell (Ruschmann) è molto “autentico”: dice cose terribili ma svela quello che in molti tedeschi esiste in sottofondo e cioè l’idea di essere comunque un popolo-guida, di avere un destino di dominio mondiale, di aver bisogno di disciplina e gerarchia per essere “uber alles”. E’ altrettanto vero che questi tedeschi giudicano gli uomini che sono a capo dell’attuale sistema democratico come un branco di rammolliti e questo fa giustizia di una facile tendenza a considerare i tedeschi allo stesso modo e cioè come, in fondo, perenni nostalgici dell’autoritarismo.

Nella scena finale, le parole del vecchio ebreo che risuonano a Gerusalemme nel tempio dedicato alle vittime dell’Olocausto, sono da scolpire: “Non sono i popoli ad essere malvagi, ma gli uomini”. Debole mi pare invece la scena del tentato agguato da parte di un sicario nei confronti di Voigt (il protagonista). Mi sembra poco credibile. Il film ha il merito indiscutibile di aprire una pagina di un libro che si vorrebbe, da troppe parti, chiudere per sempre e che, periodicamente, riemerge in tutto il suo orrore. In Italia, per esempio, pochissimi hanno avuto il coraggio di rivelare certe scomode verità sulla nostra Resistenza, sull’eredità ideologica e materiale fascista. Ma questa è un’altra storia.

Conspiracy : l’organizzazione del massacro

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Il 20.1.1942 ebbe luogo a Wannsee,vicino a Berlino, una riunione di gerarchi nazisti il cui scopo era quello di definire e avviare la famigerata Endlosung, o soluzione finale. Anfitrione era Adolf Eichmann e presidente della riunione era Reinhardt Heydrich, Reichsprotektor in Boemia e Moravia e capo del Sicherheitdienst (Servizio di sicurezza del Reich). A noi è arrivato di quella riunione un verbale che registra gli interventi dei vari gerarchi presenti.
Si evince dal verbale che le SS stanno per prendere il comando di tutta la questione relativa agli ebrei. La riunione ha lo scopo non di discutere ma di imporre la volontà di Heydrich e cioè quella di arrivare in tempi brevi all’eliminazione di tutti gli ebrei presenti non solo in Germania ma in tutte le zone occupate. Le timide o piccate osservazioni di qualche gerarca vengono presto azzerate con velate minacce. La cosa curiosa è che non si protesta per l’enormità del piano criminale nazista, ma per questioni di metodo.

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In fondo, il tema è proprio questo:il metodo. E’ evidente che tutti, sia pur in gradi diversi, accettano che vengano sterminati milioni di ebrei. Ed è probabile anche che qualcuno di loro storcesse il naso, all’inizio (come il presidente della cancelleria del Reich Kietzinger o l’autore delle leggi di Norimberga l’avvocato Stuckhart), ma il clima politico era tale che alla fine, per timore, tutti accettano. Nel film è pure chiara l’insofferenza degli alti gradi militari e diplomatici verso l’insolenza e la crescente egemonia delle SS nei settori chiave della politica (sicurezza, operazioni militari, questione ebraica, verifica della razza, questioni di sicurezza nei Paesi occupati ecc.). La cosa terribile è notare quanto fosse ormai ineluttabile il sopravvento del terrore nella vita quotidianae come perfino le alte sfere politiche e militari fossero soggiogate dalla paura di ritorsioni o misure punitive da parte delle SS e della Gestapo. E’ un film da vedere e su cui riflettere seriamente. Fa rabbrividire notare come una Nazione civile, intellettualmente e culturalmente avanzata, possa essere caduta in questo baratro, da cui pochissimi si sono potuti sottrarre sacrificando la loro vita oppure fuggendo.

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Su Frank Pierson

Il regista descrive bene l’ambientazione e il clima psicologico che si respira. E’ ovvio che le conversazioni fuori dalla riunione sono del tutto inventate, ma sono abbastanza credibili. Il film risulta essere quindi una relazione semi-documentaristica di una delle riunioni più tremende della storia umana: un consesso di alti gerarchi in cui si pianificò l’eliminazione di milioni di esseri umani.
Il film risulta credibile per l’assurda meticolosità con cui i gerarchi decisero quali erano i gradi di sangue misto da cui conseguiva l’eliminazione o la salvezza.
Curiosa poi è la frase con cui Heydrich definisce un ebreo vero e cioè il suo comportamento.

 

Conspiracy- Soluzione finale (Conspiracy) (2001) Frank Pierson film tv

 

 

Cogan – Killing Them Softly

L’elemento chiave del film, a mio parere, è uno solo: la parola. Parlano tutti e parlano troppo. Oltre a questo, noto una forte influenza di Tarantino e Scorsese. Entrambi questi registi disseminano i loro film di fiumi di parole.

Infine, occorre riflettere sull’insistenza con cui il candidato alla presidenza USA Obama parla, per radio e per televisione. Ancora e sempre, la parola.

Questi elementi, a mio avviso, sono alla base di un corretto approccio al film.

Gli Stati Uniti sono un Paese che, siamo nel 2008, si avvia ad attraversare una crisi economica devastante (che tutt’ora dura) che metterà sul lastrico un numero impressionante di persone, che ridurrà in miseria centinaia di migliaia di americani e che farà riflettere seriamente gli analisti sulla validità o la sostenibilità di un intero sistema.

In questo contesto di desolazione (fabbriche che chiudono, banche che saltano, impoverimento generale ecc.), da un lato le parole di Obama suonano come patetiche, specialmente se udite in ambienti degradati o in bar spettrali frequentati da un’umanità alla deriva, come certi romanzi di Raymond Carver o Dom De Lillo.

Dall’altro, in un mondo senza speranza, si muovono larve umane disperate, distrutte da una società spietata, che le spingono ad agire nel modo peggiore, arraffando, rapinando e uccidendo, in modo naif, ingenuo, da non criminali professionisti, ma da uomini spinti a farlo per la disperazione.

Garcia Lorca, in “AURORA” scrive di New York (e siamo alla fine degli anni ’20):”La luce è sepolta da catene e rumori in un’impudica sfida di scienza senza radici. Nei quartieri c’è gente che vacilla insonne come appena uscita da un naufragio di sangue”.

Questi disperati sono carne da macello, manipolati da banditi senza scrupoli e puntualmente spazzati via da chi non ammette sgarri nei propri “domìni”.

La trama, in sé, non è né nuova, né particolare. E’ un’ordinaria storia di piccoli delinquenti di mezza tacca che, dopo aver messo a segno una rapina, vengono regolarmente catturati o ammazzati dalla malavita, che li punisce per aver rapinato una sala da gioco sotto la sua “giurisdizione”. L’altra storia, conseguente, è quella di punizione che il sicario di turno compie, uccidendo gli autori del furto, il mandante e uno sciagurato che in precedenza aveva rapinato la sua stessa sala da gioco.

Vittime, sicari e intermediari parlano, parlano e parlano, come dicevo. La parola riempie gli spazi dove non c’è azione. La parola aiuta a capire i caratteri e i personaggi. Va detto che il cinema americano non ha mai privilegiato la parola nel cinema gangsteristico. Si preferiva mostrare l’azione, usando spesso un ritmo serrato e razionale, sorvolando sull’aspetto psicologico. Il pericolo era quello di annoiare il pubblico con tanti discorsi. Il “crime movie” ha raggiunto livelli di altissima qualità, concentrando nei pochi dialoghi il necessario piano comunicativo, grazie anche alle capacità di grandi sceneggiatori e il talento di buoni registi.

Tarantino e Scorsese (e pochissimi altri) hanno ribaltato questo modo di fare. La parola comincia a prendersi spazi sempre maggiori e finisce spesso per diventare un elemento altrettanto importante dell’azione. Pensiamo a films come PULP FICTION o GOODFELLAS.

Questi dialoghi, spesso prolissi, aiutano ad entrare nella personalità, nel carattere dei vari personaggi. Ora cominciamo a conoscerli non solo per le loro azioni, ma anche per come ragionano. Essi ci forniscono la chiave per capire le loro azioni.

La parola li umanizza, ce li avvicina, stabilisce un legame empatico fra noi e loro. Sentirli lamentarsi della vita schifosa che conducono, dello squallore in cui vivono ci aiuta ad entrare in una sorta di sintonia con loro. E, nel caso di Dominik, questo ha un valore sociologico di primaria importanza. Non è più insomma la rapina di due disperati di cui non si sa nulla e la cui fine è fatto positivo perché la società ora è più sicura. Ora diventa la tristissima storia di due poveri sciagurati, piccole pedine sacrificabili, emarginati da un sistema dove sempre più arduo è sopravviverci.

Stessa storia con i “cattivi” veri, come Mickey (James Gandolfini), sicario un tempo “regolare”, ora ridotto a un rottame che s’aggrappa a sesso a pagamento e all’alcol per non precipitare. Ma sta annaspando, presto l’organizzazione per cui lavora se ne libererà, in silenzio e dolcemente, come per i”bersagli umani”. Nella scena in albergo, quando si confida con Jack (Brad Pitt), veniamo a scoprire tutta la precarietà e la solitudine di questi squallidi personaggi, incapaci ormai di relazioni positive, di adattamento sociale e sempre più avvitati in un vortice la cui fine è segnata.

La cosa più intrigante però è l’irruzione, ad intervalli, dei discorsi che Obama tiene durante la sua campagna per l’elezione a presidente. A questo proposito, nella scena finale, Jackie, il vero ed unico killer del film, si lascia andare ad alcune riflessioni sulla società americana e sulla sua storia, rivelando tra l’altro di essa una conoscenza non elementare: in poche parole, Jackie contesta le parole di Obama facendo un accenno alla storia personale di Thomas jefferson, uno dei padri della Nazione, e, partendo da questo esempio, liquida la retorica ipocrita di Obama il quale parla di valori fondanti della Nazione, quando, in realtà, il solo valore su cui gli Stati Uniti si basano altro non è che il “business”.

Non ci sono più quindi due mondi: l’America da copertina, ricca, giovane, perbene e positiva e l’America degli “slums”, degli “homeless” e dei “losers”. Le parole di Jackie stabiliscono una saldatura fra queste due Americhe, entrambe accomunate dalla logica affaristica senza scrupoli.

Il significato dell’uso (o forse dell’abuso) della parola sta proprio qui e cioè nell’accomunare i piani alti del potere e quelli bassi della malavita sotto un unico segno, quello appunto del business a tutti i costi. Con una distinzione. I poteri alti usano l’ipocrisia per mascherare quello che li rende uguali ai piani bassi della società.

L’uso del rallentatore per certe scene di particolare crudezza non aggiungono nulla, anzi, le appesantiscono senza ragione.

Cogan- Killing them softly (Killing Them Softly) (2012) Andrew Dominik

 

L’assoluzione

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Ti ricordi perché sei diventato prete?

C’è una sommessa atmosfera crepuscolare a rendere accattivante questo film del discontinuo Ulu Grosbard. Ancor più che un’inchiesta poliziesca che si intreccia con gli intrighi di una Chiesa cattolica americana (di Los Angeles), coinvolta in loschi affari e compromessa con personaggi poco raccomandabili, il film sembra un lungo addio accorato e malinconico ad un’America che cambia, e non sempre in meglio. C’è l’addio del vecchio prete brontolone ma vero maestro di moralità, diventato ormai scomodo per una parrocchia sempre più compromessa con le tentazioni molto terrene del denaro e del potere.

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C’è l’addio della vecchia battona, maîtresse d’un bordello in cui un prete è morto d’infarto sopra una bella prostituta nera, e che ora deve andarsene perché è diventata pure lei scomoda. C’è l’addio del protagonista, un Robert De Niro, tanto bravo a predicare quanto pronto a lasciarsi sedurre dal potere e che, una volta venuto a galla lo scandalo, sceglie di ritirarsi presso una lontana parrocchia sperduta nel deserto, memore degli insegnamenti del vecchio prete e deciso a redimersi, cosciente di essere arrivato, a causa di una cardiopatia, alla fine della sua breve esistenza. C’è l’addio struggente del fratello poliziotto al fratello prete: sanno che sarà l’ultima volta che si vedranno.

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La vita li ha separati: uno, Robert Duvall, è diventato poliziotto, l’altro (De Niro) ha avuto un momento di celebrità ed è stato prossimo a diventare vescovo. Ma c’è soprattutto l’addio di una vecchia America, appena uscita dalla guerra, ancora mossa da ideali e ancora ingenua e l’irrompere dei nuovi tempi, molto più cinici e immorali. A dircelo sono i personaggi, tutti ottimi caratteristi avanti con l’età (l’unico giovane è De Niro ), in perenne ricordo dei bei tempi andati, dove il bianco era bianco e il nero era nero. Non c’è nulla che si salvi, ora, in questa società nuova che si sta imponendo. Non si salva la Chiesa: gli intrallazzi sono ormai diventati quotidianità, ecco perché il vecchio padre Seamus (Un grandissimo Burgess Meredith) viene spedito lontano.

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Non si salvano le istituzioni. La “vecchia” polizia, ad esempio, ottimamente impersonata da Robert Duvall e Ken McMillan, fa sempre più fatica a raccapezzarsi. I compromessi fra il Palazzo (il Governatore, il Sindaco ecc.) con ambienti corrotti e potenti, sono ormai sempre più diffusi. La stessa polizia sta cambiando in peggio (dello stesso anno, 1981, è l’ottimo IL PRINCIPE DELLA CITTA’ di S.Lumet a illuminarci su cosa è diventata oggi la polizia). L’omicidio della ragazza (ispirato al caso della Dalia Nera che fece scalpore a Los Angeles nel 1947) segna il punto di unione fra le due storie. La ragazza è stata uccisa e poi tagliata a metà. Un omicidio vecchio ma anche nuovo: un passato che sta morendo e un nuovo (peggiore) che avanza.

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C’è un momento a mio avviso importante nel film: è quello in cui, in confessionale, il vecchio padre Seamus chiede al giovane Des (De Niro): “Ti ricordi perché sei diventato prete?”.

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Sembra una domanda strampalata, considerando l’attivismo e il valore del giovane sacerdote, ma in realtà è la domanda che tutti noi poniamo alla Chiesa quando si impegola in pericolosi e colpevoli rapporti con il Potere, cade in gravi inadempienze nel non denunciare pratiche pedofile, nell’adagiarsi nei comodi panni dell’abitudine e della routine ecc.

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Il cammino di redenzione di padre Des deve passare attraverso l’umiliazione e la rinuncia ai sogni di gloria e spegnersi in una lontana e sperduta piccola parrocchia nel deserto. L’addio è spesso un cammino di redenzione. Addio alle proprie abitudini, comodità, certezze e scoperta di nuovi traguardi, nuove sfide, nuovi orizzonti. L’addio è una riflessione su se stessi per poter intraprendere strade nuove.
“Ti ricordi perché sei diventato prete?” è un invito a cambiar vita e, suona come solenne parafrasi di una domanda che il regista pone al “nuovo” che avanza, alla nuova America spietata e cinica, non più innocente, non più ingenua:”Ti ricordi com’eri?”.

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E’ il film più convincente di Ulu Grosbard, che prima e dopo non riuscirà più a dirigere opere di rilievo. Un plauso speciale a Georges Delerue, ottimo nell’infondere con la sua colonna sonora un tocco di malinconia e di intimismo che contribuisce a considerare questo film al di sopra della media.

 

L’assoluzione (True Confessions) (1981) Ulu Grosbard

 

 

Wise Guy Robert

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La teoria autoriale (Auteurism o, per meglio dire, la théorie des auteurs, alla francese, visto che si deve alla critica d’oltralpe la sua elaborazione), all’inizio, mi sembrava assolutamente centrata. Mi aveva convinto il particolare approccio che i vari Bazin, Truffaut e Rohmer avevano saputo elaborare. Mi affascinava l’ardita impalcatura filosofica che sottendeva l’opera d’arte, la sicurezza con cui condannavano o esaltavano i registi, partendo dall’assunto che si riconosce l’autore solo se di questo si riesce ad individuare determinate caratteristiche nella sua direzione o messa in scena. Se queste caratteristiche si rivelano, diamo di fronte a un vero autore, altrimenti no, detto così in soldoni.

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Ecco allora l’esaltazione di registi come Wyler, Hawks, Hitchcock e Nicholas Ray.

Poco a poco, però, mi sorgevano sempre più dubbi riguardo alla fondatezza di questa teoria.

Capivo che era sempre più una questione di gusti e quindi soggettiva, più che un metodo sistematico e obiettivo.

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Non riuscivo a capire, per esempio, come mai restavano fuori dalla “lista” autoriale, registi come Hathaway, Fleischer, Frankenheimer e Robert Wise.

O meglio, lo capivo, ma non ero d’accordo nel non tenere in considerazione dei registi che, a mio avviso, avevano dimostrato, in varie occasioni, di dirigere film straordinari.

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In questi giorni, ad esempio, ho visto un film che alla stragrande maggioranza del pubblico non dice nulla. Si tratta di DUE BANDIERE ALL’OVEST, di Robert Wise, della 20th Century Fox, la cui tematica ricorda un poco SIERRA CHARRIBA di Peckinpah. La presenza di attori come Joseph Cotten, Jeff Chandler, Linda Darnell e Cornel Wilde, arricchisce una trama interessante e infonde un registro drammatico che eleva la qualità del film oltre la categoria di B-Movie, come era nel progetto della FOX e di quel vero genio della produzione che era Darryl Zanuck.

 

Delle due l’una, o il livello dei B-Movie era, anche nel western, di grande professionalità al punto da competere spesso con i film ad alto budget, oppure ci troviamo di fronte alla conferma che, poiché la critica non ha mai considerato altro che un buon artigiano il buon Wise, questo film sia uno dei tanti western minori da dimenticare, fatti solo far lavorare gli attori sotto contratto e contare su entrate sicure, pur se limitate.

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Il peccato di cui Wise è, secondo i critici che scrivevano allora per CAHIERS DE CINEMA, colpevole è quello di avere disperso i temi a lui cari in una lunga serie di film appartenenti ai generi più svariati. Troppi e troppo diversi i generi, i temi su cui ha lavorato. Quando un regista fa questo, diventa, secondo la teoria autoriale, troppo dipendente dai voleri dei suoi capi e rinuncia alle sue idee pur di lavorare. Così facendo, il suo cinema diventa un lavoro su commissione e non più un terreno su cui esprimere la sua visione del cinema e del mondo.

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Nel caso di Wise, scrivevano:”Il puro tecnico. I suoi primi film furono scoppiettanti, ma pare che faccia fatica ora a mantenersi ad un livello elevato., per mancanza, senza dubbio, di un bisogno interiore profondo. Il suo stile finisce per apparire come un insieme di trucchi che usa anche se con un’abilità consumata. Se la sceneggiatura non è buona, egli non salva che superficialmente il film, con una regia realizzata in modo estremamente curato, ecco quindi LA SETE DEL POTERE. Se la sceneggiatura è buona, ecco STASERA HO VINTO ANCH’IO. Se è intelligente e profonda, Wise ne viene superato ed ecco quindi LA LEGGE DEL CAPESTRO. E’ l’uomo che non delude a patto di non chiedergli troppo”.

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Insomma, non una condanna totale, ma quasi. E’ solo un tecnico, insomma, un bravo artigiano.

A scanso di dubbi, questo tipo di regista è esistito, esiste ed esisterà sempre. Ciò che mi preme rilevare è il pericolo che, in questo modo, non vengano adeguatamente valorizzati i meriti di molti registi.

A Wise, molto probabilmente, non interessava molto essere considerato un autore, visto che gli veniva riconosciuta una professionalità e una capacità non comuni proprio dalle massime autorità ed istituzioni cinematografiche americane, avendo vinto nel 1961 l’Academy Award per il miglior film e come miglior regista per WEST SIDE STORY, essendo stato a capo del Directors Guild of America dal 1971 al 1975 e presidente della Academy of Motion Pictures and Sciences dal 1984 al 1987.

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Wise piaceva ai produttori perché era particolarmente meticoloso nella preparazione, nell’organizzazione del lavoro e nella conoscenza del mezzo tecnico. I riconoscimenti ricevuti erano dovuti in buona parte al fatto che Wise non aveva mai fatto perdere denaro agli Studios e questo, per gli americani e non solo, è un elemento straordinariamente importante.

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Stranamente, ma non tanto, questi riconoscimenti fanno sempre arricciare il naso alla critica. Più un regista piace ai produttori, meno piace alla critica. E’ comprensibile, certo, ma non dovrebbe essere una regola.

A Wise. Insomma, è stata rimproverata la mancanza di personalità (caratteristica comune a tutti i registi non autori). Un grande regista si caratterizza per la sua personalità, secondo gli “autoristi”. Ora, Wise, secondo loro, ha diretto film impersonali, carenti di una chiara linea di continuità, di coerenza con il suo stile. Ma a Wise non interessa questo. In effetti, esiste il pericolo di “pensare” un film incanalandolo su linee stilistiche, narrative e visive che riconducano il loro autore agli stilemi suoi propri, ma allontanandolo da soluzioni che avrebbero richiesto altre scelte e che meglio avrebbero interpretato lo spirito di quel determinato film.

Cioè, un regista un po’ megalomane cerca di asservire un film alla sua visione del mondo e alle sue regole, mentre un altro cerca in un racconto lo spirito che lo anima e tenta di interpretarlo.

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Se allora dovessimo interpretare un film, seguendo i rigidi canoni della teoria autoriale, rischiamo di perdere di vista delle opere e dei registi che affrontano a modo loro il film, preoccupati di interpretarlo di volta in volta, e in modo diverso.

Ma uno dei punti deboli più richiamato da molti critici è, l’esatto opposto. Intendo dire che, se da un lato, non si tengono in considerazione le opere dei registi non ritenuti “autori”, dall’altro, si esaltano opere decisamente minori di questi registi, opere non all’altezza dei loro film più riusciti.

Considerare film d’autore opere minori di Ray, Hawks, Ford è un’assurdità, una sfida al buon senso. Così come va contro il senso comune ignorare la filmografia di tanti registi, magari meno famosi o celebrati dalla critica.

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Per Wise “il film è soprattutto un veicolo destinato ad interessare, avvincere, affascinare, commuovere un pubblico e, al meglio, ad insegnargli qualcosa di nuovo su certi aspetti della vita, della società e del mondo. Almeno a sensibilizzarlo su di essi”.

Credo che, autore o no, Wise debba avere il rispetto che merita e anche qualcosa di più.

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Le foto che ho scelto si riferiscono a film che più di altri suoi mi hanno colpito e convinto.

 

Wendell Corey l’uomo in grigio

 

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Io, voi, noi tutti abbiamo conosciuto Wendell Corey. Era il tipo vestito sempre inappuntabile, assorto nella lettura del giornale, che sedeva accanto a noi in metropolitana. Oppure quel signore in giacca, cravatta e impermeabile che vedevamo ogni giorno uscire dalla porta di casa accanto alla nostra, sempre alla stessa ora e rincasare puntuale, senza mai fermarsi a bere un cicchetto al bar vicino al posto di lavoro.

Il classico travet, l’uomo in grigio (“in a flannel grey suit”) che abita vicino a noi, prende il bus con noi, che scambia poche parole, impegnato a leggere il giornale o, a volte, a fissare il vuoto.

Il classico tipo che un giorno leggi che ha ammazzato moglie e figlio e si è poi sparato alla tempia.

Il mondo è pieno di Wendell Corey.

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Il mondo è pieno di individui all’apparenza insignificanti, tutto casa,lavoro e chiesa, poco inclini ad attaccare discorso, chiusi in loro stessi, sentimentalmente stitici, immersi nel loro piccolo mondo fatto di quotidianità banale, di sorrisi forzati, di frasi di circostanza, di amore per dovere, di priorità contabili, ragionieristiche, di assenze, di mancanze. Qualcosa, nella loro infanzia, li ha segnati per sempre. Forse la paura del padre, la soggezione, l’ansia di non deludere. I personaggi di Wendell Corey sono uomini grigi, senza slanci, senza entusiasmo che non sanno amare né odiare. Il loro è un mondo orizzontale, piatto e senza emozioni. E’ una pentola a pressione che, in taluni casi, arriva a scoppiare. E quando succede, si aprono squarci di imprevedibilità, di prateria sconfinate dove arrivano folate di gelida e spesso lucida violenza, di psicopatia assoluta, di improvvisi salti nell’orrido dove nulla è negato, nemmeno gli atti più orrendi. Salvo poi, passata la folle folata, lasciare il posto al barlume di coscienza che, nonostante tutto, ha illuminato di luce fioca un’esistenza senza tepori, fredda e buia, generatrice di mostri interiori.

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Ma in Wendell Corey, a redimerne il terreo volto dell’insignificanza, intervengono due occhi azzurri di ghiaccio, stupendi, come false promesse di felicità presente e futura, subito spente, tradite da una natura gregaria, passiva, conformista, timida e ignava.

La timidezza, ecco. La soggezione ha prodotto, generato il mostro timido che non vorrebbe esserlo, ma incapace di vincere la propria natura, proprio come lo scorpione che, cosciente di perdere la vita se punge la rana in mezzo allo stagno, è “costretto” a farlo.

La sua natura però è facilmente influenzabile, specie se si tratta di una persona di forte volontà. Il ricordo del padre continua ad agire su di lui e, davanti ad una donna che gli prospetta una possibile relazione, pur se pesantemente inguaiata con la legge, cede e finisce per autodistruggersi. E’ il caso di IL ROMANZO DI THELMA JORDAN (1949) di Robert Siodmak. La donna in questione non poteva che essere Barbara Stanwyck, icona dell’io femminile in perenne competizione con il maschio, simbolo (assieme a Bette Davis e a Joan Crawford) della donna virile, spietata e cinica, pur se capace, in altre occasioni, di immense prove di generosità e amore senza confini.

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Il suo istinto di travet, la sua natura gregaria lo inducono ad accettare compromessi illeciti con qualcuno più sveglio e con meno scrupoli di lui. E’ il caso di Noll (Kirk Douglas) in LE VIE DELLA CITTA’ (1948) di Byron Haskin. Tuttavia, la sua natura di esecutore e piccolo e grigio contabile si riverbera nella sua sostanziale ingenuità, quando rivela a Noll che intende procedere contro di lui, firmando così la propria condanna a morte.

Questo suo carattere introverso, questa sua indole usa ad accettare umiliazioni e sconfitte, può, come si è detto, arrivare al punto di rottura, quando cioè la ragione della sua vita (la moglie) viene uccisa, anche se per errore durante uno scontro a fuoco con la polizia, venuta ad arrestarlo per aver pianificato una rapina nella propria banca. Il senso della sua vita, ora che non ha più nulla al mondo, è evadere e colpire la moglie del poliziotto che ha ucciso la sua. E’ il film più inquietante della sua carriera: è un pazzo, lucido, ormai scatenato, perché ha perso i vincoli morali, la soggezione e la timidezza, caratteristiche della sua personalità monca, incompiuta, inespressa. Il film è chiaramente L’ASSASSINO E’ PERDUTO (1956) di Budd Boetticher. Il suo aspetto esterno è ormai solo un involucro a perdere. In lui è cambiato tutto: è un mutante passato da una fase letargica durata decenni a una esplosiva che lo condurrà in breve alla morte.

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Nel 1954, Hitchcock scelse lui per il ruolo del tenente Thomas Doyle in LA FINESTRA SUL CORTILE. Aveva bisogno di un poliziotto poco incline alle fantasie, ancorato alla dura quotidianità, intelligente, ma non troppo sveglio, metodico e poco propenso agli scatti di genio, familiare quel tanto da prendersi un incarico extra non troppo sul serio. Insomma, un uomo alla Wendell Corey.

Come dicevo prima, i suoi occhi di un azzurro intenso inducono a credere che quest’uomo alberghi sentimenti e passionalità tali da sedurre chiunque. Ad uno sguardo più severo, quegli occhi sono freddi come una lastra da obitorio e lo sguardo che ne deriva sono promesse di morte.

Era nato a Dracut, Massachusets, nel 1914 e suo padre era un pastore congregazionista. Studia a Springfield e comincia a lavorare in teatro fino ad essere notato, nel 1945, da Hal Wallis (allora produttore alla Paramount, dopo essere stato il geniale producer che tutti sappiamo alla Warner Bros.)

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Wallis gli propone un contratto e una carriera nel cinema e Corey accetta. Il suo primo film è FURIA NEL DESERTO(1947) di Lewis Allen. Non sarà mai un attore protagonista, ma la sua maschera inquietante intriga produttori e registi e per lui si aprirà una carriera densa di soddisfazioni ma anche di buchi neri, segnati dalla sua caduta nell’alcolismo che lo porterà, nel 1968, all’età di 54 anni, a morire di cirrosi epatica.

Perché Wendell Corey? Perché il cinema americano deve molto ad attori come lui, onesti mestieranti, con qualche scintilla di talento, confinati troppo spesso nella cantina degli oggetti non di pregio, salvo poi, in certe occasioni, essere rispolverati e tirati a lucido per risplendere di luce propria.

Vivere è facile con gli occhi chiusi

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Spesso, molto più spesso di quanto si creda, un piccolo fatterello, apparentemente senza importanza, è il detonatore che fa nascere un’opera.

Nel 1966, è un fatto vero, un professore spagnolo di Cartagena (costa di levante), insegnante di inglese in una scuola superiore, follemente innamorato dei Beatles, prende la macchina e se ne va ad Almeria (città dell’Andalusía) per conoscere di persona John Lennon, che si trova lì con la troupe del film di Richard Lester “COME HO VINTO LA GUERRA”.

Questo è il detonatore. L’esplosivo è quello che c’è dietro: la Spagna di Franco. Chi provoca l’esplosione è David Trueba, uno dei più interessanti registi spagnoli odierni.

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C’è un tema che popola ossessivamente i sogni degli spagnoli, ricorre continuamente nei dibattiti pubblici e privati, condiziona ancora le relazioni sociali e familiari, influenza le scelte politiche ad alto e basso livello: la guerra civile.

Da noi la guerra civile è durata due anni, là, per certi aspetti dura tuttora. Da noi esiste ancora una sorta di solco fra destra e sinistra che sembra attenuarsi gradualmente. Là, come in gran parte dell’Europa, la vecchia contrapposizione destra-sinistra sembra superata da nuove forme di aggregazioni sempre meno legate all’ideologia e sempre più decise a rompere con i partiti tradizionali.

Ma per chi, come il sottoscritto, ha vissuto la Spagna degli anni’70, la guerra civile ha segnato profondamente quel Paese, ancora e molto più del nostro.

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Quegli anni, quel clima, quella situazione sociale, politica ed economica sono il vero scenario di fondo del film di Trueba VIVERE E’ FACILE CON GLI OCCHI CHIUSI. La piccola vicenda del professore (magnificamente interpretato da Javier Cámara) e dei due ragazzi fuggiti di casa è un pretesto per raccontare un’altra storia, quella di un Paese che vive un clima di paura e che non ha il coraggio (o la forza) di aprire gli occhi su una realtà inaccettabile. Il titolo del film, tratto da un celeberrimo brano dei Fab Four, STRAWBERRY FIELDS FOREVER, è quindi eloquente.

Certo, è facile dire: ribellarsi. Ribellarsi? In un Paese dove si susseguivano fucilazioni quotidiane (di anti-franchisti combattenti o simpatizzanti della guerra civile) ancora nel 1955 (come nel carcere di Ocaña: il famigerato “penal”)? Molto, molto difficile. Il regime franchista è anche un regime poliziesco capillare.

Il 1966 è l’anno della Ley Orgánica (quella che separa la carica di capo del governo da quella di capo dello stato e della”possibilità di formazione di partiti politici”): la Spagna, da qualche anno ormai, vanta una crescita economica straordinaria, favorita dall’entrata nel Governo del gruppo di tecnocrati dell’Opus Dei. Sono arrivati i capitali stranieri (in massima parte americani) interessati dall’adozione di misure fiscali ed economiche favorevoli. Il turismo scoppia letteralmente (da 6 milioni nel 1960 a 34 nel 1973). La crescita è al 7%.

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La gente comincia a comprare oggetti che erano, pochi anni prima, irraggiungibili come la lavatrice, l’automobile e la casa. La villeggiatura non è più un lusso: i prezzi sono ancora bassi.

Con le prime politiche “aperturiste”, quelle, ad esempio, del falangista Manuel Fraga Iribarne (citato nel film), cominciano a farsi più coraggiosi i primi segni anti-regime; gli studenti sono sempre più inquieti, gli operai cominciano a scioperare, nascono clandestinamente sindacati illegali (come Comisiones Obreras). Il regime entra, sempre più affannato, nell’ultimo decennio di vita.

Ma la società reale è rimasta. più o meno la stessa. Nelle famiglie non si discute il volere del capofamiglia: un urlo alla moglie se non se ne sta zitta e uno schiaffo al figlio se risponde o se non si taglia i capelli. Figurarsi toccare il tema della guerra civile o della politica. Negli uffici, il capo è sempre un vecchio falangista (o “camisa vieja”): si segue il suo volere “y a callar”. Nelle fabbriche, poche, il sindacato libero non è permesso e tutti quindi devono uniformarsi alle direttive del capo. Nelle scuole pubbliche non è sempre così, ma in quelle private, che sono la maggioranza, rette da religiosi, il concetto non cambia.

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Il film di Trueba parte da qui.

I personaggi sono un sedicenne, figlio di un poliziotto, in una famiglia che vive una tensione quotidiana da tagliare con il coltello. Una ragazza che è rimasta incinta e che non riesce più a sopportare la riprovazione sociale e l’incomprensione familiare. Un professore di scuola superiore, insegnante di inglese e latino, amante esagerato dei Beatles, che decide di partire per Almeria a parlare con John Lennon, che si trova lì con una troupe cinematografica. Il quarto personaggio è il titolare di un bar sperduto nell’arida e torrida terra andalusa, di origine catalana, padre di un figlio disabile, frutto della relazione con una ragazza italiana di Rimini, sorella di un disertore dei “volontari” di Mussolini, mandati in Spagna ad aiutare Franco.

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I due ragazzi sono in fuga: non sopportano più l’atmosfera pesante delle loro case e famiglie. Antonio, il professore, è pure in fuga, dopo aver nascosto la sua scappatella al preside. L’unico che non scappa è il gestore del bar, Ramón: forse il personaggio più romantico del film. Si indovina che vorrebbe tornare in Catalogna, ma continua ad aspettare l’arrivo della sua compagna italiana, che ama tanto il sole (e ad Almeria ce n’è di sole e tanto) e che, come lui dice, si è probabilmente stancata di lui.

Fuga, dunque. Il film, in effetti, è una specie di “Road Movie”: la strada serve per portare lontano, ma, serve anche per avvicinare persone che mai, altrimenti, si sarebbero incontrate. Ma il Road Movie è spesso un film di formazione:la strada insegna, nel bene e nel male. Trovi il professore un po’ svitato, ma buona persona, che ti aiuta e ti insegna tante cose. Trovi una ragazza triste e sfiduciata della vita che ti apprezza per come sei e ti fa scoprire i misteri dell’amore e del sesso. Trovi un taverniere che ti prende a ben volere e si affeziona a te. Trovi un ragazzino disabile che ha solo bisogno di un po’ di affetto e di attenzione e scopri che la vita può essere bella e che puoi fare qualcosa di utile. Scopri però anche la cattiveria e l’ignoranza della gente e capisci che il mondo è popolato anche di questi personaggi che rovinano ciò che di bello e buono altri sanno creare. E che bisogna guardarsi da quegli individui.

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Alla fine, tutto ritorna al punto di prima. Il ragazzo torna a casa: il padre è venuto a riprenderselo. Anche la ragazza torna. Pure il professore. Ramón invece non si muove; non si è mai mosso nel film. Aspetta, aspetta, aspetta. Forse la sua compagna tornerà prima o poi. Il senso della sua vita sono loro: Bruno, il figlio disabile, e Maria Concetta, la compagna italiana che ha saputo dargli tanto, tanto da non desiderare di tornare in Catalogna e decidere di restare in quel tugurio di bar, dimenticato dal mondo.

Antonio, il professore, è riuscito finalmente a vedere John Lennon. Si son parlati e la rockstar gli ha detto della sua intenzione di rompere il gruppo. Gli ha pure permesso di registrare una canzone che sta componendo: STRAWBERRY FIELDS.

Antonio è un uomo felice: ha dato un senso alla sua vita aiutando due ragazzi a ritrovare un po’ di fiducia. Questo è più importante della canzone che ha registrato. Al momento di congedarsi dal ragazzo, gli tende il registratore con la canzone di John; è uno dei momenti più intensi e commoventi del film. I Beatles, il rock, la musica, non sono niente in confronto a quel gesto. In quel preciso momento, Antonio si merita a tutto tondo il titolo di PROFESSORE, o quello che dovrebbe essere un professore. C’è da scommettere che ad Albacete (città in cui insegna), in una scuola, ci sarà un vero insegnante, capace di affrontare con coraggio l’ambiente quotidiano asfissiante, ipocrita e retrogrado. Ma non è detto che ci riesca: anzi, è probabile che finisca per essere cacciato dalla scuola. Ma non importa, in certo senso, egli ha vinto.

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Lo stesso dicasi per i due ragazzi. Non c’è stata e non ci sarà catarsi per i loro genitori . Prova ne sono le poche parole che il padre poliziotto scambia con il ragazzo che è andato a riprendere. “Ti sei tagliato i capelli, eh?” e “E’ questa la musica moderna?”. Da manuale.

Il ritratto che Trueba ci offre della Spagna di quel tempo è realistico e per nulla consolatorio. La buona gente troppo spesso non è sufficiente per rendere migliore il mondo in cui vive.

 

La vita è facile ad occhi chiusi (Vivir es fácil con los ojos cerrados) (2014) David Trueba