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Current Revision by frenkosty9 months ago(7 Mar @ 17:24)
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Title
Cinema realista o consolatorio?
(no title)
Content
Giovanni Bertone è un personaggio che Indro Montanelli conobbe nel carcere di San Vittore nel 1944. La sua storia (anche se romanzata dallo stesso giornalista) lo convinse a scrivere un racconto che a Rossellini piacque al punto di decidersi a dirigere il film IL GENERALE DELLA ROVERE, ancor prima che il racconto venisse pubblicato (caso rarissimo). Si tratta di una persona vile, meschina, baro, truffatore che, tratto in arresto dai tedeschi, viene da questi convinto a fingersi un importante generale badogliano (contrario alla continuazione della guerra a fianco del Duce) per scoprire e poi denunciare un capo della Resistenza presente nel carcere. Si sa come finisce: Bertone, invece di tradire, ritrova un barlume di dignità e, continuando, ma stavolta con tutt’altro spirito, la sua messinscena, affronta il plotone d’esecuzione rincuorando i suoi compagni di sventura.
Il film è del 1959 ed è, forse, l’ultimo esempio importante del neorealismo( se non altro perché generato in piena guerra). Dello stesso anno è LA GRANDE GUERRA di Mario Monicelli, che andrebbe invece annoverato tra i migliori film della Commedia all’italiana. E’ la storia di due soldati italiani, Oreste Jacovacci (Alberto Sordi) e Giovanni Busacca (Vittorio Gassman), pessimi guerrieri e ottimi scansafatiche che vengono catturati dagli austriaci e minacciati di esecuzione sommaria (visto che non indossano l’uniforme), se non sveleranno al nemico importanti informazioni militari. All’inizio, i due sembrano disposti a parlare, ma la tracotanza e lo scherno anti-italiano dell’ufficiale nemico, li spinge a non collaborare e preferire la fucilazione.
Due film, stesso anno e un altro elemento comune: la parabola morale che va da un tipo di vita non encomiabile a un estremo sussulto di dignità che ne fa degli eroi.
L’italiano che esce da questi due film è lo stereotipo dell’immagine che in quegli anni, ma ancora oggi persiste (come ad esempio in America), e che è visione di noi stessi, della nostra vita quotidiana, della nostra storia e delle nostre varie vicissitudini, e cioè quella di un popolo di individui allegri, simpatici, laboriosi, ma privi di senso civico e civile, pronti ad abdicare alla propria dignità pur di ottenere in cambio dei favori, un popolo di ignoranti e di cialtroni, capace però di scelte insperate ed eroiche, riscattando così una vita vissuta indegnamente.
E’, come si vede, un’immagine abbastanza realistica da un lato, ma anche, in certo modo, consolatoria da un altro. Il messaggio che se ne ricava è più o meno questo: sì, è vero, siamo fatti così e così, ma, quando serve veramente, non siamo inferiori a nessuno. Certi avvenimenti, poi, sembrerebbero dare credito a questa visione. Pensiamo alla rotta di Caporetto. Tutto sembrava perduto. In pochi mesi, però, gli italiani riuscirono a sconfiggere gli austro-ungarico-tedeschi e vincere la guerra. Oppure pensiamo alla Resistenza. L’8 settembre è sicuramente una della date più infauste della nostra storia. Ancora oggi paghiamo le conseguenze di quei momenti tremendi, in cui un intero Paese si dissolse, in cui ogni istituzione, ogni baluardo militare, civile e morale sembrava definitivamente perduto e la nostra stessa unità nazionale era ormai alla mercé delle Potenze vincitrici. La Resistenza fu un estremo ridotto cui si aggrapparono poche migliaia di nostri connazionali che valse per ottenere condizioni meno disastrose nei nostri riguardi e salvò, anche se solo in parte, la nostra dignità e il nostro onore diventando per forza l’elemento cardine su cui si fondò la nostra Costituzione.
Questa visione però non esaurisce il discorso su chi sono veramente gli italiani. Siamo veramente così oppure ci fa comodo pensare di esserlo? Gli anni della Commedia all’italiana sembrerebbero contraddire quest’idea auto-assolutoria. Al di là della facile caricatura, delle operette farsesche, leggere, inconsistenti e superficiali, ci sono opere che inducono a riflessioni un po’ meno consolatorie. Prendiamo films come IL SORPASSO (1962) dI Dino Risi oppure IL BOOM (1963) di Vittorio De Sica. L’Italia che ne esce non prevede un finale catartico. Anzi, scopriamo che ne esce un’Italia moralmente a pezzi, dove a trionfare non sono coloro che hanno segnato il riscatto del nostro Paese. A trionfare è il cialtrone interpretato da Gassman e non il giovane e serio studente che è un po’ la nuova Italia, quella che si vorrebbe. No, a vincere è, ora come prima, la vecchia Italia di sempre, rappresentata dal buffone simpatico, superficiale, ignorante e maleducato. E’ un film, questo, magistrale per come sa condensare in due tipologie umane la società italiana all’inizio del miracolo economico. Il ritratto è crudele, pessimista, senza appello.
E’ un po’ quello che succede ne IL BOOM: l’Italia che è uscita dalla guerra non è quella sognata dai padri costituenti, ma un Paese profondamente marcato da ingiustizia, disuguaglianze sociali e vuoto morale. Giovanni Alberti (interpretato da Sordi) è un giovane che, senza capitali iniziali, vorrebbe intraprendere un’attività imprenditoriale nel settore edilizio. Non trova nessuno a sostenerlo: non le banche, non gli amici. La moglie, viste le difficoltà economiche e abituata a una vita agiata, lo lascia. Il seguito del film è ben noto: grazie alla cessione di un occhio, Giovanni riconquisterà, grazie ai soldi ricevuti per quella cessione, moglie, amici e fiducia delle banche. Un racconto amarissimo e senza speranza.
Italia: un Paese allora senza speranza? Inutile farsi illusioni? Mussolini, negli anni di guerra, ad un certo punto, scorato, si lasciò sfuggire la famosa frase: “Governare gli italiani non è difficile, è inutile”. L’Italia dei 64 governi in 70 anni, l’Italia perenne fanalino di coda in Europa, indietro praticamente su tutto, sempre meno autorevole, sempre meno ascoltata, gravata da un debito pubblico mostruoso … ? E’ questa l’immagine che diamo al mondo? Se il cinema è specchio della vita, dovremmo dire di sì. Ma, come si diceva all’inizio, spesso intervengono fattori che tendono a modificare nel bene o nel male la realtà.
Si diceva, all’inizio, che nel neo realismo c’era un tentativo di edulcorare l’amara pillola di una realtà altrimenti insopportabile; si descriveva la realtà di quegli anni (dalla caduta del fascismo ai primi segnali di crescita e sviluppo) in modo onesto, sincero, ma con un pizzico di speranza; del resto ci pensavano classe politica e censura a nascondere determinati aspetti imbarazzanti: basti pensare alla presa di posizione dell’onorevole Andreotti e il bisogno di “lavare i panni sporchi in casa” o ai processi per lesa maestà a chi aveva osato denigrare le Forze Armate (come accadde con LA GRANDE GUERRA e non solo). Ma la realtà è quella che è.
E’ la realtà di una società di cui non si intravedono chiari segnali di cambiamento, realtà di un mondo perennemente alle prese con scandali, corruzione, incapacità politica cui gli italiani sembrano essersi assuefatti. Si sono scritti decine di volumi sulle cause, recenti e remote, del caos del nostro paese, ben anteriori al ventennio fascista. Ma anche la miglior indagine non riuscirà mai a modificare la realtà. Il cinema, certo cinema, è chiaro, a volte, e nei casi migliori, specchio del nostro Paese, svolge un lavoro estremamente delicato e utile. Rappresentare i nostri mali in modo crudele come fanno ad esempio Paolo Virzì ne IL CAPITALE UMANO (2013), oppure Matteo Garrone con GOMORRA (2008), oppure ancora Ivano De Matteo ne I NOSTRI RAGAZZI (2014) ed altri che non cito perché l’elenco sarebbe troppo lungo, è molto importante, perché indica che, malgrado tutto, esiste una società non solo incivile, razzista e cafona, ma anche un’altra molto diversa, solidale e ancora fondata sui valori.
L’elemento che mi sembra di cogliere in questo momento particolare è che il cinema italiano è cresciuto, è maturato e riesce a captare i primi fermenti di una società che si ribella, che ha finalmente il coraggio di dire di no, di rifiutare i vecchi schemi, le vecchie semplificazioni. Non è più il grido solitario di protesta ma è qualcosa che sta crescendo. E il cinema lo sta capendo.
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Giovanni Bertone \u00e8 un personaggio che Indro Montanelli conobbe nel carcere di San Vittore nel 1944. La sua storia (anche se romanzata dallo stesso giornalista) lo convinse a scrivere un racconto che a Rossellini piacque al punto di decidersi a dirigere il film IL GENERALE DELLA ROVERE, ancor prima che il racconto venisse pubblicato (caso rarissimo). Si tratta di una persona vile, meschina, baro, truffatore che, tratto in arresto dai tedeschi, viene da questi convinto a fingersi un importante generale badogliano (contrario alla continuazione della guerra a fianco del Duce) per scoprire e poi denunciare un capo della Resistenza presente nel carcere. Si sa come finisce: Bertone, invece di tradire, ritrova un barlume di dignit\u00e0 e, continuando, ma stavolta con tutt\u2019altro spirito, la sua messinscena, affronta il plotone d\u2019esecuzione rincuorando i suoi compagni di sventura.
Il film \u00e8 del 1959 ed \u00e8, forse, l\u2019ultimo esempio importante del neorealismo( se non altro perch\u00e9 generato in piena guerra). Dello stesso anno \u00e8 LA GRANDE GUERRA di Mario Monicelli, che andrebbe invece annoverato tra i migliori film della Commedia all\u2019italiana. E\u2019 la storia di due soldati italiani, Oreste Jacovacci (Alberto Sordi) e Giovanni Busacca (Vittorio Gassman), pessimi guerrieri e ottimi scansafatiche che vengono catturati dagli austriaci e minacciati di esecuzione sommaria (visto che non indossano l\u2019uniforme), se non sveleranno al nemico importanti informazioni militari. All\u2019inizio, i due sembrano disposti a parlare, ma la tracotanza e lo scherno anti-italiano dell\u2019ufficiale nemico, li spinge a non collaborare e preferire la fucilazione.
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Due film, stesso anno e un altro elemento comune: la parabola morale che va da un tipo di vita non encomiabile a un estremo sussulto di dignit\u00e0 che ne fa degli eroi.
L\u2019italiano che esce da questi due film \u00e8 lo stereotipo\u00a0dell’immagine che in quegli anni, ma ancora oggi persiste (come ad esempio in America),\u00a0e che \u00e8\u00a0visione di noi stessi,\u00a0della nostra vita quotidiana, della nostra storia e delle nostre varie vicissitudini,\u00a0 e cio\u00e8 quella di\u00a0 un popolo di individui\u00a0allegri, simpatici, laboriosi, ma\u00a0privi di senso civico e civile, pronti ad abdicare alla propria dignit\u00e0 pur di ottenere in cambio dei favori, un popolo di ignoranti e di cialtroni, capace per\u00f2 di scelte insperate ed eroiche, riscattando cos\u00ec una vita vissuta indegnamente.
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E\u2019, come si vede, un\u2019immagine abbastanza realistica da un lato, ma anche, in certo modo, consolatoria da un altro. Il messaggio che se ne ricava \u00e8 pi\u00f9 o meno questo: s\u00ec, \u00e8 vero, siamo fatti cos\u00ec e cos\u00ec, ma, quando serve veramente, non siamo inferiori a nessuno. Certi avvenimenti, poi, sembrerebbero dare credito a questa visione. Pensiamo alla rotta di Caporetto. Tutto sembrava perduto. In pochi mesi, per\u00f2, gli italiani riuscirono a sconfiggere gli austro-ungarico-tedeschi e vincere la guerra. Oppure pensiamo alla Resistenza. L\u20198 settembre \u00e8 sicuramente una della date pi\u00f9 infauste della nostra storia. Ancora oggi paghiamo le conseguenze di quei momenti tremendi, in cui un intero Paese si dissolse, in cui ogni istituzione, ogni baluardo militare, civile e morale sembrava definitivamente perduto e la nostra stessa unit\u00e0 nazionale era ormai alla merc\u00e9 delle Potenze vincitrici. La Resistenza fu un estremo ridotto cui si aggrapparono poche migliaia di nostri connazionali che valse per ottenere\u00a0condizioni meno\u00a0disastrose nei nostri riguardi e salv\u00f2, anche se solo in parte, la nostra dignit\u00e0 e il nostro onore diventando per forza l\u2019elemento cardine su cui si fond\u00f2 la nostra\u00a0Costituzione.
Questa visione per\u00f2 non esaurisce il discorso su chi sono veramente gli italiani. Siamo veramente cos\u00ec oppure ci fa comodo pensare di esserlo? Gli anni della Commedia all\u2019italiana sembrerebbero contraddire quest\u2019idea auto-assolutoria. Al di l\u00e0 della facile caricatura, delle operette farsesche, leggere, inconsistenti e superficiali, ci sono opere che inducono a riflessioni un po\u2019 meno consolatorie. Prendiamo films come IL SORPASSO (1962) dI Dino Risi oppure IL BOOM (1963) di Vittorio De Sica. L\u2019Italia che ne esce non prevede un finale catartico. Anzi, scopriamo che ne esce un\u2019Italia moralmente a pezzi, dove a trionfare non sono coloro che hanno segnato il riscatto del nostro Paese. A trionfare \u00e8 il cialtrone interpretato da Gassman e non il giovane e serio studente che \u00e8 un po\u2019 la nuova Italia, quella che si vorrebbe. No, a vincere \u00e8, ora come prima, la vecchia Italia di sempre, rappresentata dal buffone simpatico, superficiale, ignorante e maleducato.\u00a0\u00a0E’ un film, questo, magistrale per come sa condensare in due tipologie umane\u00a0 la societ\u00e0 italiana all’inizio del miracolo economico. Il ritratto \u00e8 crudele, pessimista, senza appello.
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Italia: un Paese allora senza speranza? Inutile farsi illusioni? Mussolini, negli anni di guerra, ad un certo punto, scorato, si lasci\u00f2 sfuggire la famosa frase: "Governare gli italiani non \u00e8 difficile, \u00e8 inutile\u201d. L\u2019Italia dei 64 governi in 70 anni, l\u2019Italia perenne fanalino di coda in Europa, indietro praticamente su tutto, sempre meno autorevole, sempre meno ascoltata, gravata da un debito pubblico mostruoso \u2026 ? E\u2019 questa l\u2019immagine che diamo al mondo? Se il cinema \u00e8 specchio della vita, dovremmo dire di s\u00ec. Ma, come si diceva all\u2019inizio, spesso intervengono fattori che tendono a modificare nel bene o nel male la realt\u00e0.
Si diceva, all’inizio, \u00a0che nel neo realismo\u00a0c\u2019era un tentativo di edulcorare l\u2019amara pillola di una realt\u00e0 altrimenti insopportabile; si descriveva la realt\u00e0 di quegli anni (dalla caduta del fascismo ai primi segnali di crescita e sviluppo) in modo onesto, sincero, ma\u00a0con un pizzico di speranza; \u00a0del resto ci pensavano classe politica e censura a nascondere determinati aspetti imbarazzanti: basti pensare alla presa di posizione dell\u2019onorevole Andreotti e il bisogno di \u201clavare i panni sporchi in casa\u201d o\u00a0ai processi per lesa maest\u00e0 a chi aveva osato denigrare le Forze Armate (come accadde con LA GRANDE GUERRA e non solo). Ma la realt\u00e0 \u00e8 quella che \u00e8.
E’ la realt\u00e0 di una societ\u00e0 di cui non si intravedono chiari segnali di cambiamento,\u00a0 realt\u00e0 di un mondo perennemente alle prese con scandali, corruzione, incapacit\u00e0 politica cui gli italiani sembrano essersi assuefatti. Si sono scritti decine di volumi sulle cause, recenti e remote, del caos del nostro paese, ben anteriori al ventennio fascista. Ma anche la miglior indagine non riuscir\u00e0 mai a modificare la realt\u00e0. Il cinema, certo cinema, \u00e8 chiaro, a volte, e nei casi migliori,\u00a0specchio del nostro Paese, svolge un lavoro estremamente delicato e utile. Rappresentare i nostri mali in modo crudele come fanno ad esempio Paolo Virz\u00ec ne IL CAPITALE UMANO (2013), oppure Matteo Garrone con GOMORRA (2008), oppure ancora Ivano De Matteo ne I NOSTRI RAGAZZI (2014) ed altri che non cito perch\u00e9 l\u2019elenco sarebbe troppo lungo, \u00e8 molto importante, perch\u00e9 indica che, malgrado tutto, esiste una societ\u00e0 non solo incivile, razzista e cafona, ma anche un\u2019altra molto diversa, solidale e ancora fondata sui valori.
L\u2019elemento che mi sembra di cogliere in questo momento particolare \u00e8 che il cinema italiano \u00e8 cresciuto, \u00e8 maturato e riesce a captare i primi fermenti di una societ\u00e0 che si ribella, che ha finalmente il coraggio di dire di no, di rifiutare i vecchi schemi, le vecchie semplificazioni. Non \u00e8 pi\u00f9 il grido solitario di protesta ma \u00e8 qualcosa che sta crescendo. E il cinema lo sta capendo.
Non è probabilmente solo una casualità che questo film sia uscito in questi ultimi tempi, quando la questione tedesco-orientale e la guerra fredda sono oggetti messi nel soffitto di una storia “superficiale”, dove tutto tende ad essere dimenticato, tutto viene inesorabilmente coperto dal “nuovo”, dalle “Breaking News”, vere o false che esse siano.
Fra le diverse angolature da cui analizzare questo film, in effetti, ce n’è una che, a mio avviso, emerge, cristallina, pura, durissima, come la punta di diamante. Ed è l’uomo vero. L’uomo tutto d’un pezzo, l’uomo che non baratterebbe la propria dignità per tutti i tesori del mondo. Questo è un film sulla dignità, che è poi l’unica vera cosa che distingue il “vero” uomo dai suoi simili.
Ad interpretare il personaggio dell’avvocato Jim Donovan è Tom Hanks, lo stesso che ha interpretato (magistralmente) il capitano John Miller, l’ufficiale dei Rangers che riesce a salvare il soldato Ryan. Due storie vere. Due storie maledettamente simili, perché il protagonista è uno “stoiki mugik”, un uomo tutto d’un pezzo, un uomo che merita il pieno rispetto del suo presunto “nemico”.
Perché proprio ora questo film? Perché mai, come in questo tempo, è difficile mantenere la barra dritta, mantenere intatta la propria fede nei propri ideali, dare testimonianza al prossimo, ai familiari e a se stesso della propria incrollabile dignità nonostante da ogni parte vi siano pressioni, seduzioni, minacce.
Al di là delle barriere costruite da “piccoli uomini”, dei nazionalismi beceri, delle sciocche mire espansionistiche, ci sono, fortunatamente, uomini veri di qua e di là dei confini, disposti a conoscersi, frequentarsi e rispettarsi, pur nelle diverse concezioni del mondo e della vita.
L’aspetto più curioso del film e che Spielberg ha inteso comunicare è che, ad esclusione dei due protagonisti, ne escono tutti con le ossa rotte e che risulta chiaro per tutti gli spettatori che le sorti del mondo troppo spesso sono in mano a gente senza alcuno scrupolo, che governa con l’uso indiscriminato delle false verità, di princìpi che, pur se antichi come il mondo, ancora dettano legge nelle maggiori cancellerie dei Paesi che, invece di spendersi per assicurare la distensione, la pace e la concordia mondiali, brigano per accrescere la propria potenza a rischio dell’estinzione del genere umano.
Le figure dei due protagonisti, invece, davanti a un simile scempio, ne escono ingigantite : da un lato, la spia russa Abel che, vive in modo dignitoso la propria prigionia non collaborando ed accettando di buon grado la propria sorte, quale essa sia, consapevole dei rischi a cui si è esposto e, al tempo stesso, convinto di essere nel giusto e quindi indisponibile a barattare la propria libertà con azioni che ne minino la sua coerenza. Dall’altro, un avvocato che sceglie di difendere una spia, un “traditore” che tutti vorrebbero fosse giustiziato, tanto è acuto il clima di tensione creata dalla guerra fredda e dalla “caccia alle streghe” che in quel periodo pervade l’America. Lo difende, nonostante abbia tutti contro, nonostante le sue più intime convinzioni che si arrendono di fronte al Diritto, inalienabile e pilastro di civiltà.
Conoscersi, per i due protagonisti, è un percorso virtuoso verso la reciproca comprensione e il rispetto, divenuto non più neutro atteggiamento verso l’altro, ma un‘apertura mentale sincera verso chi la pensa diversamente e agisce in un modo che, sulle prime, sembra condannabile senza appello e che poi si rivela essere coerente con i propri princìpi e la propria visione del mondo.
Alla fine, la guerra fredda, pur se continuerà, è virtualmente terminata fra i due: si sono conosciuti, si sono parlati e hanno cominciato a rispettarsi. Il regalo finale di Abel Donovan ha un significato molto più importante del ritratto. Il film inizia con un autoritratto, segno di convinzione delle proprie idee e di ciò che sta facendo. Il ritratto finale è segno di stima per chi lo ha liberato, ma anche “apertura” verso un mondo che forse troppo frettolosamente si è considerato come decadente, malato e corrotto. Per converso poi, il mondo che lo riaccoglie sembra non apprezzare affatto (vedi la scena finale , in cui Abel viene fatto sedere non accanto all’autista ma sul sedile posteriore, segno questo di guai in vista) lo svolgersi degli eventi, avvelenato dal sospetto che Abel possa aver detto qualcosa che non doveva dire.
Il successo della missione di Donovan, del resto, non può certo far dimenticare la campagna diffamatoria nei suoi confronti mossa da un Paese intero, ubriaco di pregiudizi, gonfio di odio e di un malsano sentimento di superiorità.
La vittoria di Donovan, quindi, non è affatto la vittoria di un intero Paese, così come il ritorno di Abel, per i russi, non è affatto un trionfo ma la nascita di un sospetto, così come oggi, nonostante la guerra fredda sia ufficialmente finita, c’è più che mai la sensazione della perdita, o almeno dell’affievolimento di principi che si ritenevano incrollabili, imperituri e che tutto è possibile. E’ ancora possibile che si ritorni alla barbarie, che si parli di nazionalismo, di razze, di “lezioni” da infliggere.
Come ricordava il vecchio sopravvissuto ebreo nel film DOSSIER ODESSA (1974) di Ronald Neame, non sono i popoli ad essere malvagi ma i singoli individui. Ma i singoli individui possono portare il mondo alla distruzione. Così come anche i singoli individui possono riscattare con la loro azione e il loro pensiero questo mondo. A volte singole azioni di questi individui possono ottenere risultati insperati e cambiare alcuni orientamenti che sembravano ormai definitivamente definiti.
Ci sono dei film, considerati minori, che continuano a rimanere nel tuo immaginario e nella tua memoria. Uno di questi, almeno per me, è IL FALSO TRADITORE. Lessi, ancora sedicenne, il libro di Klein da cui è tratto il film e mi piacque. E’ una storia vera, narrata in modo semplice e apparentemente dimesso. Il film che George Seaton, sceneggiatore di alcuni buoni film (es. LA RAGAZZA DI CAMPAGNA), ha realizzato, pare con la presenza dello stesso Eriksson (il protagonista “vero” della storia) sul set, è assolutamente degno di menzione. William Holden interpreta un ruolo interessante, in cui mostra, accanto alle sue doti di fascinoso seduttore, insospettate virtù drammatiche.
(Che Lumet abbia visto il film quando decise di dirigere QUINTO POTERE?). La protagonista, Lilli Palmer, che fuggì dalla Germania nel 1933, l’anno dell’ascesa al potere di Hitler, visse un’esperienza emotiva fortissima nell’interpretare il ruolo della spia, al punto che, alla fine della scena in cui ella viene fucilata, tutta la troupe, emozionata, la applaudì a scena aperta.
E’ una storia emozionante, tanto più se pensiamo che si tratta di un fatto vero. Alcune scene sono veramente straordinarie come quella ad esempio della fucilazione della Palmer nel carcere di Moabit a Berlino. La scena fu girata nei luoghi reali e questo aggiunge una carica drammatica ulteriore. Alcuni personaggi sono indovinatissimi nelle loro caratterizzazioni (il conte Oldenburg, il personaggio di Preiss, l’amoico ebreo, mentre altri sono forse un pò caricati (il ragazzino della Hitler Jugend, quello di Klaus Kinski).
E’ una storia che sembra inventata tanto è piena di colpi di scena e di autentica angoscia. L’unico punto debole, a mio avviso, è l’inizio, in particolare il modo in cui Holden/Eriksson viene reclutatao dagli alleati. La decisione di passare all’azione non è resa abbastanza bene e sembra resa un pò frettolosamente. E’ comunque un buon film di spionaggio e sulla seconda guerra mondiale. Un piccolo gioiello per chi è appassionato di spy-stories.
Il falso traditore (The Counterfeit Traitor) (1962) George Seaton
Girato nel 1951 e diretto da John Sturges, è un film che è stato dimenticato e che la critica non ha mai particolarmente apprezzato definendolo piatto, zeppo di retorica, prevedibile e così via.
Non sono d’accordo.
Prima di tutto, la storia non è affatto scontata e banale, inoltre, non c’è una regia piatta e la retorica, anche se è difficile non trovarne in un film di “redenzione”, rientra in un impianto che sa mescolare bene tensione (specie nel finale), dramma personale e indagine complessa.
Di John Sturges si possono dire tante cose, ma non credo che si possa usare la parola “banale” per definire la sua opera. E’ un regista solido, buon artigiano con veri tocchi da maestro (“SFIDA ALL’OK CORRAL, GIORNO MALEDETTO, LA GRANDE FUGA, SFIDA NELLA CITTA’ MORTA, L’ORA DELLE PISTOLE, I MAGNIFICI 7), anche se non esente da prove scialbe.
Si tratta di storie raccontate con vigore, senza dialoghi eccelsi o compiacimenti formali. E’ un regista che eccelle soprattutto nel western, dove i dialoghi sono asciutti, “poveri”, ma anche secchi e precisi come fucilate. Gli piacciono le storie chiare, con psicologie semplici, quasi elementari, trame senza particolari intrecci o schermaglie verbali tipiche del dramma classico. Ama girare nei grandi spazi e, pur senza avere il talento visionario e la genialità di John Ford, dirige storie credibili e solide, senza concedere nulla al formalismo e all’estetismo. C’è però cura del dettaglio, della meticolosa precisione dell’inquadratura. Eccelle nelle scene notturne, dove, con l’ausilio di ottimi direttori della fotografia, inventa giochi di luce assolutamente apprezzabili. Non ci sono metafore, non ci sono doppi sensi, non ci sono preziosismi di alcun genere. I suoi protagonisti sono diretti, onesti e leali. Sono valori che si attagliano perfettamente al mondo western.
Il film in questione, invece, si discosta da questi schemi. Prendiamo il protagonista: non è un grande avvocato penalista all’apogeo della carriera e nemmeno un giovane avvocato alle prime armi di cui si intravvede una luminosa carriera. Ci troviamo di fronte a un uomo in pieno declino, con un recente passato da alcolista, con un’incipiente senilità che gli toglie le forze necessarie per continuare ad esercitare una professione sfibrante. Ci sono momenti nel film in cui colleghi, amici e avversari , oltre a noi stessi, provano un forte imbarazzo nel trovarsi di fronte a un ex valente avvocato che ora annaspa, apparentemente incapace di portare avanti dignitosamente una causa che sembra ormai persa. Le difficoltà, che in un film di impianto tradizionale, sarebbero superate con una gran forza di volontà, l’amore della propria moglie o la fortuna, qui si rivelano insuperabili. Da qui il ricorso alla bottiglia, alla corruzione, alla disonestà. E’ un uomo alla deriva che sta toccando con mano il proprio fallimento.
E’ un percorso tormentato di una persona che si ritrova all’improvviso sola, sola con i propri limiti fisici, con le proprie debolezze, con la propria fragilità. Si è infilato in un tunnel apparentemente senza uscita: ha preso a calci una vita degna e rispettata, subisce l’onta della scoperta della corruzione nei confronti di un testimone oculare. La scoperta di una relazione tra il proprio cliente e l’amante di un boss che, all’apparenza, sembra essere il vero colpevole, gli fa vedere una possibile luce alla fine del tunnel, la possibile soluzione, ormai insperata, che potrebbe restituirgli fiducia in se stesso pur avendo ormai perduto la propria dignità. Dignità che recupererà al prezzo della propria vita.
Spencer Tracy, nei panni dell’avvocato Courtayne, è semplicemente all’altezza delle sue migliori interpretazioni ed è un elemento che impreziosisce il film. La storia, come si è detto, non è banale, anche se lo sviluppo è quello tipico dei film del genere “noir”. A questo riguardo, la fotografia di un assoluto maestro come John Alton, ci offre, specie all’inizio e alla fine, soluzioni visive notevoli che saranno poi riprese, anche molti anni dopo, da registi e operatori di gran nome.
Certe sciabolate di luce nel buio della notte, figure inquietanti nel vano di una porta, contrasti di luci ed ombre tipici del “noir” classico, sono elementi che contribuiscono a rendere meno scontato questo film, arricchito anche da attori che conferiscono un peso artistico non indifferente, come John Hodiak e Pat O’ Brien.
La parte migliore del film è però sicuramente la parte finale, tutta giocata sulla tensione crescente, sulla sensazione della tragedia imminente, sulla partita che si gioca fra la tecnologia e la realtà che, con le proprie infinite variabili e tutti i possibili imprevisti, sembra sfuggire alla soluzione prevista o sperata e che restituisce, con tutta la propria ineluttabilità, il reale senso delle cose.
Il cerchio si chiude così com’era iniziato, ossia la raffigurazione di una vita vissuta degnamente, pur se segnata dalle avversità e dalla propria fragilità.
Quando questo film uscì, fu un fiasco. Il pubblico americano non ama i perdenti e odia che i generi classici vengano stravolti.
Non si può negare infatti, che si tratti della storia di un “loser” e neanche che si tratti, pure se “obtorto collo”, di un “western”.
Eppure Kirk Douglas aveva scommesso su questo film. Aveva comprato due anni prima i diritti dal romanzo di Edward Abbey e investito parte del suo patrimonio nella sua realizzazione. La Universal era stata convinta a produrlo, anche se aveva messo alcuni paletti (condivisibili). Aveva accettato che a scrivere la sceneggiatura fosse Dalton Trumbo, forse il maggior sceneggiatore allora esistente, noto per essere stato messo nella lista nera dalla Commissione per le attività non americane (la HUAAC) e costretto alla clandestinità pur continuando a usare nomi fasulli per poter sbarcare il lunario.
Douglas era rimasto affascinato dal suo talento in occasione del film SPARTACUS, di Kubrick, in cui egli interpretava il ruolo del gladiatore trace e lo aveva imposto allo Studio.
Il regista suggerito dalla Universal era David Miller, un regista onesto e capace. Douglas non ebbe nulla da obiettare. Pare anzi, lo racconta il regista stesso, che Kirk si comportasse bene e che non manifestasse mai la sua deplorevole tendenza a sovrapporsi al lavoro del regista e tiranneggiarlo.
Lo stesso Abbey, quando vide il film, dichiarò che il lavoro di Trumbo era molto più vivo, vigoroso e brillante del suo romanzo.
A cinquant’anni di distanza, il film paga un indubbio tributo al tempo. E’ in bianco e nero, malinconico, è un western spurio (suggellato dalla splendida scena iniziale: il cowboy sdraiato in campo aperto e subito dopo il rombo di jet che solcano il cielo) e, soprattutto, finisce male.
Eppure vale la pena parlarne perché si tratta, nonostante il passo del tempo e il flop al botteghino, di un piccolo capolavoro.
Ad un occhio attento, i registri interpretativi sono molteplici. Al piano più basso, si potrebbe pensare a una storia malinconica di un cowboy incapace di adattarsi alla modernità. Ad un livello superiore, ci troviamo di fronte al desiderio di libertà di un uomo, irriducibile alle regole di una società che incide sempre più sulle scelte dell’individuo. In ultima istanza, ci troviamo di fronte alla metafora del conflitto uomo-società, espressa in modo magistrale da dialoghi intensi, sofferti, pregnanti come pochi nella storia del cinema.
La storia di Dalton Trumbo, come spesso avviene con i suoi lavori, si mescola inscindibilmente con i suoi personaggi. Jack Burns (Douglas) è un cowboy moderno che appartiene al passato. Non ha documenti, non ha fissa dimora. Ha un amico (Paul), un vero amico (perché è un po’ come lui: è in galera per aver fatto entrare clandestinamente alcuni immigrati). Ha un’amica (la moglie di Paul), di cui un tempo era innamorato. Il dialogo seguente è rivelatore della sua personalità:
Jack : Non l’ho voluto abbastanza. Non volevo una casa, non volevo tutte quelle pentole e padelle- Non volevo altro che te. Sia benedetto il Signore che non ti ho avuto.
Jerri : Perché?
Jack : Perché sono un solitario fino nel fondo della mia anima. Tu sai che cos’è un solitario? E’ uno zoppo nato. E’ zoppo perché la sola persona con cui può convivere è lui stesso. E’ la sua vita, il modo in cui vuole viverla- è tutto per lui. Un tipo così finirebbe per deluderti. Perché non potrebbe amarti. Almeno non nel modo in cui tu sei amata.
Burns forse non è un personaggio reale ma solo un simbolo di come dovrebbe essere un uomo libero, secondo Trumbo (così come accadeva con Spartaco). Spesso però, come si sa, sono i personaggi-simbolo a muovere le folle. Sono le sue virtù portate all’estremo a sgretolare le granitiche convenzioni e la staticità del quieto vivere.
Il cinema americano è ben consapevole di questo e fa dell’individuo una sorta di simbologia del tutto possibile (celebre la storiella del lustrascarpe che può diventare presidente). Ma così come il pubblico è pronto a scatenarsi e fare la fila al botteghino per ammirare le gesta degli interpreti storici del trionfo individualista (da Errol Flynn a Marlon Brando, da Gary Cooper a Jimmy Stewart ecc.), è al tempo stesso spietato quando l’eroe viene messo al tappeto.
I personaggi di Trumbo, così come lo sceneggiatore stesso, sono la personificazione dello scacco dell’individuo schiacciato dal sistema, così come avviene per certi registi come Bob Aldrich, Peckinpah, Polonski, Rosenberg, Pollack ecc.
Dietro Burns, dietro questo cowboy bislacco, c’è l’uomo che una società vorrebbe catalogare, etichettare, comprimere e condizionare.
Ma, soprattutto, c’è qualcosa di cui si sente la mancanza e cioè la libertà. La storia di Trumbo è un pò la storia di Jack Burns. Trumbo non ha potuto esercitare un suo inalienabile diritto, quello cioè di esprimere le sue idee. E ha pagato con il carcere e la sua espulsione dal mondo del cinema. Così come l’amico di Burns (una variante dello stesso Burns) paga con il carcere quello che egli ritiene profondamente giusto e cioè permettere a degli immigrati di poter entrare in territorio americano per poter avere una chance e lasciarsi miseria e fame alle spalle.
Il fascino dell’eroe perdente potrebbe però risultare alquanto sterile se a sorreggere la sua storia non ci fosse il talento di un regista o di un grande sceneggiatore.
Pensiamo ad esempio all’inquadratura finale del film. Hanno appena portato via in ambulanza il povero Jack, travolto da un camion mentre stava attraversando a cavallo una strada molto trafficata, sotto una pioggia battente. Il suo cavallo giace al bordo della strada, dopo che un poliziotto ha messo fine alle sue sofferenze.
In mezzo alla strada, rimane solo il suo cappello da cowboy,sotto la pioggia. E’ ormai buio e la strada è un viavai forsennato di automezzi e di automobilisti che nulla sanno del dramma che si è appena compiuto.
Quel cappello è uno straordinario simbolo del conflitto che ha animato tutto il film: la disperata voglia di libertà, di vivere al di fuori di regole di una civiltà che troppo spesso è maniacale repressione. E’ un cappello che ha vissuto momenti migliori: giornate passate all’aria aperta tra polvere e mandrie, tra giacigli di fortuna di notte e colazioni frugali. Un cappello che ha conosciuto la libertà di andare dove si vuole, quando si vuole e come si vuole. Di scegliere quando partire e quando tornare. Di essere solo o accompagnato, ma più spesso di vivere la propria solitudine con la nobiltà dell’operare non a discapito degli altri, ma nella speranza di trovare veri amici e, una volta trovati, rischiare la vita per loro.
Quel cappello, da un momento all’altro, verrà schiacciato dalle ruote di un pesante automezzo e un altro pezzo di libertà se ne sarà andato.
Non è dato sapere se il buon Jack riuscirà a salvare la pelle. Per la filosofia del film è quello che meno importa. Una prova in più del valore simbolico del film.
Solo sotto le stelle (Lonely are the Brave) (1962) David Miller
Questo film di Aldrich è, a mio avviso, uno dei più significativi del regista. Per diverse ragioni.
La prima è che non si tratta dell’ennesimo confronto tra il rappresentante del Bene e quello del Male. Del resto, è una caratteristica del regista quella di non appiattirsi su storie banali fra buoni e cattivi: a ben guardare, in nessuno dei suoi film questo, in senso stretto, avviene.
In effetti, i due protagonisti si trovano su campi avversi, ma la loro “scorza” è la stessa. Gente dura, che tenta di sopravvivere in un mondo ostile, pieno di trappole, dove oggi sei seduto e domani ti ritrovi col sedere per terra.
Da una parte Shack, il capotreno, un bestione duro che sembra fare una questione personale della lotta ai vagabondi che viaggiano clandestinamente sul suo treno.
Dall’altra, c’è A-Number One, un vagabondo rotto a tutte le esperienze, che sopravvive di piccoli furti e scommesse, come quelle di viaggiare sui treni clandestinamente.
Il loro è un confronto, durissimo, spietato. Ma si indovina un certo rispetto reciproco. Per Shack è una questione d’orgoglio personale: la sua è una vita segnata dalla routine su treni. Il motivo di questa ostinazione nel perseguitare i clandestini sta tutta nel ritenersi padrone assoluto del mezzo a lui affidato. Non gli interessano le ragioni di tanti poveracci che cercano di viaggiare sui treni, sfidando la legge, per racimolare qualche soldo vinto scommettendo su se stessi. Shack (Un curioso forse incrocio tra Shack= Baracca e Shag= Straccio ruvido) rappresenta un potere, un’autorità ottusa, cocciuta, incapace di vedere oltre i propri angusti orizzonti. Ma questo suo atteggiamento denota anche una sorta di accettazione dell’altro; egli accetta la sfida, convinto delle sue buone ragioni, ma consapevole che, facendo così, entra anch’egli nel gioco. Sa bene che i vagabondi rischiano la pelle pur di vincere una scommessa ed egli entra in campo diventando giocatore egli stesso: ma dall’altra parte.
Nessuno riesce a farla franca quando c’è lui, nessuno, tranne A-Number One: Shack (Ernest Borgnine) usa tutti i mezzi, i trucchi e le furberie per scoprire dov’è e costringerlo a gettarsi dal treno, ma A-Number One (ottimamente interpretato da Lee Marvin) è altrettanto abile nel trovare sempre nuovi stratagemmi per non farsi scoprire.
Questo confronto andrebbe inquadrato in un panorama più vasto che è quello della Depressione degli anni Trenta negli Stati Uniti. Centinaia di migliaia di lavoratori a spasso, un’economia allo sbando, una società che si è trovata improvvisamente povera, disoccupata, senza speranze immediate se non il piatto di minestra della mensa dei poveri.
Non c’è lavoro, non c’è nessuno che faccia credito o prestiti. Nella massa di tanti disoccupati e disperati ci sono gruppi di ex-lavoratori che vivono di espedienti, piccoli furti, scommesse.
Non c’è più nulla da sperare. Tanto vale rischiare la vita (ma quale vita?) per raggranellare una gallina, magari, o un paio d’uova, da dividere con gli altri. Una massa di vagabondi, senza fissa dimora che vaga qua e là, sempre nell’intento di sconfiggere un durissimo nemico: la fame.
E’ in questo terribile ambiente che si sviluppa la storia. A-Number One ha qualcosa in più. Ha cuore, cervello e classe. Rappresenta la classe degli emarginati, i vagabondi, i diseredati, i dimenticati. Loro vedono in lui il loro leader, giocano e scommettono su di lui, è il simbolo del riscatto, della rivincita del debole sul forte.
Marvin è la gente, siamo tutti noi; Shack è il Potere, l’Autorità che schiaccia i deboli e protegge i forti.
Shack, pur incarnando l’Autorità, è costretto a passare gran parte della sua vita sul treno. Il suo lavoro è anche la sua schiavitù. Egli si trova come ingabbiato, costretto a vivere su un mezzo mobile che, in luogo di simbolizzare la libertà si caratterizza come vera e propria gabbia mobile.
La sua mancanza di libertà lo rende furioso: perciò vede con ira crescente i gruppi di vagabondi che invece, pur nella loro miseria, vivono una vita da uomini liberi. La libertà è un bene così prezioso che egli glielo vuol togliere. Non può sopportare che altri godano di una prerogativa che egli non può avere. La rabbia di Shack è dovuta soprattutto alla consapevolezza della propria limitazione (paradossalmente rappresentata da un mezzo mobile che lo fa viaggiare in lungo e in largo attraverso immensi spazi).
Ma non solo.
Quando, nel finale, finisce giù dal treno, egli urla con tutta la forza l’appellativo che per lui rappresenta l’ultimo gradino della specie umana e cioè: Vagabondo!
In quel nome c’è tutto e il suo contrario. Vagabondo, nell’universo ristretto di Shack, è ciò da cui egli si è tirato fuori, è la peggiore condizione possibile. Shack ha origini umili, le stesse dei vagabondi. E’ consapevole che da loro lo separa solo quel treno, e sa bene che se non rispetta a puntino le direttive dei superiori, molto probabilmente ritornerà ad essere uno di loro.
Da qui il suo disprezzo nei loro confronti: ritornare ad essere un vagabondo significherebbe il fallimento totale.
L’urlo “Vagabondo” ripetutamente è come una forma di esorcismo sociale e personale. La sconfitta patita da A-Number One rischia di precipitarlo ancora in mezzo alla feccia da cui era riuscito ad emergere.
Non è un semplice confronto personale quello di Shack con A-Number One: è una lotta per non soccombere socialmente, è un duello per restare a galla.
Opposto è il discorso su Marvin: egli è fiero della libertà, la considera un elemento irrinunciabile. Sfidare Shack significa riproporre, ogni volta che vince, il valore della propria indipendenza, liberata da ogni costrizione autoritaria esterna. Marvin è il campione rappresentativo di intere masse lasciate a se stesse da una crisi economica e finanziaria che finisce per premiare, ancora una volta, chi ha le leve del vero potere.
Marvin non è un cane sciolto, non è un “wild one” e nemmeno un elemento asociale che vive di continue sfide insensate e rischiose. Egli è cosciente della propria condizione e scientemente accetta e propone sfide contro l’autorità rappresentata dal treno e dal suo guardiano. Sfidare il treno lo rende vivo, dà un significato ad una vita che altrimenti sarebbe una non-vita. Ma oltre ad una questione tutta personale di autogratificazione, consapevole della sua intelligenza e della sua abilità, decide di metterla a disposizione dei suoi simili. Offre loro, a cui è negata ogni speranza, una sorta di riscatto morale. Dimostra loro che è possibile battere il treno, sconfiggere le forze che ci sono dietro, aggredire e vincere il capitale sul suo terreno.
E’ inutile nascondere una verità lampante: qui ci troviamo di fronte ad una chiara presa di posizione “politica” di Aldrich.
Sono le storture del capitalismo selvaggio, le “bolle finanziarie” dissennate (che noi oggi conosciamo bene anche sulla nostra pelle) ad avere buttato sul lastrico masse intere di lavoratori. Non è solo Nixon (il presidente ai tempi delle riprese del film) il responsabile. Nixon è solo l’ultimo portavoce di potentissime “lobbies” che fanno il bello e il cattivo tempo nella vita sociale degli americani (e non solo).
Interessante, a questo punto e in quest’ottica, analizzare il personaggio di Cigaret (Keith Carradine).
Si tratta di un giovanotto che improvvisamente compare e sfida il n°1. Non si sa chi sia né da dove venga. Si indovina solo una enorme sfrontatezza, una sbruffoneria, una cialtroneria che lascia di stucco i suoi compagni.
Pur vivendo con loro, arraffando quello che si può, soffrendo patimenti, fame e freddo, questo giovanotto non ha nulla a che spartire con loro.Egli vuol diventare il n.1, spodestando Marvin, vuole essere portato in trionfo, festeggiato, adulato. In lui c’è ambizione sfrenata ma nemmeno un briciolo di solidarietà con i suoi compagni di afflizione. Non c’è la cultura della sobrietà, dell’umiltà, compagne indispensabili per una riflessione matura della propria condizione sociale.
Egli vuole arrivare subito, sia come sia, senza curarsi dei mezzi, senza scrupoli.
Egli è il vero cane sciolto, il vero intruso. Sempre pronto a ricevere e mai a dare, sempre pronto a impossessarsi dei trucchi e furberie altrui senza passare prima per un cammino personale di esperienza fatto di sconfitte ed umiliazioni.
Sempre pronto a sfruttare l’aiuto, la solidarietà degli altri e altrettanto pronto a negarli quando ce ne sarebbe bisogno.
Mentre nei suoi simili, nei suoi compagni di sventura, c’è coscienza di classe, senso di solidarietà, desiderio di riscatto collettivo, in lui nulla c’è di tutto questo.
Per questo, paradossalmente, egli diventa un nemico altrettanto pericoloso quanto Shack.
Se vogliamo utilizzare una terminologia più propria, potremmo dire che Shack rappresenta il capitale, Marvin e le masse di vagabondi rappresentano il proletariato e Cigaret il sottoproletariato.
Queste masse di vagabondi, che secondo la dottrina marxista ortodossa, dovrebbero rappresentare il sottoproletariato, qui denotano alcune caratteristiche che le rendono socialmente diverse. Hanno un barlume di coscienza di classe, ad esempio. Possiedono sufficiente capacità organizzativa, pur senza essere sindacalmente inquadrate (d’altro canto sarebbe impossibile, vista la loro situazione di disoccupazione); forse sono disoccupati cronici ma non per libera scelta. E’ una condizione, la loro, derivante dalla perdita del lavoro e non certo perché si tratta di sfaccendati o fannulloni buoni a nulla: si tratta quindi, nel linguaggio sociologicamente proprio, di proletari.
Cigaret, invece, incarna, il volto del sottoproletariato. Insofferente della disciplina, dell’organizzazione, dello spirito di solidarietà e di classe. Pronto a vendersi al miglior offerente, a tradire i compagni pur di salire in fretta gradini più alti della scala sociale.
Mentre, nei confronti di Shack, Marvin ha un atteggiamento di sfida e di sostanziale rispetto, pur misurandosi con lui in confronti potenzialmente mortali (ma entrambi hanno un sostanziale rifiuto della violenza estrema), con il giovane Cigaret Marvin mostra un insolito disprezzo. Mentre lo getta dal treno, Marvin usa parole che andrebbero scolpite per la loro straordinaria precisione ed efficacia: “Ragazzo, tu non hai classe! Torna alle stalle, ragazzo; torna a rubare i polli. Tu non diventerai mai l’imperatore del Nord. Ne avevi la stoffa, ragazzo, ma non il cuore! E si muore! Tu sei tutta ambizione e corpo, nemmeno sai che cos’è il sentimento.Piglia un piattino e vattene in giro. Fa l’accattone. Va di porta in porta ad elemosinare. Fatti commiserare con la tua storia strappalacrime!”.
In tutto il film, Marvin non ha mai parlato così tanto. Stavolta lo fa. Lo fa da vincitore. Ha riscattato ancora una volta i suoi simili. Ha ottenuto ancora una volta, forse definitiva, una vittoria che lo inorgoglisce come uomo e come animale sociale. Ma non può esimersi dallo sputare tutta l’amarezza che ha in corpo verso il giovane che per un po’ aveva pensato di allevare, crescere e a cui forse consegnare la propria eredità fatta di orgoglio, sudore e sentimento. Marvin fa leva su queste due parole: cuore e sentimento. Senza queste due qualità non c’è crescita, non c’è onore, non c’è merito.
Quando Marvin usa la parola “Classe”, lo fa dando una connotazione sociale. La classe è la coscienza di classe, della propria condizione. Quando poi lo invita a tornare a rubare i polli, si tratta in realtà della bocciatura sociale. Deve tornare indietro per imparare, per acquisire con il sacrificio e l’umiltà la coscienza sociale necessaria. Essere imperatore del Nord significa allora essere leader riconosciuto e rispettato dai compagni di povertà, significa essere dotati di abilità e talento ma anche di sicura e solida coscienza di classe.
Essere imperatore del Nord non vuol dire fregiarsi di un titolo prestigioso quanto effimero per blandire la propria vanità. Vuol dire soprattutto avere le qualità per rappresentare i propri simili.
Accanto alla giusta rivendicazione dei propri diritti, alla lotta per ottenerli, Aldrich ritiene che si debba farlo con cuore e sentimento e questo riguarda il prossimo: i suoi compagni, prima di tutto ma poi anche l’avversario. Occorre rispetto anche nei suoi confronti. Nel confronto finale, Marvin impugna un’ascia e potrebbe calarla su Shack. Invece la usa per spingere Shack giù dal treno. Ora il treno appartiene a A-Number One, ai vagabondi, agli emarginati, ai dimenticati. Sia solo per poche ore, la macchina ce l’hanno quelli come Marvin. Ma su di essa possono salire solo coloro che hanno cuore e sentimento, un po’ come dire che solo coloro che sanno unire alla giusta rivendicazione sociale il rispetto e la solidarietà per i compagni e per gli avversari potranno cambiare veramente la società.
L’anno prima, nel 1972, Aldrich aveva diretto “Nessuna pietà per Ulzana”: esemplare scontro fra due civiltà, che sottendeva in realtà al pesante coinvolgimento americano in Vietnam. L’anno successivo, nel 1974, Aldrich dirigerà “Quella sporca ultima meta”, un’altra parabola della lotta fra potere e un altro imperatore del Nord.
Sono questi gli anni ruggenti di Aldrich, quelli cioè dove appare chiara la sua posizione politica nei confronti di un sistema corrotto che egli denuncia, attraverso l’uso sapiente dell’allegoria.
Questi film, pur non letti secondo l’orientamento socio-politico cui si è fatto riferimento, sono molto interessanti per il loro indubbio valore intrinseco, miscuglio indovinato di sapienza nel raccontare, dialoghi sempre sopra la media e stile visivo mai banale.
L’imperatore del Nord (Emperor of the North Pole) (1973) Robert Aldrich
Western classico, anche se alcuni elementi inducono a ritenere che l’ambientazione western sia solo un pre testo per porre alcune questioni di tipo socio-politico. Aldrich, si sa, non è uno “yes man”, cerca sempre di sottrarsi alle ferree regole imposte dagli studios. E’ un personaggio scomodo che spesso si è trovato a pagare personalmente la sua libertà d’espressione, che troppo spesso non collimava con le esigenze della fabbrica dei sogni.
Stavolta ha provato a produrre un film, aiutato in questo (e un po’ condizionato) da Burt Lancaster, che desse ai più l’idea di un buon film western, ma suggerisse ai più avveduti delle similitudini con questioni molto più moderne quale la guerra in Vietnam (siamo nel 1972).
Come si sa, le varie amministrazioni americane e le autorità militari hanno contrastato per anni progetti cinematografici che non fossero più che apologetici circa l’impegno USA nel paese asiatico. Lo stesso Coppola dovette girare le scene nelle Filippine usando elicotteri di quell’esercito (e il film è del 1979, a ben 5 anni di distanza dalla fine del conflitto).
Alcuni registi poco inclini ad abbassare la testa e abituati a ragionare con le proprie idee, pensarono che questa censura poteva essere evitata utilizzando metodi ben noti ai registi costretti a dirigere in regimi poco democratici (pensiamo alla Spagna, alla Cina, al Portogallo ecc.) e cioè la metafora. Il modello che meglio si prestava a questa operazione era appunto la conquista dell’Ovest a scapito della libertà e dei diritti delle popolazione native che vi abitavano e cioè le tribù indiane o pellerossa.
Ecco quindi apparire film come SOLDATO BLU di Ralph Nelson (1970), UCCIDERO’ WILLIE KID di Abraham Polonsky (1969) ecc. La cosa curiosa è che la critica chiama questo tipo di film con l’appellativo di “revisionista”, cosa che non mi sento di condividere, visto il pesante valore negativo che ha acquisito questo termine in questi anni a proposito dell’Olocausto, dove revisionista è chi, appunto, lo nega. Sembrerebbe quasi che si voglia cancellare la terribile macchia di cui si sono resi colpevoli gli Stati Uniti nei confronti dei pellerossa, il che è francamente troppo.
L’argomento in questione qui è la fuga di un capo indiano, Ulzana (realmente esistito, ma in questo caso, credo che il regista si sia ispirato anche ad un altro capo e cioè Victorio, visto che il nome di quel capo indiano viene pronunciato più volte, all’inizio del film, da alcuni anziani pellerossa a cui vengono chieste notizie su Ulzana), dalla solita riserva indiana. La sua fuga è costellata da una serie di uccisioni particolarmente feroci che richiedono l’intervento immediato di un plotone della cavalleria USA e di alcuni scouts come il vecchio McIntosh (Burt Lancaster)e la guida indiana Ke-Ni Tay (Jorge Luke).
La fine vede l’annientamento del gruppetto di Apache, la morte di Ulzana (un ottimo Joaquín Martínez) e quella molto probabile del vecchio scout.
La chiave del film sta però nei dialoghi e soprattutto nelle domande che pone il giovane ufficiale di cavalleria Davison (Garnett DeBuin) a McIntosh e a Luke. “Perché si comportano così?” alludendo alla furia selvaggia con cui gli Apache uccidono e torturano i coloni bianchi. Questa domanda è illuminante perché in primo luogo indica l’ignoranza dell’ufficiale riguardo agli usi e costumi indiani. In secondo luogo, denota la classica filosofia del doppiopesismo occidentale. Se a uccidere siamo noi, siamo nel giusto e la loro morte è un elemento spiacevole ma necessario per gli interessi della nostra civiltà. Se a uccidere sono loro, si tratta di selvaggi e devono essere giustiziati. Spostando queste questioni sulla guerra in Vietnam è facile trovare dei parallelismi. Comunque, a parte il discorso allegorico che pure è elemento chiave, il film si avvale di ottimi dialoghi, di una storia molto ben racc ontata e su un’ambientazione realistica e senza falsi pudori. Gli Apache sono raffigurati in modo convincente (finalmente) e non convenzionale.
Lancaster, more solito, condizionò un po’ la regia di Aldrich, al punto che decisero che ci sarebbero state due versioni, una diretta come voleva Aldrich e l’altra, come la voleva Lancaster. Pare che in realtà ci fossero nella seconda alterazioni nei dialoghi, ma l’impianto rimaneva lo stesso.
Più che un film revisionista, io lo definirei un film adulto, maturo e l’inizio di un certo filone western che chiamerei crepuscolare. Gli indiani sono una razza in estinzione, gli scout pure e i tenentini giovani finiscono per lasciare l’esercito sfiduciati (come nel caso dello splendido GERONIMO, di Walter Hill, 1993, quasi un “sequel” di questo). Sta nascendo una nuova America sulle macerie cruente della precedente.
Di primo acchito, si tenderebbe a dare ragione a Zappoli nel qualificare il film come trionfo dell’ovvietà; poi però, con analizzandolo in profondità, è possibile estrapolare spunti per qualche riflessione che potrebbe risultare interessante. Il primo elemento che affiora è la sostanziale condanna di una società impazzita. Interessante è. a questo proposito, lo stratagemma con cui lo studio legale presso il quale lavora il protagonista riesce a rendere legale ciò che è illegale.Se i cardini su cui la nostra società si regge si basano sulla legalità, e se uno studio legale riesce a rendere legale ciò che legale non è, questo significa che la nostra società si basa, più che sulla legalità, sul suo artificio.
La legalità quindi è una maschera moralistica, dietro cui si compiono i misfatti più orrendi. Il secondo elemento sono i due livelli di comportamento degli individui. Normalmente, e secondo la tradizione, il primo livello è quello del comportamento etico, quello cioè che in condizioni di normalità, è di solito praticato dalla gente. Il secondo è quello condizionato dai fattori alienanti della nostra società: lo status sociale, il carrierismo, il prestigio, il potere, il denaro. Si tratta di comportamenti aggressivi allo scopo di difendere la propria scala di valori materiali (la macchina, il potere, il lusso, il privilegio, ecc.). Il personaggio di Samuel Jackson è un alcolista in lotta per liberarsi dal vizio.
Si sta giocando tutto: lavoro, famiglia, salute. Non è dato sapere i motivi per cui è caduto nel vizio, ma è lecito arguire che si tratta di una persona che, di fronte a seri ostacoli, incapace di affrontarli adeguatamente, si rifugia nell’alcol. La società attuale è spietata con chi non riesce ad affrontarne le difficoltà. E’ una selettività feroce, che fa spesso precipitare l’umanità nella legge della jungla. Il personaggio interpretato da uno scialbo Ben Affleck è invece un chiaro esempio di ciò che è oggi la figura del giovane VIP WASP rampante. E’ un giovane avvocato che lavora per uno studio legale che, a quanto pare, agisce come tutti gli studi legali americani (e non): fare quattrini ad ogni costo, anche passando sopra la legalità. Entrambi i protagonisti, invece di comportarsi come persone civili, immersi in una società super-competitiva e spietata, reagiscono usando la violenza (quella primitiva (Jackson) e quella più raffinata(Affleck).
Questo dimostra che l’uomo sociale attuale, invece di comportarsi da uomo civile, agisce selvaggiamente per distruggere chi gli si para davanti e minaccia di mettere in pericolo il traguardo che si è prefisso. La società quindi si è modificata: dato che le condizioni attuali urbane sono quelle che conosciamo, il livello primo di comportamento è quello selvaggio, è il richiamo della foresta, è l’urlo dell’uomo-bestia deciso a difendere il proprio territorio che oggi si chiama status-symbol. Per arrivare al secondo livello, l’uomo deve necessariamente fermarsi e riflettere.
Ma la nostra società permette questo momento di pausa? O non è un accavallarsi parossistico di accadimenti che portano l’homo urbanus alla distruzione e all’auto-distruzione? Il finale del film è consolatorio, d’accordo. Ma i problemi che il film pone sono inquietanti.
Ipotesi di reato (Changing Lanes (2002) Roger Michell
Il tema della reincarnazione è uno di quegli ambiti che vanno al di là del nostro preteso o presunto razionalismo, soprattutto se questi ambiti entrano nei santuari della nostra civiltà occidentale, come lo è quello dalla legge. Normale quindi che non possa esistere punto di contatto tra questi due mondi. La storia in esame presenta un caso estremo in cui parrebbe che esista un caso di reincarnazione. Il problema però qui è l’approccio a queste tematiche. In effetti, le esigenze cinematografiche non riescono e forse nemmeno possono affrontarle in modo degno. Non convincono le troppe imprecisioni, leggerezze, superficialità che il film presenta. Non si tratta qui di credere o meno nella reincarnazione nè nell’aldilà, quello che non convince è la superficialità e, di conseguenza, la non credibilità dell’intero assunto. Non convince il percorso della progressiva irruzione di Audrey Rose nella mente ( o anima?) della piccola Ivy, non convince il legnoso e prevedibile padre di Ivy, non convi nce l’accettazione troppo veloce da parte della madre di una realtà sconvolgente e devastante.
Possiamo apprezzare, questo sì, la buona e intensa partecipazione emotiva di Anthony Hopkins, ma vi sono troppi elementi nell’insieme ad essere poco credibili, come ad esempio la quasi macchiettistica performance del medico ipnotizzatore, la stessa operazione di tentare di riportare ad una vita precedente una paziente, lo stesso processo, così poco professionale ecc. Mi pare insomma che ci troviamo di fronte a un sostanziale passo falso da parte di un regista peraltro capace di ben altri risultati. Credo che l’approccio ad una tematica così delicata debba essere tentato utilizzando un filo narrativo che si muova giocando, più che sul realismo, sull’immaginazione, sulle nostre paure e angosce davanti al tema della morte. I riferimenti realistici rappresentano un ostacolo che finisce troppo spesso per frenare il potenziale esplosivo del tema della reincarnazione.
Il regista dovrebbe insomma, a mio modestissimo parere, far riflettere, meditare più che narrare una favoletta avvenuta, guarda caso, a New York. in una famiglia della borghesia media ecc. E’ un pò l’ambientazione cara a certi registi (Friedkin docet) che, allo scopo di rendere più credibile l’assunto, scelgono la media borghesia come classe sociale affidabile, facendo leva sul razionalismo anglo-sassone e sulla solidità morale e materiale come elementi base per rendere credibile la trama (come dire: se fosse capitato a una famiglia portoricana, la storia non sarebbe così seria). Probabilmente il regista voleva scuotere un pò il granitico scetticismo dell’americano medio, raccontandogli una storia che sconvolgesse le sue certezze. Purtroppo, il risultato si ritorce contro il regista, incapace di affrontare in modo adeguato queste tematiche, forse perchè vitt ima anch’egli di quel famoso granitico scetticismo e razionalismo occidentale che vorrebbe invece attaccare.
L’aspetto più interessante, a mio avviso, di questo film è la doppia traiettoria compiuta dai due protagonisti, Ed Norton e De Niro, dal momento in cui si conoscono. Questi personaggi, infatti, opposti per carattere, posizione sociale e convinzioni religiose, finiscono per intraprendere un percorso morale che li porta ad abbandonare progressivamente la loro “area” individuale per occupare quella dell’altro.
L’elemento che è chiamato a facilitare questo doppio percorso verso l’opposto è una splendida giovane, Milla Jovovich, la ragazza di Stone. Chiamata a fungere da elemento perturbatore, compie a meraviglia il suo ruolo, riuscendo a sedurre l’agente (De Niro-Mabry) che deve a verificare le reali motivazioni che spingono il detenuto (Norton-Stone) a chiedere la libertà vigilata. E’ l’unica del trio, la Jovovich, a rimanere quella che è: in effetti, essendo il perno attorno a cui ruota la vicenda, non può essere altrimenti. A cambiare sono l’agente che poco a poco si avventura i n un campo a lui totalmente ignoto e cioè quello della trasgressione e dell’illegalità. La Jovovich, d’accordo con Stone, lo trascina poco a poco in un vortice di passione folle che sconvolge la sua vita. Da fedele praticante della Chiesa Episcopale, sposato ad una fervente (ed esageratamente devota) correligionaria, ligio al suo dovere, scrupoloso fino al dettaglio, diventa progressivamente un uomo allo sbando, incapace di controllare ormai le sue emozioni e disposto a compiere gravi infrazioni alla legge e a rischiare di finire anch’egli un detenuto come gli altri.
D’altro canto, Norton-Stone comincia a cambiare dal momento in cui comincia a conoscere De Niro-Mabry. La solidità morale, la sua apertura mentale, i suoi principi lo turbano. Abituato a prendere con la violenza, ad arraffare quel che trova, a infischiarsene dei sentimenti e delle persone, comincia a riflettere. Il suo graduale cambiamento lo vediamo dal suo comportamento e dal suo aspetto. Rifiuta un approccio masturbatorio con la sua ragazza (la Jovovich); in luogo delle treccine, decide di pettinarsi in modo meno eccentrico, modifica poco a poco il suo linguaggio così scurrile. Il giochetto che aveva escogitato per incastrare, d’accordo con la ragazza, De Niro, comincia a non interessarlo più di tanto.
Il finale è intelligente: i due protagonisti si ritrovano soli. Stone ottiene la libertà, ma ormai la sua vita è cambiata. De Niro, ormai al suo ultimo giorno di lavoro nel penitenziario e conscio del fallimento cui è andato incontro e della facilità con cui è stato incastrato, non riesce a ritrovarsi. L’unica a rimanere se stessa è la Jovovich, che parrebbe non provare particolare dispiacere per la rottura del suo rapporto con Stone, vista la sua allegra disponibilità ad accompagnarsi con il primo amichetto simpatico che trova.
Se il cinema fosse una scienza, si potrebbe dire che l’elemento negativo qui diventa positivo e che quello positivo diventa negativo, portando ad un azzeramento sostanziale dei termini iniziali del problema. In realtà, e non potrebbe essere altrimenti, le cose non stanno esattamente così. Questa esperienza fa chiarezza su due caratteri essenzialmente incerti. De Niro ha vissuto una vita grigia, controllata, repressa che ne ha fiaccato lo spirito di libertà personale. L’occasione che gli si presenta finisce, dopo qualche esitazione iniziale, per liberare il suo desiderio di evasione dai paletti convenzionali che hanno segnato fino ad allora la sua opaca esistenza. Compreso il trucco che lo ha incastrato, ne rimane sconvolto. Non si realizza compiutamente questo suo desiderio d’evasione e rimane, suo malgrado, prigioniero di se stesso e delle sue convinzioni. Lo sguardo al cielo finale potrebbe essere un’invocazione disperata di aiuto.
D’altra parte Stone, ha compito passi sostanziali verso una redenzione morale che sembrerebbe potergli dare la serenità e la saggezza di cui sembra avere bisogno. In realtà, egli cammina solo nella notte. E’ un uomo solo, perchè ha abbandonato un mondo in cui non si riconosce più e non ha certezze su come reimpostare la sua vita. Forse troverà quel che cerca, forse no. Questa incertezza è uno dei punti migliori del film. Rifuggendo dalle soluzioni di comodo lascia allo spettatore trarre le sue conclusioni o, se vogliamo, previsioni.