Voiello for ever!

«Girolamo è tutto quello che noi non siamo. Ed è per questo che siamo qui riuniti oggi, per celebrarlo. Perché noi non siamo come lui e perché vorremmo essere come lui, che è il motivo per cui lo contempliamo e lo adoriamo, e perché Girolamo sa volere bene e sa anche essere un amico vero». E infine: «Girolamo è il mondo che soffre, Girolamo è il mondo che ama e ringrazio Dio di avermi dato la straordinaria opportunità di essere il suo migliore amico». «Tu, solo tu, che hai conosciuto a fondo lo strazio della sofferenza, la bellezza del sacrificio e la forza dell’amore, sappi che non ti dimenticherò mai Girolamo, mai».

Questo elogio funebre, uno dei più intensi e commoventi che io abbia letto o udito, dà la misura delle capacità e del valore del comunque controverso, diseguale, sbilanciato di THE NEW POPE, di Paolo Sorrentino. I nove episodi della serie confermano una volta per tutte quanto già si sapeva. Eppure stavolta, grazie anche agli sceneggiatori, ha aggiunto qualcosa in più e cioè maggiore profondità emotiva ed intellettuale.

La serie è interessante soprattutto grazie alle capriole stilistiche, alle imprevedibili gag che sconcertano il pubblico. Il regista si diverte a stupire, a disorientare il pubblico, proponendogli, ora un sapientissimo discorso sul rapporto tra cristiano e fede, su quello che egli dovrebbe essere e sui propositi da adottare; subito dopo, ancora immersi nella riflessione di quanto udito, ci troviamo di fronte a un’esplicita scena di sesso, non trascurando, sia chiaro, le relazioni omosessuali, oppure a una larvata insinuazione circa la tossicodipendenza del nuovo papa. A volte, la narrazione corre lungo i binari della farsa, altre volte lungo quelli della denuncia dei mali della Chiesa, tra cui si riconoscono chiaramente la lotta di potere, l’invidia, l’ipocrisia, l’immoralità, l’abuso del potere nei confronti del personale (suore, piccoli funzionari, personale di rango inferiore).

A volte, il regista si diverte ad introdurre elementi di pura fantasia surrealista (come i vermi che escono dalle persone) o di pura comicità (di cui l’ineffabile autore è quasi sempre il cardinale Voiello, vedi le esternazioni estemporanee sulle vicende della squadra di calcio di Napoli, o l’imperturbabilità con cui esprime senza imbarazzo le proprie mire, le proprie manchevolezze o addirittura la scena finale in cui, eletto papa, congeda in privato uno scugnizzo con una colorita parolaccia).

Risaltano d’altro canto le interpretazioni di Jude Law e John Malkovic. Del secondo, soprattutto, emerge una personalità spiccatissima, circondata da un alone di mistero, che contribuisce a rendere oltremodo inquietante il suo personaggio. La voce modulata (è necessario ascoltare la versione inglese per apprezzarla), la lentezza dell’eloquio, l’uso di un inglese colto e aristocratico, il portamento nobile capace di gesti di ineffabile dolcezza e di ira quasi scomposta, rilevabile con l’uso di uno sguardo penetrante, rendono enigmatica la sua figura e contribuiscono ad accettare l’impossibile finale, in cui egli, rinunciando al magistero papale, fa ritorno alla sua Scozia, finalmente rappacificato (a quanto è dato di capire) con i propri genitori, che mai gli hanno perdonato la morte del fratello.

Jude Law dimostra tutte le capacità istrioniche di cui è capace, ora fulminando con il solo sguardo il malcapitato interlocutore, ora dando segno di impensabile e imperscrutabile dolcezza, ora dispensando giudizi o annunciando intenzioni che vorrebbero scuotere dall’interno i cristiani, infondendo speranze di trasformazioni radicali all’interno della Chiesa e, maxime, del Vaticano, scegliendo, una volta constatata l’impossibilità di attuarle, di immolarsi donandosi in toto alla folla o auto-estinguendosi nelle acque della sua terra.

THE NEW POPE esprime tutto l’agnosticismo verso le forme curiali, esteriori della Chiesa e la condanna senza appello del marciume che vegeta all’interno del Vaticano di cui il repulisti deciso in extremis sembra vanificato causa l’elezione del papa più democristiano, più controverso e più andreottiano possibile e cioè Voiello. Ma si respira, nei momenti  “seri” ad ennesima riprova del carattere ambiguo della serie, una profonda moralità, un estremo bisogno di pulizia, di etica sociale e politica, arricchito il tutto da una sceneggiatura impeccabile. Sorrentino è l’albatros baudelairiano capace di librarsi a vette sublimi per poi confondersi con le esalazioni fetide provenienti dalla stiva della nave su cui, stanco di volare, si posa di tanto in tanto, anelando di riprendere il volo, ma alla fin fine, non del tutto disgustato dal contatto plebeo, con passo un po’ malfermo, finisce per accettarne le facili seduzioni e le a volta scontate a volte argute esternazioni. E il volo non è detto che alla fine abbia luogo.

 

Quel rompiscatole di Kirk

Alla fine degli anni ’50, si presenta a casa di Dalton Trumbo un distinto signore che è appena sceso da una lussuosa automobile con autista. “Sono Otto Preminger – dichiara con tono sicuro- Vorrei affidarle, signor Trumbo, la sceneggiatura di un film sulla nave che trasportò in Palestina molti ebrei reduci dai campi nazisti, la nave Exodus. Io so che lei non può lavorare in via ufficiale, ma so che ha scritto delle sceneggiature che ho molto apprezzato, con un altro nome. Dalton conosce Otto, i suoi guai con Darryl Zanuck, la sua testardaggine, ma i film che ha realizzato gli sono piaciuti. Gli dice che se ne può parlare.

Pochi giorni dopo, riceve la visita di un attore che ha da qualche anno creato una sua casa di produzione. E’ noto a tutti per la sua bravura, ma anche per la sua ambizione e per il suo caratteraccio. Si chiama Kirk, Kirk Douglas, ma il suo vero nome è Issur Danielovitch, figlio di una coppia di bielorussi venuta negli USA in cerca di fortuna, analfabeti e poverissimi, al punto da sbarcare il lunario raccogliendo, per poi venderli, stracci. Ha in mente una storia ambientata nell’antica Roma: il protagonista si chiama Spartaco, uno schiavo trace che si ribella e sfida Roma con un esercito raccogliticcio di schiavi che si sono uniti a lui, nella speranza di riacquistare la libertà. L’idea è un po’ la storia di una ripicca. William Wyler lo aveva all’inizio tenuto presente per interpretare Ben Hur, poi però alla fine scelse, come ben si sa, Charlton Heston. Come consolazione, gli aveva offerto la parte di Messala, ma Kirk sdegnosamente rifiutò e se la legò al dito. Ora era arrivato il momento. SPARTACUS sarebbe stata la risposta. Conosceva bene Trumbo e le sue vicissitudini, ma lo riteneva fra i migliori, se non il migliore, scrittore di Hollywood.

Otto Preminger

Anche a Douglas, Dalton ripeté le cose dette a Preminger e cioè di essere sulla lista nera. “Non me ne frega niente – fu la risposta – Lei è il migliore scrittore e voglio che sia lei a scrivere la sceneggiatura del mio film”. In realtà, all’inizio aveva accettato di pagarlo sotto falso nome, poi, com’era nel suo carattere, decise di mettere il suo nome nei titoli.

Questa scena è descritta in modo convincente nel film di Jay Roach L’ULTIMA PAROLA- LA VERA STORIA DI DALTON TRUMBO  (Trumbo)(2015) in cui Dalton è interpretato alla grande da Bryan Cranston (ALL THE WAY, 2016). Per il ruolo di regista, Kirk scelse Stanley Kubrick: RAPINA A MANO ARMATA (The Killing)(1955) gli era piaciuto molto. Ora, col senno di poi, pensare di mettere insieme Douglas e Kubrick e cioè un rompiscatole meticoloso, accentratore e prepotente con un uomo geniale, ma tormentato e mai soddisfatto, era una follia. Durante la lavorazione, Kirk subì innumerevoli minacce sia da parte di scagnozzi della HUAAC (l’ente che indagava, su iniziativa del senatore McCarthy, sulla presenza di comunisti a Hollywood), sia da squallidi personaggi come Hedda Hopper, un’attricetta mancata che scriveva articoli al vetriolo e pettegolezzi vari, molto temuti, sul Los Angeles Times.

Kirk andò avanti per la sua strada, SPARTACUS fu lodato dalla critica e apprezzato dal pubblico. In più, fu uno, se non il migliore, dei più bei film su Roma antica. Inoltre, cosa fondamentale, il nome di Trumbo apparve nei titoli e questo contribuì a rendere ormai superata la famigerata lista nera., permettendo a Trumbo e agli altri nelle sue stesse condizioni di lavorare alla luce del sole.

Laurence Olivier (M.Licinio Crasso) in SPARTACUS

Coloro che lo conoscevano concordavano sul fatto che lavorare con lui era impresa durissima: Kirk era un ottimo attore ma tendeva ad andare oltre il suo ruolo. La sua personalità era così forte da condizionare coloro che dirigevano il film. Fece, ad esempio, licenziare Anthony Mann (sì, proprio lui!), ordinò a Kubrick di modificare la sceneggiatura di ORIZZONTI DI GLORIA (Paths of Glory)(1957), rompeva le scatole ad attori, registi e sceneggiatori: il bello è che quasi sempre aveva ragione. La sua ricerca della perfezione era ossessiva, intransigente, assoluta. Un altro Kubrick, insomma.

Stanley Kubrick

Al cinema era arrivato dopo aver frequentato l’Università, il servizio militare in Marina durante la guerra e qualche tentativo in teatro. All’Academy of Dramatic Arts conosce Lauren Bacall (il cui vero nome era Betty Perske) e Dina Dill, un’aristocratica che poi sposerà. Sarà la Bacall a presentarlo a Hal Wallis (da poco alla Paramount), il notissimo produttore che due anni prima aveva piantato Jack Warner dopo l’umiliazione inflittagli alla premiazione di CASABLANCA (avendo curato lui tutta la produzione del film, si aspettava di essere chiamato sul palco per l’Oscar, ma Warner, ammalato di megalomania, lo precedette e i suoi familiari impedirono fisicamente a Hal di muoversi dalla poltrona). Gli venne affidata una parte nel film LO STRANO AMORE DI MARTA IVERS, (The Strange Love of Martha Ivers) in cui interpreta il ruolo di un vile arrampicatore sociale che arriva ad essere nominato procuratore distrettuale solo per le sue frequentazioni sociali. Quel ruolo di debole e sleale lo ostacolò non poco per la sua carriera futura, ma gli fece conoscere il regista, Lewis Milestone, che più tardi accusò di non farsi rispettare ma che gli insegnò a recitare rilassato, senza preoccuparsi della cinepresa. Una lezione che si sarebbe rivelata fondamentale.

Van Heflin e Kirk Douglas in LO STRANO AMORE DI MARTA IVERS

Ritengo inutile ricordare la trafila che da allora in poi lo portò a diventare uno degli attori più apprezzati al mondo. Vorrei qui solo ricordare alcuni suoi film che, a mio modesto avviso e in modo personalissimo hanno significato qualcosa. Il primo è senz’altro CHIMERE (Young Man with a Horn, 1950), diretto da Michael Curtiz, alla Warner Bros. E’ un film che mi ha segnato. La sceneggiatura di Carl Foreman ed Edmund North, dal romanzo di Dorothy Baker, è netta, affilata come una lama d’acciaio e fa male. Il film oggi è sparito dalla circolazione, ma negli anni ’60, la RAI lo mandò in onda diverse volte. E’ la storia di un trombettista (ispirato un po’ a spanne a Bix Beiderbecke) che arriva al successo, ma tormentato dai suoi demoni interiori e da una relazione castrante con un’avvenente Bacall, finisce per autodistruggersi. Un film pieno di energia e ricco di sfumature noir e note malinconiche, quasi un capolavoro.

Doris Day e Kirk Douglas in CHIMERE

Il secondo è L’ASSO NELLA MANICA,(The Ace in the Hole-The Big Carnival) della Paramount, 1951, diretto da Billy Wilder. Un episodio curioso: dopo il film, Kirk si fermò a soccorrere un ferito in un incidente con la macchina. Chiese a un reporter che passava in quel momento di dargli una mano. Quello, senza scendere, gli rispose:” Mi spiace amico, ma devo correre al giornale per l’edizione, non ho tempo da perdere!”. Kirk, durante la lavorazione, era un po’ perplesso perché riteneva che la figura di quel giornalista, protagonista del film, fosse troppo cinica, troppo studiata a tavolino per essere autentica. Aveva insistito non poco per convincere Wilder ad ammorbidire la figura del giornalista.

Kirk Douglas in L’ASSO NELLA MANICA

Invano. Quell’episodio lo fece ricredere. C’è tutto Wilder in questo film: cinismo, disprezzo per i giornalisti, disprezzo per il mito del successo made in USA. I critici, in buona parte giornalisti, si sentirono offesi e boicottarono il film. La stessa Paramount lo ritirò dalla circolazione, distribuendolo in seguito con un altro titolo (THE BIG CARNIVAL al posto di THE ACE IN THE HOLE), ma in seguito il film venne osannato come vero capolavoro e Kirk fu acclamato per la sua interpretazione perfetta.

Kirk Douglas e Richard Benedict in L’ASSO NELLA MANICA

Il terzo film è ORIZZONTI DI GLORIA, prodotto dalla Bryna, la casa di produzione di Kirk, così chiamata dal nome di sua madre è tutto da raccontare. Il film racconta, con alcune libertà, un fatto realmente accaduto nel 1915 sul fronte francese, quando un reggimento si rifiutò di uscire dalle trincee per attaccare il nemico (tedesco), sapendo di andare incontro ad un’ennesima strage per di più inutile.

Kirk Douglas in ORIZZONTI DI GLORIA

Dopo un processo presso la corte marziale, vengono condannati a morte tre uomini di cui il colonnello Dax (Kirk Douglas) aveva svolto il ruolo di difensore. Film anti-militarista al punto che i finanziatori del film, la Unirted Artists, pretendevano che ci fosse un lieto fine, temendo che, altrimenti, la gente si sarebbe tenuta lontana dalle sale. Ma Kirk si oppose fermamente ed arrivò a convincere Kubrick, il regista, a mantenere l’impianto originale della storia, andando contro i suoi stessi finanziatori. Ecco qui che Kirk si fa sentire per la prima volta e dimostra tutto il suo carattere e la sua determinazione. Il film fu girato in Germania, perché i francesi si opposero alle riprese a casa loro. In tutto il mondo uscì nel 1958, in Germania nel 1960 (per non fare uno sgarbo ai francesi), in Francia solo nel 1975! (la stessa cosa accadde a Pontecorvo con LA BATTAGLIA D’ALGERI).

Il quarto è SPARTACUS , quello che preferisco.

Kirk Douglas in SPARTACUS

A mio avviso, è il miglior film su Roma antica, pur se con notevoli inesattezze storiche, ma, d’altro canto, non sarebbe possibile realizzare nessun film con assoluto rigore storico. Kirk qui, fece, a differenza di altri casi, il pompiere. Trumbo aveva scritto una sceneggiatura con i controfiocchi, ma Kubrick si era messo in testa di fare del film una sorta di manifesto politico contro gli imperialismi del XX secolo, in specie quello americano. A lui interessava fare di certi personaggi come Lentulo Batiato (Peter Ustinov) e Marco Licinio Crasso (Laurence Olivier), i rappresentanti di un potere dispotico e corrotto. Non gli interessava certo mostrare le caratteristiche fisiche di Spartacus o le scene d’amore tra lui e Varinia: troppo hollywoodiane. Invece, la scena di seduzione dello schiavo Antonino insidiato da Crasso, proprio gli stava a cuore. La scena era osée, per quei tempi e venne tagliata dalla censura, e Kubrick non poté farci nulla. Kirk vedeva che Kubrick gli sfuggiva dalle mani.

Kirk Douglas in SPARTACUS

Dopotutto aveva investito in quella produzione il proprio capitale e non poteva permettersi di sbagliare; tra l’altro ORIZZONTI DI GLORIA aveva problemi con la censura e la Francia l’aveva rifiutato. La versione finale risultò ampiamente tagliata e il finale poco comprensibile. Per fortuna, nel 1991 il film venne restaurato con il reinserimento delle scene tagliate, tranne una (quella della (seduzione) di cui si era perduto il sonoro e che venne risonorizzata con lo stesso Tony Curtis e la voce di Anthony Hopkins al posto di quella di Olivier, nel frattempo passato a miglior vita. Douglas, durante le riprese, sembrava un pazzo; pretendeva continui cambiamenti al copione, interrompeva tutto per documentarsi meglio, cacciava a pedate chi non era d’accordo. Lo stesso Anthony Mann fu licenziato perché troppo lento; in 10 giorni aveva girato solo 16 minuti di pellicola. In seguito Mann si lamentò del carattere troppo autoritario di Kirk e la versione ufficiale parlava di una netta disparità di vedute tra produttore e regista. Pure Kubrick non fu molto contento: il film non era come lui avrebbe voluto. Il solo ad essere moderatamente soddisfatto fu Howard Fast, l’autore del libro da cui il film era tratto. Anche lui era stato un “blacklisted”, come Trumbo e la larvata denuncia sociale del film era una sorta di piccola vendetta, Pure Kirk era abbastanza contento: gli sembrava di essere riuscito a coniugare critica sociale e favore del pubblico.

Dalton Trumbo mentre scrive nella vasca da bagno

Sarei tentato di parlare ancora di alcuni altri film che, a mio parere, superano la sufficienza come SOLO SOTTO LE STELLE (Lonely are the Brave)(1962) di David Miller, oppure UOMINI E COBRA (There was a crooked Man)(1970) di Joseph Mankiewicz e di una sua regia degna di nota in I GIUSTIZIERI DEL WEST (Posse)(1975), ma rischierei di dilungarmi. Mi interessava soprattutto ricordarlo nei quattro film citati che, a mio parere, mettono in luce le sue enormi capacità di attore e rivelano i vari aspetti del suo carattere. Con lui muore l’ultimo dei “grandi” di una Hollywood ormai scomparsa, osteggiata, criticata, ma, forse, rimpianta.

 

 

 

 

 

Cinque anni senza il Capitano

 

Capitano, mio Capitano, sono passati cinque anni da quando hai deciso di farla finita. Mi hai lasciato orfano di te e non riesco a colmare il vuoto con qualcuno o qualcosa che almeno assomigli alla dolce e geniale follia a cui mi avevi abituato. Mi hai lasciato solo come quando se ne andò, non di sua volontà, John Lennon, o Alberto Sordi e scopro d’un tratto che la vita è tutto un susseguirsi di addii, un continuo amare qualcuno e dovere poi rinunciare a lui, contro la tua volontà, obbligandoti così a fare fronte al mistero della vita cercando di trovare delle risposte che aiutino a proseguire.

Walter Whitman non riusciva a darsi pace quando apprese che il suo Capitano era stato assassinato mentre era a teatro, per opera di un folle che aveva urlato, ancora con la pistola fumante in mano: ”Sic semper tyrannis!”.

O Capitano! Mio Capitano! Il nostro viaggio tremendo è terminato; la nave ha superato ogni ostacolo, l’ambìto premio è conquistato.

I geni non dovrebbero mai morire. Dovrebbero restare come fari per la nostra povera umanità che, in luogo di migliorare, troppo spesso s’arresta, o arretra. Essi sono, come dice il Nostro Poeta: “[…] come quei che va di notte, che porta il lume dietro e sé non giova, ma dopo sé fa le persone dotte”.

“Ma o cuore! Cuore! Cuore! O gocce rosse di sangue, là sul ponte dove giace il mio Capitano caduto, gelido, morto”.

Morto come John, il Capitano di un’America che credeva, ingenuamente, che un mondo nuovo era in arrivo, mentre Jacqueline cercava, altrettanto ingenuamente, di raccogliere pezzi del suo cervello spappolato su una macchina a Dallas, Texas. O gelido come suo fratello Bob, anni dopo, gelido come il futuro che credeva di rilanciare. Piangi America! Piangi, se oggi sei solo un simulacro delle illusioni del mio Capitano!

Io non ho mai avuto un professore come Keating. Se lo avessi avuto, oggi sarei un altro. Forse sarei su una nave dell’Open Arms, o forse farei parte di un’équipe di Médecins sans frontières. Sarei saltato sicuramente su un banco a sputare tutta la mia rabbia verso chi pretende di insegnare senza sentirsi parte di coloro a cui si rivolge.

Perché te ne sei andato, mio Capitano? Mi sento tradito, abbandonato. Mi manca il tuo entusiasmo, Capitano, la tua incrollabile speranza che il mondo migliorerà un giorno. E invece qui, mio Capitano, tutto crolla, tutto sembra franare, come le mie speranze, le mie idee, la mia fede e i miei valori.

Ma come, tu che hai creato una radio laggiù nel Vietnam che ha rivoluzionato il concetto stesso di radio, ridendo e masticando amaramente, nonostante le umiliazioni di chi pretendeva di darti lezioni, regalando momenti di spasso a molti che, ore o giorni dopo, avrebbero lasciato la vita su un campo di riso oppure in una giungla avversa, tu, proprio tu hai deciso di farla finita?

Capitano, mio Capitano, vorrei essere arrabbiato con te, ma non ce la faccio. Se te ne sei andato, vuol dire che proprio non ce la facevi più. Non te la sei proprio sentita di metterti una pallina rossa sul naso e cercare di non pensarci, eh? Quanti sono i Patch Adams che sono germogliati grazie a te e hanno contribuito a rendere meno orrenda il termine di vita di tante piccole creature? O quanti sono i disadattati, ormai senza speranza che, grazie a te, hanno avuto un risveglio temporaneo che ha fatto loro riscoprire ciò che avevano perso per sempre, che il mondo, dopotutto, riserva ancora momenti meravigliosi.

No, non riesco a non commuovermi, anche dopo tanti anni, nel vederti lasciare la tua aula, la tua classe, e sentire la voce di uno dei tuoi ragazzi che, in barba a tutte le regole, al grigiore, all’ottusità del sistema, sale su un banco e ti invoca:” Capitano, mio Capitano!”.

Che insegnante sarei stato se fossi come te, mannaggia! Avrei perso il lavoro, certo, ma vuoi mettere che soddisfazione? La mia vita avrebbe avuto un senso che oggi, forse, non ha.

Capitano, mio Capitano. Grazie. Così, semplicemente, umanamente.

 

Paolo, apostolo di Cristo

 

Ci sono essenzialmente due modi di fare un film su San Paolo. Il primo è quello di trovare un attore adatto, mettergli in bocca qualche frase, inframmezzandole con alcune sue parole presenti negli ATTI DEGLI APOSTOLI, inventarsi scene di sana pianta, all’interno di un’ambientazione abbastanza fedele storicamente, metterci un po’ di pathos e un po’ di ritmo e il gioco è fatto.

Oppure c’è un altro modo ed è quello di mostrare al pubblico, sprovveduto, la figura rivoluzionaria e gigantesca di questo titano della cristianità. Questo significa mostrare la sua formazione, la sua iniziale furia persecutrice verso i cristiani, la conversione sulla via di Damasco, la frequentazione della prima comunità cristiana di Gerusalemme, il Concilio di Gerusalemme, le prime diatribe sulla necessità di inserire la nuova religione all’interno di quella ebraica, sotto la legge mosaica (tesi cara alla comunità di Gerusalemme), oppure distaccarla da quella senza però condannarla e renderla indipendente, aperta ai pagani, aperta al mondo (Katholikòs), fondare la nuova religione dandole una dottrina nuova, rivoluzionaria, aprire comunità cristiane in tutto il mondo conosciuto e tantissime altre cose. E finire poi assieme a San Pietro in un carcere orrendo per morire poi decapitato, lasciando un’eredità più che mai attuale.

Tutto poi si complica quando viene introdotto il personaggio di Luca evangelista, autore del racconto contenuto negli ATTI, di cultura greca, non ebreo (era nato ad Antiochia), che non ha mai conosciuto Cristo (come del resto, anche san Paolo), medico e conoscitore della Bibbia, oltre che dell’ebraico e del latino.

Il regista, Andrew Hyatt, poi, è un giovane americano (è nato nel 1982), autore di 4 lungometraggi di cui due di tema religioso (questo e FULL OF GRACE). Il cinema americano, si sa, è molto attento alla voce “incassi” e se non ci sono all’inizio forti capitali per una produzione “Kolossal”, ci si deve chiedere come fare per interessare un pubblico sempre poco disposto ad andare in sala a vedere un film di tema religioso. Per farlo, bisogna assolutamente evitare di presentare situazioni o problemi che non siano in linea con l’ortodossia (pensiamo alle comunità cristiane del MidWest) come invece fece, a suo tempo Scorsese con L’ULTIMA TENTAZIONE DI CRISTO sollevando un’ondata di proteste. Oppure, magari diventare più realisti del re, e mostrare in modo crudissimo la Passione di Cristo (come ha fatto Mel Gibson), giocando tutto sulla spettacolarità spesso ripugnante, invece che sulla Parola e sulla riflessione. A volte si crede che, mescolando abilmente le carte, si possa raggiungere il successo insperato.

Nel film di Hyatt, invece, non c’è una spettacolarità particolare, c’è povertà di mezzi, rinuncia ai grossi nomi. Inoltre, Hyatt si arrischia a parlare di san Paolo attraverso la persona di Luca evangelista. Un rischio notevole, perché si sposta l’attenzione su Luca, mettendo in secondo piano san Paolo. Il film si apre con l’arrivo di Luca a Roma e finisce con la decapitazione di Paolo, dopo che Luca è partito per andare a predicare in Oriente. In effetti, questa potrebbe essere una mossa intelligente del regista il quale, per evitare di trattare il tema di san Paolo in modo diretto, lo fa attraverso gli occhi di Luca. In questo modo, evita le sabbie mobili della più che probabile semplificazione o banalizzazione, del sicuro svilimento della figura del santo.

 

 

Ma anche così le insidie sono enormi. C’è ad esempio la mancanza della figura di san Pietro. Eppure in quel carcere c’era anche lui ed erano insieme fino al giorno (comune ad entrambi) del supplizio. Perché questa omissione? Togliendo Pietro, si compie una scelta molto discutibile e, a mio avviso, sbagliata. E’ come spezzare a metà la Chiesa, fondata sulle figure di quei due giganti, diversi ma anche molto simili e soprattutto perché non ci può essere Chiesa prescindendo da uno dei suoi due fondatori.

Le visite di Luca a san Paolo in carcere sono frutto di fantasia, anche se c’è qualcosa che potrebbe avvalorare la tesi della presenza a Roma di Luca, nella lettera che Paolo scrive a Timoteo, in cui si lamenta di essere stato abbandonato da tutti e che solo Luca è con lui. Questi, stando a quanto scrivono molti studiosi, redasse il suo libro avvalendosi delle testimonianze raccolte nel corso dei suoi spostamenti e soggiorni in varie comunità cristiane che si erano andate costituendo già appena dopo la resurrezione di Cristo. Però Hyatt preferisce mostrare Paolo in persona che racconta le sue esperienze e le sue riflessioni messe per iscritto da Luca, destando i sospetti del comandante romano del carcere. Questa scelta ha lo scopo di dare risalto alla figura di Paolo, che altrimenti sarebbe rimasto nell’ombra. In questo modo, il pubblico capisce che Paolo è il Maestro e Luca una figura di diversa caratura. Ma anche così, non si percepisce la grandezza di Paolo e il valore della sua rivoluzione fondativa del Cristianesimo. Si intuisce invece la sua saggezza, la sua profondità. Ma questo non è sufficiente per delineare la sua figura. Non si può ignorare questo, magari dando per scontato tutto il resto (e per resto intendiamo la parte più importante). Non si può parlare di Paolo, dando per scontato il significato della sua grandezza, mortificandolo nella rappresentazione di un vecchio saggio che affronta con dignità il carcere e il supplizio.

Questo è un atteggiamento valido quando si parla di personaggi pubblici moderni cui i media hanno riservato ampi spazi per interviste, articoli, intromissioni nella sfera privata diventati ormai di pubblico dominio. Si può quindi parlare di un episodio della vita di Nixon, Edgar Hoover, dello stesso Lincoln senza incorrere nella banalizzazione (magari però questa avviene per la pochezza dell’analisi del regista). Di questi personaggi si sa molto e quindi, vedendo il film, si parte già con un bagaglio di conoscenze che aiutano a capire meglio il personaggio analizzato in un singolo momento della sua vita.

Ma di Paolo cosa si sa? E soprattutto, cosa ne sa la gente comune? Vederlo, anche se con gli occhi di Luca (di cui sappiamo ancora meno) per qualche momento della sua vita, ci aiuta a farcene una vaghissima idea e non certo a capire la portata della sua missione.

Non si riesce quindi a comprendere perché Hyatt abbia dato questo titolo che risulta fuorviante, fornendo così un pessimo servizio alla conoscenza di san Paolo. La fede, parafrasando le parole di suor Maria ne LA GRANDE BELLEZZA, (2013) di Sorrentino, non si racconta, si vive.

NON SI RACCONTA, SI VIVE!

Per saperne di più, a chi non ha tempo né voglia di leggersi le Lettere, consiglio di andare su RAI STORIA e vedere la puntata di PASSATO E PRESENTE, diretta da Paolo Mieli, su San Paolo e la Chiesa, con l’intervento magistrale del professor Alberto Melloni.

 

 

HOSTILES Politicamente corretto Vs. Realtà

Politicamente corretto, ossia lo strato ideologico che si deposita sul nostro modo di pensare e lo insidia, lo permea con la (supposta) forza dell’idea di civiltà che dovrebbe (dico dovrebbe) essere il nostro faro.

Civiltà? Quale? E che cos’è la civiltà? Viene spontaneo ricordare Paul Valéry:

Nous sentons qu’une civilisation a la meme fragilité qu’une vie (La crise de l’Esprit, première lettre)

Il grande poeta francese lo scriveva nel 1919, oscuramente (forse) consapevole di quanto sarebbe successo vent’anni dopo. Quale civiltà? “Libertà, quanti delitti si commettono in tuo nome” sospirava Madame Roland attimi prima di essere ghigliottinata; basterebbe sostituire la parola ‘libertà’ con ‘civiltà’ per darci modo di sospirare anche noi? La nostra civiltà si fonda sul diritto, sulla legge; tutto giusto, basterebbe citare Cicerone nella sua orazione Pro Cluentio quando scrive.” Legum servi sumus, ut liberi esse possimus”: bello, bellissimo. Peccato che lo stesso oratore latino nella Pro Milone scrivesse:” Silent leges inter arma”. E allora? Allora dobbiamo accettare, sempre con Valéry, che le nostre civiltà siano mortali e che questo strato, questo ‘overlay’ fatto di tolleranza, di apertura verso l’altro e il diverso, di capacità di ascoltare e capire, sia flebile, fragile, a volte perfino evanescente si vada a situare nella categoria del “dobbiamo” più che in quella del “siamo”. Il politicamente corretto è ideologia che spesso si scontra con la dura realtà quotidiana, con ciò di cui siamo fatti e cioè sangue, nervi, ossa e muscoli.

Basta pensare a ciò che sta succedendo nel nostro Paese, qui ed ora, nella nostra patria del diritto, in certe periferie come Torre Maura, dove sentiamo ragazze urlare:” Io li brucio, li odio!” e sappiamo bene a chi si riferisce. O a Minerbe, paesino del Veronese, dove il sindaco ordina di dare a una piccola allieva straniera un pasto diverso solo perché i suoi non pagano la retta. E’ questa la “civilisation”? E la sinistra? Quanti errori si sono commessi in tuo nome!” parafrasando ancora Madame Roland. Pensare molto agli “ultimi” e dimenticare “i penultimi” come ricorda Federico Rampini nel suo recentissimo LA NOTTE DELLA SINISTRA: DA DOVE RIPARTIRE. Questi penultimi, dimenticati pure loro, ma a differenza di altri, pure mazziati, che non votano più “il partito” ma la destra estrema, disperati alla ricerca di qualcuno che li ascolti, che renda loro giustizia, una volta per sempre.

“Les banlieues” sono lì a ricordarci che la storia non perdona, che lo strato del politicamente corretto, quando non si deposita su un humus fatto di giustizia sociale e di educazione civica, non germoglia, diventa sempre più fragile sino a seccarsi, inaridirsi, per lasciare spazio alla barbarie, mostro atavico, mai domo, mai estinto e sempre pronto a ringhiare ed offendere.

Il politicamente corretto spesso lascia tracce anche nell’espressione artistica e pure nella ricerca storica. Quanto ha lottato e subito, ad esempio, Renzo De Felice per portare avanti la sua ricerca, che a volte contraddiceva la vulgata del politicamente corretto della sinistra?

Nel cinema è successo e succede ancora che il politicamente corretto finisca per inquinare, in luogo di arricchire, un prodotto. E’ una lunga storia, che inizia con CHEYENNE AUTUMN (Il grande sentiero) John Ford (1964), dove il regista volge uno sguardo diverso verso i nativi, rompendo la tradizione del pellerossa feroce e del bianco buono. Questa tradizione, per la verità, era stata infranta da Delmer Daves con BROKEN ARROW (L’amante indiana)(1950). Venne poi il periodo della contestazione giovanile, della guerra in Vietnam. Poco a poco, il “politically correct” che prima identificava i bianchi come portatori della civiltà, ora li vede come biechi usurpatori, avidi assassini razzisti, pieni di odio, portatori dei disvalori che il mondo occidentale corrotto semina come tante metastasi nel tessuto sociale delle popolazioni native, viste come “il buon selvaggio” rousseauiano, tutto ingenuità e innocenza. Ecco quindi prodotti come ULZANA’S RAID (Nessuna pietà per Ulzana) di Robert Aldrich (1972), SOLDIER BLUE (Soldato blu) di Ralph Nelson (1970) ed altri. La guerra in Vietnam, che non poteva essere trattata al cinema per motivi di censura, almeno per diversi anni, trovava un facile riferimento nei “pellerossa identificabili con i coraggiosi ed eroici soldati vietnamiti”.

In HOSTILES (Ostili) di Scott Cooper (2017), il politicamente corretto finisce per inquinare un prodotto che, una volta tanto, sembrava descrivere una storia con gli strumenti dell’indagine seria. Un prodotto promettente, come lo era stato GERONIMO di Walter Hill (1994), vero capolavoro, capace di stare in equilibrio fra le ragioni di ambedue le parti in conflitto (gli Apaches Chiricahua di Geronimo e“Cappotto d’Orso” Nelson Miles).

Lo “scarto” ideologico tra la prima parte del film e la seconda, più che una presa di coscienza, assomiglia a una resa a quella che oggi è la nostra sensibilità, anno 2019. Non è umanamente, psicologicamente, razionalmente possibile che due “mostri” di crudeltà come lo sono stati fino a ieri Falco Giallo (splendido, come al solito, Wes Study) e il capitano John Blocker (un ottimo Christian Bale), capaci di stragi orrende, pieni ancora (all’inizio del film, almeno per John) di odio, finiscano, in pochi giorni per agire e parlare come due vecchi saggi che rinnegano tranquillamente il loro cupissimo passato.

Ma è politicamente corretto che i due grandi nemici si riconcilino ed è hollywoodianamente normale che la signora Quaid (Rosamund Pike), che ha perso, pochi giorni prima, marito e tre figli, per colpa di un attacco Comanche, e il buon Bale inizino una più che probabile storia amorosa.

Scott Cooper, giovane ed interessante attore e regista americano CRAZY HEART (2009), OUT OF THE FURNACE) (Il fuoco della vendetta)( (2013) BLACK MASS- (Black Mass- l’ultimo gangster) (2015), ha capito molto bene da che parte tira l’aria e, tra una concessione al politicamente corretto e un’altra al love affair, si mette il cuore in pace, non prima però di aver dato prova di una certa maestrìa ( o mestiere?).

I punti di riferimento sono abbastanza evidenti, certe inquadrature sono fordiane, assolutamente, così come sembra evidente il richiamo a Bob Aldrich (soprattutto nelle fasi concitate dello scontro con i pellerossa).

Lo iato fra il primo e secondo tempo ci introduce ad un’atmosfera diversa, accompagnata da una musica malinconica e da lunghe pause che ricordano Terrence Malick de THE NEW WORLD (Il nuovo mondo) (2005); la presenza di Q’Orianka Kilcher e dello stesso Bale sembra confermarlo. Il film così, da una solida storia (il richiamo a John Sturges e, forse, a Raoul Walsh non mi sembra tanto assurdo), cambia poco a poco (ma non così tanto) tono e passo e diventa elegia. L’elegia è componimento essenzialmente lirico, che esprime pensieri personali usando un tono malinconico. In effetti, nel film, si respira sempre di più quest’atmosfera, grazie alle musiche suggestive di Max Richter e alle indubbie qualità delle scene. Da nemici acerrimi ed irriducibili, Falco Giallo e John Blocker diventano, in pochi giorni, due vecchi saggi che si lasciano alle spalle odi, pregiudizi e rancori, indossando la toga che si confà a chi ha ormai lasciato la sabbia intrisa di sangue dell’arena per sedersi sui nobili scranni dei patres senatoriali. Il tono elegiaco è lo strumento che permette da un lato ai due “capi” di vedere i loro trascorsi come qualcosa di ormai lontano, quando la loro gioventù era piena di speranze e di promesse, prima che si contaminasse con le radici dell’odio e con l’abisso. Quei tempi, forse, ora che il tramonto della vita si avvicina, forse possono ancora tornare, dando un significato meno negativo a tutta un’esistenza.

E’ evidente, però, che il meccanismo non può funzionare. Il cammino della redenzione segue percorsi lunghi, complicati e sofferti. Tutti lo sappiamo, anche il buon Scott Cooper. La redenzione suppone un cammino interiore di auto-coscienza ed auto-critica crudele, fatto di passi indietro e passi avanti, in modo spesso disordinato, contradditorio. E non sempre succede.

Il peccato originale di HOSTILES sta proprio qui, in questa mancanza di profondità interiore, che lascia solo intravvedere, a volte, nelle smorfie di sofferenza e di pianto di Blocker, l’inizio del cammino.

L’ostilità (origine del titolo) è la misura del nostro mondo. Non ci sono persone, gruppi, tribù, alieni a questo sentimento. Siamo tutti ostili verso qualcuno. Il Western, con l’arrivo del ‘bianco’ diventa il luogo per eccellenza dell’ostilità invece di essere quello della concordia. E’ come se il mondo senza legge fosse in qualche modo più umano e civile di quello portato dalla nostra civiltà. Ostile.

E risulta quindi più un augurio (ingenuo) quello della riconciliazione fra i due mondi che la realtà vera, dura, acida e sgradevole sembra contraddire ogni giorno di più.

Per favore, aspetta!

Non è un film propriamente americano e non si tratta di un film di successo. Il regista è un semi-sconosciuto regista australiano di origine polacca (Ben Lewin), lo sceneggiatore è un giovane sceneggiatore mezzo filippino e mezzo cinese (Michael Golamco), anch’egli semi-sconosciuto.

E’ stato presentato in diversi festival cinematografici, tra cui quello della festa del Cinema a Roma nel 2017, senza vincere alcunché. La critica si è mostrata tiepida e il pubblico abbastanza freddino. Gli attori sono un po’ più conosciuti e cioè Dakota Fanning e, soprattutto, Toni Collette, attrice australiana da qualche anno sempre più richiesta.

Poca roba, direbbe qualcuno, e allora perché parlarne?

A mio avviso, invece, c’è tanta roba e di prima qualità e mi preoccupa che questo film lo si conosca così poco e che si debba ringraziare la programmazione di Sky che ha deciso di mandarlo in onda.

Può darsi che il pubblico non sia tanto propenso a recarsi al cinema per vedere una storia di una ragazza affetta da autismo e sia più attratto da storie più “forti”, oppure commedie nostrane dove il riso è assicurato e i problemi sono momentaneamente accantonati. Può darsi.

Che volete che vi dica? Magari hanno ragione gli altri, come da un po’ di tempo sembra accadermi; ma essendo io sufficientemente ottimista e un inguaribile romantico, innamorato del cinema che emoziona, commuove e diverte in modo intelligente, vorrei invitare lo spettatore a dedicare un’ora e mezza di una giornata alla visione di questo film.

 

Ci sono film che divertono, altri che impressionano, altri ancora che scavano nei meandri più bui della nostra mente, solleticandone paure e ossessioni. Questo film invece induce ad aprire gli occhi su cose che di primo acchito non ci attirano. Parlare di autismo, così come del dolore e della sofferenza, è qualcosa che viene istintivamente evitato. Eppure dolore e sofferenza esistono ed è da vigliacchi evitare di parlarne. Quasi in ogni famiglia c’è un dolore, oppure un lutto da affrontare e tutti noi siamo chiamati, lo vogliamo o no, a confrontarci con essi. La ricompensa è quasi sempre una modifica in meglio di noi stessi, una condivisione inaspettata con chi è meno fortunato e una sensazione di pienezza indicibile.

In questo film non si parla propriamente di sofferenza, ma di una storia legata alla sofferenza. Una storia autentica, rigorosa, appassionante che poco a poco ti prende, ti cattura e ti commuove.

E’ la storia di una ragazza, affetta da autismo (con tutto ciò che questo suppone) che ha una fissazione: quella di scrivere un copione ispirato alla serie televisiva Star Trek e cercare di vincere il premio che questo concorso ha messo in palio.

Wendy, questo è il nome della protagonista, è ospite, assieme ad altri con disabilità di vario genere, di una casa diretta da un’educatrice che l’assiste con competenza e affetto. La ragazza ha una sorella maggiore che non ha materialmente il tempo di assisterla e, forse, nemmeno la forza e la pazienza necessarie.

Wendy vorrebbe tornare a casa ma non è possibile. Riesce a terminare il copione, ma il tempo stringe e, per essere sicura che esso arrivi in tempo, decide di recarsi a Los Angeles dove ha sede la Paramount, sponsor dell’iniziativa. Inizia così un vero e proprio “Road Movie”, in cui Wendy, tra varie vicissitudini, arriva a destinazione e riesce a consegnare il copione.

Non vince il premio ma è riuscita a portare a termine una vera e propria impresa e questo la aiuta a migliorare il suo approccio verso l’esterno (in particolare verso la sorella e il nipotino) che è poi la (sua) vera vittoria.

Un momento particolarmente indovinato e toccante è quello, nel finale, quando la sorella si complimenta con Wendy per aver portato a termine la sua impresa e lei, senza guardarla, le dice:” L’ho fatto per te”, prendendo poi il nipotino tra le braccia e appoggiando la testa sulla spalla della sorella (cosa inaudita per chi è affetto da autismo).

La critica e molto pubblico non nutrono molta simpatia per questo genere di film, dove i sentimenti giocano un ruolo essenziale, forse perché in guerra con una sorte di “buonismo” che, specie negli ultimi tempi e in tutti i settori della vita civile, sembra essere in certo modo complice dei mali che affliggono questa parte di mondo. Ma non è questo il buonismo a cui mi riferisco. Quel buonismo è fratello della connivenza, del “volemose bbene” andreottiano, del sostanziale distacco tra il Potere e la gente, le sue necessità ed esigenze.

Il mio buonismo lo chiamo solidarietà, condivisione, fratellanza con chi soffre ed è emarginato. Molto mi accomuna a Wendy, la mia sensibilità, il mio modo di essere, la conoscenza diretta di quel mondo, così trascurato e che invece ci urla ogni giorno il diritto di non dimenticarlo.

Consiglio, anzi, raccomando la visione.

 

 

 

 

Delon et nous

 

Dopo aver letto il bel post omaggio di Maghella su Alain Delon, ho pensato che forse era questa una buona occasione per qualche riflessione sul personaggio-attore Delon, sul rapporto Delon-Francia e Delon-mondo.

L’attore francese si è indubbiamente imposto sia per le sue qualità estetiche sia per quelle recitative, rompendo il cliché dell’attore bello ma vuoto. Si è portato appresso la fama di bello, splendido amatore ma ha dimostrato nei fatti di essere un grande attore. A me sinceramente non interessa soffermarmi sulle sue qualità estetiche, peraltro ricordate nel post citato; mi interessa soprattutto il Delon attore, che ha poco a poco convinto i critici francesi, in primis, di cui si conosce la passione e la competenza.

 

I senza nome (Le cercle rouge) (Jean Pierre Melville)(1970)

Luchino Visconti , lo sappiamo, è un vero artista quasi rinascimentale per il senso estetico e l’immenso bagaglio culturale. Nessuno come lui ha percorso, con uguale disinvoltura, i sentieri ardui e pericolosi del cinema, del teatro e della lirica. In Delon vedeva personificata (così come con Helmut Berger) la figura della bellezza, della purezza stilistica, dell’ideale estetico al grado più alto. E’ stata probabilmente l’esperienza con Luchino a lanciare Delon, ancora più che con René Clément (IN PIENO SOLE), in modo prepotente nel firmamento del cinema. Dopo diverse interpretazioni in cui si esaltano soprattutto le sue qualità di sex symbol, arriva Jean-Pierre Melville, re del polar e ne fa un eroe con delle sfaccettature impensabili. Per la verità, qualcosa si era intuito in ROCCO E I SUOI FRATELLI, in quel suo personaggio puro e cupo. Ma con Meville, Delon tocca vertici interpretativi straordinari. La sua maschera da duro (sia poliziotto, sia fuorilegge) ha un fascino misterioso irresistibile. L’intreccio narrativo che solo un grande regista come Melville riesce a dirigere (e che non ha nulla da invidiare ai Crime Movies americani) e la figura inflessibile e glamour al tempo stesso, fanno un tutt’uno, un vero e proprio unicum a cui molti epigoni anche nostrani si sono ispirati.

Notte sulla città (Un flic) (Jean-Pierre Melville)(1973)

Stranamente, pur se ci ha lavorato in alcune produzioni non memorabili, con Hollywood non mai scattata la scintilla. Il pubblico non si è mai appassionato e i suoi film girati in terra americana si sono rivelati dei flop. La causa va forse cercata nel suo essere così orgogliosamente “francese”, nel suo non piegarsi a certi condizionamenti, certi compromessi sia con la produzione sia con il regista. Il pubblico americano non perdona determinati comportamenti, ma credo che il motivo principale sia nella scarsa qualità dei film interpretati (NE’ ONORE NE’ GLORIA di Mark Robson e TEXAS OLTRE IL FIUME di Michael Gordon, peraltro due registi discreti).

Frank Costello faccia d’angelo (Le Samourai) (Jean-Pierre Melville)(1968)

Il successo italiano ha diverse cause. La prima è sicuramente dovuta al suo indubbio fascino che non si è mai annacquato, malgrado gli anni. Anzi, invecchiando, ha arricchito la sua figura di un glamour particolare, quella capacità seduttiva che solo certe persone mature possiedono (come nel caso di Sean Connery, Cary Grant e il nostro Mastroianni).

 

Rocco e i suoi fratelli (Luchino Visconti) (1960)

La seconda è, che dietro la facile maschera della bellezza, si indovina un individuo tormentato, inquietante e terribilmente affascinante. E’ questa caratteristica che Valerio Zurlini, nel suo straordinario LA PRIMA NOTTE DI QUIETE, vuole rappresentare. Si tratta di un personaggio quanto mai complesso, a tratti misterioso, a tratti fragile. Zurlini realizza qui un capolavoro scavando dentro il personaggio in modo quasi crudele (scontrandosi, a quanto pare e spesso con il bell’Alain) ma ottenendo un risultato memorabile.

La prima notte di quiete (Valerio Zurlini) (1972)

Forse non è proprio questo tipo di attore di cui il pubblico italiano si è innamorato, ma è senz’altro quello di cui si sono innamorati i critici.

La Francia si è spesso divisa con l’andar del tempo su Delon. Dopo un inizio entusiasmante, molti hanno cominciato a criticarne certi eccessi e certe disinvolture (l’affaire con la Schneider), la storiaccia, mai del tutto chiarita, con il delitto della sua guardia del corpo e che portò alla luce particolari ben poco edificanti di storie di droga e sesso presenti nel suo entourage. Infine, non poche polemiche ha suscitato la sua posizione politica (ha sempre parteggiato per il Gaullismo e la destra, ultimamente con la Le Pen) e la sua interpretazione in un film per la TV di un commissario di polizia di Marsiglia, Montale, di idee progressiste, così contrarie alle sue convinzioni.

La prima notte di quiete (Valerio Zurlini) (1973)

Qui in Italia, non si è mai dato gran peso a queste cose. Delon parrebbe rappresentare quanto c’è di meglio oltr’Alpe, soprattutto in un periodo come questo, in cui la Francia non gode di grande considerazione da noi. C’è da tempo un diffuso senso di fastidio per i nostri cugini, accusati di sentirsi superiori a noi e gonfi fino a scoppiare di una grandeur senza basi obiettive. Ma queste sono considerazioni sterili che allignano soprattutto tra gli sprovveduti. Però, parlando di Delon, il nostro Paese gli ha sempre dimostrato affetto e stima. Il grosso pubblico, soprattutto femminile, non ha mai smesso di amarlo e perdonargli di tutto. La critica e gli spettatori più avveduti, nonostante tutto, continuano a vedere in lui un connubio straordinario di qualità interpretativa e di presenza scenica, una miscela irresistibile di fascino misterioso di artista “maudit” e di amante meraviglioso. Lui poi in Italia è di casa, è sempre un ospite richiestissimo e da noi si trova a meraviglia. In un Paese come il nostro dove il gusto estetico è un “must” che tutti ci riconoscono, Alain non poteva non essere una vera e propria icona.

La prima notte di quiete (Valerio Zurlini)(1973)

Delon è diverso dal tipo di attore francese che siamo abituati a conoscere. Ha il fascino “malin” di Jean Gabin, non ne possiede la profondità ma ha un tocco in più di sex-appeal. Non ha la simpatia di Jean-Paul Belmondo, non ha la carica umana di Daniel Gelin, la signorilità di Paul Meurisse, l’intensità di Jean Marais. Per venire all’attualità, non vedo attori le cui caratteristiche si avvicinino più di tanto a Delon. Lo stesso Daniel Auteuil non mi sembra averne né il carisma né il fascino, pur ritendendolo fra i migliori artisti transalpini. Delon è semplicemente Delon, un attore capace di riempire da solo lo schermo, di fare di un piccolo film un grande film. Se mi si consente una preferenza personale, non posso non citare ancora il professor Dominici (il cui cognome nel film nasconde forse quello di Caccia Dominioni) e le splendide sequenze iniziali e finali. Uno straziante assolo di tromba accompagna questo professore di letteratura, mentre cammina lungo il molo di Rimini, immerso nei suoi pensieri e nei suoi tormenti. La scena finale non potrebbe essere più eloquente: perdere la vita per una pura questione di umana pietà verso una convivente che non ama più e di cui teme un gesto estremo. Un finale tragico che conclude la parabola di una vita difficile e avara di ricompense.

A bientôt, cher Alain!

 

 

Excellent, Gérard!

 

 

Mentre scrivevo il post su Delon, non riuscivo a scrollarmi di dosso la figura imponente (in tutti i sensi) di Depardieu. Scrivere un post su Delon porta, quasi inconsapevolmente, ad affrontare la figura di questo grande attore francese. Come sono solito fare, questo post non vuole assolutamente abbozzare un profilo critico, in certa parte scontato. A me interessa cercare di parlare di Depardieu in modo per quanto possibile slegato dalla galleria critica delle sue interpretazioni. Questo compito lo lascio ad altri.

Novecento (Bernardo Bertolucci) (1976)

Anzitutto, chi è il vero Depardieu? E’ Olmo, il ragazzo di campagna, rozzo, sanguigno di NOVECENTO? O è invece il vicino di casa romantico e appassionato di LA DONNA DELLA PORTA ACCANTO o il poliziotto rude, brutale ma anche sorprendentemente sensibile di POLICE oppure il giovane e fragile René, chiamato ad un compito (direttore di fabbrica) per il quale si sente inadeguato? E’ il poeta Cyrano, poeta prigioniero in un corpo non affascinante, oppure il rivoluzionario Danton amato dal popolo che si diverte a umiliare l’incorruttibile nel film omonimo, oppure ancora lo struggente Conrad, vecchio, malato di A SMALL WORLD di Bruno Chiche?

La signora della porta accanto (La femme d’à côté) François Truffaut (1981)

Gérard non proviene dalla borghesia, ma dal popolo e queste sue origini sono il segreto o uno dei segreti delle sue interpretazioni riguardanti i vari personaggi popolari della sua carriera.

Danton (Andrzej Wajda)(1983)

Quando, ad esempio, interpreta Danton, diretto da Wajda, non mi viene in mente un altro attore in grado di interpretare meglio quel personaggio storico. Quando Danton affronta Robespierre, ne mette a nudo le debolezze, i difetti patologici e l’abnorme distanza fra il rigorismo giustizialista e l’incapacità di capire il popolo, quel popolo che egli dice di difendere a tutti i costi, anche a costo di ghigliottinare mezza Francia. Danton lo smaschera e lo deride, provocandone la fredda vendetta. Come si può non amare alla follia questo attore quando si difende davanti ai giudici cui è stato ordinato di condannarlo a morte e lui invece si erge a vero protagonista mettendo in stato d’accusa lo stesso tribunale rivoluzionario, suscitando il delirio di un’intera folla che decide in pochi istanti da che parte stare. Un’interpretazione memorabile.

Danton (Andrzej Wajda) (1983)

Come si può non abbracciare il buon Renè Ragueneau di MIO ZIO D’AMERICA di Alain Resnais, e provare grande empatia per questo ragazzo dolce, chiamato a dirigere una fabbrica con delle innovazioni tecnologiche che egli non è in grado di gestire, abituato com’è a un tipo di fabbrica dal volto umano e non una macchina infernale che tutto stritola e devasta? Quel giovanotto di campagna, gentile, educato e deriso, umiliato da un capo che lo demolisce poco a poco e gli spiattella tutta sua inadeguatezza, siamo noi, siamo ancora i (pochi ?) umani ancora esistenti. Un film modello in cui la filosofia si allea magistralmente con la settima arte.

A Small World-Ricordi lontani (A Small World) (Bruno Chiche) (2010)

E’ questo il tipo di personaggio che amo di più, quello anche, per capirci, del buon Conrad, disconosciuto da una madre opportunista e costretto a una vita di umiliazioni, solo perché nato quando non doveva, per le ambizioni di una madre degenere, capace di affidarlo ad un’altra persona e dichiarare figlio suo invece la creatura nata dalla relazione fra lei e il ricco Arthur. Quel Conrad, divenuto un peso per tutti, per le sue origini, per le sue stranezze, trova un’inaspettata amica in Simone, la moglie dell’erede, che si prende cura di lui, ormai aggredito dall’Alzheimer, ma ancoracapace di far riemergere lontani ricordi che ristabiliranno la verità.

Mon oncle d’Amérique-Mio zio d’America (Mon oncle d’Amérique) Alain Resnais (1980)

Vedi quest’uomo, prigioniero di un corpaccione inverecondo, relegato ai confini del decoro umano da miserie morali orrende, ancora capace di provare sentimenti, di non provare rancore, condannato dalla malattia al buio della conoscenza, eppure capace di rinnovare giorno per giorno le sue piccole abitudini, le sue emozioni, che trova nel suo ritorno all’essere come un bambino i propri ricordi di bambino che saranno come lance nella coscienza di chi lo ha rinnegato come figlio e come fratellastro.

A Small World-Ricordi lontani (A Small World) (Bruno Chiche) (2010)

Depardieu non gode di una reputazione specchiata in Francia. Anche da noi si conoscono le sue stranezze, come quella di prendere la cittadinanza russa, orgoglioso della sua amicizia con Putin, o quella di trasferire la sua dimora appena al di là del confine col Belgio, per sottrarsi al fisco. Si conosce la sua infanzia turbolenta, si conosce la sua passione per il vino (possiede un podere a Pantelleria), si conoscono le sue donne, la sua esuberanza, ma tutto questo non impedisce che la gente lo ami ancora e si riconosca in lui in alcune delle sue interpretazioni più note e amate come LA SIGNORA DALLA PORTA ACCANTO. Depardieu è un po’ l’uomo medio, non certo come Delon che, appena si presenta, espone quasi arrogantemente la sua avvenenza, il suo glamour a cui il successo arride quasi senza sforzo, mentre Gérard capisci che si è dovuto fare largo a spintoni per farsi avanti. Delon è il francese che assapora in punta di forchetta, mentre Gérard è colui che s’ingolla a tutto spiano baguette spalmate di burro, incurante di diete e consigli medici. E’ un Danton de noantri, appassionato, volgare, rozzo e gaudente, pieno di gioia di vivere, un Olmo Dalcò che sta tra la gente e la difende anche a costo di prendere a badilate i signorini e i signoroni “dali beli braghi bianchi” della villa accanto che si prendono senza fatica i raccolti, lasciando ai braccianti le briciole.

A Small World-Ricordi lontani (A Small World) (Bruno Chiche) (2010)

In Italia, si conosce Gérard, senza ombra di dubbio, ma non lo si conosce forse come lui meriterebbe. Tranne quei tre o quattro titoli (quelli commercialmente più di successo), il grande pubblico non ha visto molto altro. Il pubblico italiano, l’ho già scritto altre volte, non ama il cinema francese. Lo giudica noioso, verboso, poco interessante, altezzoso.

Da un punto di vista puramente cinematografico, sono d’accordo solo in parte. Le commedie francesi, ad esempio, non mi appassionano. C’è un senso dell’umorismo che qui da noi non funziona. Sono commedie che, a differenza di quelle italiane, cercano di evitare la volgarità gratuita e i localismi e si basano soprattutto su intrecci amorosi e su situazioni paradossali. Ma da noi, il pubblico è più smaliziato e le situazioni sono più crude, spesso condite di sarcasmo. Questo rende le nostre commedie meno raffinate ma preferite dal grosso pubblico. Un genere che invece da noi quasi non esiste, se non nelle fiction tv, sono i polizieschi, che invece godono in Francia di molto favore, come ad esempio i famosi “polar”, eredi della grande tradizione francese di Melville, Giovanni e Becker, dove ora eccellono autori come Marchal, fra gli altri. Ma quanti, da noi, conoscono i suoi film? Forse il peso peso della fu Nouvelle Vague è troppo oneroso e ancora non si intravedono autori, quelli veramente notevoli sono ormai vecchiotti (Pialat, Assayas, Philippe Garrel, Duras, Besson e Leconte). Poi magari scopri giovani registi come Lucas Belvaux con SARA’ IL MIO TIPO? o Christophe Barratier con LES CHORISTES e nutri la speranza che qualcosa si muove. Il problema è che Claude Sautet non c’è più e non riesco ad accettarlo.

Sarà il mio tipo? (Pas son genre)  (Lucas Belvaux)(2014)

Non mi avventuro in considerazioni extra-cinematografiche perché il terreno è minato. D’altronde qui abbiamo ben poco di cui vantarci.

 

 

 

 

C’è Noir e Noir…

 

Un recente post di Alan Smithee mi ha indotto a trattare ancora una volta il tema del noir, pur se Filmtv ha spesso accolto alcuni miei spunti e alcune riflessioni, arricchiti da dotti commenti di amici come Marcello del Campo, Valerio e tanti altri.

Mi limiterò perciò a esprimere alcune valutazioni in modo stringato, evitando di ripetere quanto a suo tempo espresso.

Una prima riflessione, a mio avviso doverosa, riguarda la vexata quaestio fra ciò che è noir e ciò che non lo è. Oggi, è comunemente accettata l’idea che con il termine noir si definiscono le storie, i racconti, i film in cui vi siano alcuni elementi chiave come il delitto, un’indagine poliziesca o di un investigatore privato.

Si tratta di una classificazione tanto vasta da risultare inattendibile. Il cinema americano ha suddiviso per generi questo tipo di narrazione e cioè il gangster-movie, il prison-movie, il serial killer-movie ecc.

Noi, con meno precisione, classifichiamo alla rinfusa il poliziesco, il “giallo” e, in mancanza di meglio, il “thriller”. Poi, per comodità, mettiamo insieme tutti questi generi, ne facciamo un bel minestrone e lo chiamiamo noir.

Comodo, ma superficiale. Come spesso capita, per rendere più semplice un concetto, lo si travisa.

Ma allora, che cos’è noir e cosa non lo è?

Noir è una parola francese che fa riferimento a certa cronaca giornalistica che si interessa di fatti criminosi che scuotono l’opinione pubblica. Anche da noi si cominciò a chiamarla “cronaca nera” oppure più semplicemente “nera”. E’ un fenomeno che nasce in Europa soprattutto negli anni Trenta e che abbraccia un po’ quasi tutto il Vecchio Continente. Mentre da noi, tutto resta confinato nel puro fatto cronachistico, in Germania assume poco a poco delle caratteristiche più ampie. Da anni infatti, in quel Paese (e un po’ in tutta la Mitteleuropa) si va affermando uno stile artistico strettamente legato a un’atmosfera, a un “mood” che pervade il Paese. Parliamo, è ovvio, dell’espressionismo, che scava nel profondo delle coscienze e dei sentimenti e acuisce all’estremo le ansie, le paure legate a una società che vive la grave crisi economica del primo dopoguerra, senza certezze, senza le rassicurazioni, cui il popolo tedesco era abituato. La crisi, la terribile inflazione, la precarietà del lavoro, la frustrazione relativa alla sconfitta nella Grande Guerra e le durissime condizioni della Pace di Versailles, l’incapacità dei partiti della sinistra al potere di fronteggiare la situazione e, non da ultima, il crescente e mai sopito spirito di “Revanche” e di orgoglio nazionale, creano le basi per il nascere di un clima artistico, e non solo, in cui si manifestano, in forma figurata, le paure e le ansia di cui sopra.

Per farla breve, ma il discorso da fare è davvero molto, troppo, lungo, una nutrita schiera di artisti (ci limitiamo al cinema, per forza di cose e di spazio), giudica irrespirabile l’aria che si respira a Berlino (ma anche a Vienna, Budapest), visto che stanno prendendo sempre più piede le condizioni che porteranno a una dittatura fra le più criminali e delinquenziali della storia), e si trasferiscono, alcuni in Francia, altri negli Stati Uniti.

Questi artisti si portano ovviamente dietro tutto il loro portato di pessimismo, ansie, timori e lo esprimono nei loro lavori.

E qui passiamo al secondo aspetto. Quando sbarcano negli USA, dopo molte vicissitudini, cominciano a realizzare opere apparentemente convenzionali, ma ad un esame più attento, innovative. Poco a poco i lavori di questi immigrati prendono sempre più piede e colpiscono favorevolmente gli spettatori americani, non abituati a questo tipo di opere.

L’aspetto fondamentale è che si tratta di film che si inseriscono agevolmente nei generi tradizionali, in particolare il poliziesco e il gangster-movie, ma conferiscono aspetti che prima erano assenti.

Prendiamo un film poliziesco tradizionale come I RUGGENTI ANNI VENTI (The Roaring Twenties). 1939, di Raoul Walsh. Si tratta di un’ottima prova che, nel solco della tradizione, distingue bene i buoni dai cattivi, disegna una parabola sempre più discendente nell’aspetto morale, fino a terminare nella fine violenta e obbligatoria del protagonista. Tutto molto chiaro, senza ombre. Prendiamo invece L’URLO DELLA CITTA’ (Cry of the City),1948, di Robert Siodmak. Anche qui la storia di due amici che la vita separerà e metterà uno contro l’altro. In questo film, si notano alcune differenze di stile, scenografie, di profondità psicologica e un senso di pessimismo che pervade l’intera narrazione. Non tutto è così chiaro, ci sono caratteri meglio costruiti dal punto di vista psicologico, ci sono molte ombre che rendono seducente la storia.

Oppure, prendiamo un film come CHIAMATE NORD 777 (Call Northside 777) 1948, di Henry Hathaway. E’ un’opera contemporanea a L’URLO DELLA CITTA’, eppure ci rendiamo conto di essere di fronte a un’opera convenzionale, anche se ben raccontata e interpretata, oltre che diretta da quel magnifico mestierante che è stato Hathaway.

E’ la classica indagine poliziesca, svolta stavolta da un giornalista, che si interessa controvoglia ad un fatto di sangue accaduto anni prima e a cui poi si appassiona fino a riuscire a scoprire il colpevole e a far liberare un innocente.

Anche qui non ci sono ombre, tutto appare chiaro, la tensione sta tutta nell’avvicinarsi sempre più alla verità. Un film ottimo, ma convenzionale.

Prendiamo invece un film come VERTIGINE (Laura)1944, di Otto Preminger. Anche qui un’indagine, un progressivo avvicinamento alla verità, ma tutto è diverso: tensione che si basa su fatti imprevedibili e sconvolgenti, verità e apparenza che si confondono. Ad un certo punto, lo spettatore non sa più che cosa sta succedendo, regna l’incertezza più totale che è poi quella dello stesso protagonista, un detective ossessionato da un quadro. Quando la certezza scompare, rimane l’imprevedibilità, che è poi il regno del noir.

Non cambiano le storie, quindi (almeno per la maggior parte), ma cambia l’atmosfera che li pervade, e con essa cambiano le inquadrature, l’illuminazione, certe tematiche.

In un film noir sono prevalenti alcuni aspetti che saranno poi quelli che li caratterizzeranno e cioè: l’illuminazione per linee oblique, la prevalenza degli interni rispetto alle scene in esterni, le inquadrature (ora imprevedibili, non tradizionali), certi temi quali: la donna-ragno (la misoginia del noir è aspetto fondamentale), l’assenza della famiglia, il ricorso ai flash back, la detective-story (dove l’investigatore è uomo solitario e duro), la cupa presenza di un destino tragico e altro.

E’ quindi evidente che non si possa parlare di genere ma di stile. Ecco perché lo stile noir può trovarsi in generi diversi (come, ma sono casi sporadici, il western) e in film anche recenti.

Ecco il motivo per cui insisto a scrivere queste righe e gridare a più non posso che chiamare noir un film dove è sufficiente che si commetta un delitto sia la cosa più imprecisa che esista.

Inoltre, last but not least, come ricorda Alan Smithee, il noir non è solo uno stile cinematografico ma è anche una svolta (un DETOUR dal film omonimo di Ulmer), una svolta nel costume, nel modo di fare cinema e anche un modo diverso di pensare.

Questa svolta vuole essere un deciso cambiamento di rotta e l’intenzione di rinnovare il cinema hollywoodiano, legato a vecchi schemi e a tradizioni (oltre a un modo di pensare perbenista, alquanto puritano, pieno di tabù). Il noir introduce il dubbio: tutto non è più ormai come prima. Le vecchie paure ed ansie dei registi mitteleuropei, nati e cresciuti in ambienti culturali diversi, ma lontani dalla superficialità dello spettatore americano medio, agirono da lievito e risvegliarono coscienze sopite, mentalità e modi di pensare legati a usi e costumi tradizionali.

Il noir, in certo modo, è trasgressivo, rivoluzionario. Da parte di certi ambienti conservatori, ci si rese conto che la quiete artistica, frutto di accordi fra le Major e le istituzioni coinvolte, stava per saltare e che nel mondo artistico stavano circolando correnti di pensiero sempre meno conformiste e sempre più progressiste. Stava per scatenarsi la “Caccia alle streghe” promossa dal senatore McCarthy e l’istituto della censura, ormai allertato, stava per abbattersi con violenza verso alcune delle migliori figure cinematografiche.

L’impegno e la professionalità con cui decine di artisti mitteleuropei profusero le loro migliori energie, assieme alla loro particolare sensibilità e alle dure esperienze vissute nei loro Paesi di origine, cambiarono Hollywood al punto che diversi registi americani si convinsero a realizzare opere ispirandosi a quel tipo particolare di cinema e, a volte, con risultati apprezzabili.

Basti pensare a Howard Hawks con IL GRANDE SONNO (The Big Sleep) 1946 (anche se di noir vero e proprio non si può parlare, visti certi spunti che hanno più a che fare con la commedia, genere in cui egli era un vero gigante. Forse il regista che ha diretto il miglior noir american-born è Delmer Daves con LA FUGA (Dark Passage),1947. Memorabili sono le inquadrature e l’atmosfera che grava su questo capolavoro. Non dimentichiamo poi Raoul Walsh che, specializzato in film di gangster e in western, riesce a infondere in uno di questi e cioè NOTTE SENZA FINE (Pursued),1947, riuscendo in un’impresa ai limiti del possibile: ottenere da un genere essenzialmente chiaro, lineare, senza incertezze, un film pieno di ansie, rancori sopiti, scenografie da incubo, tipici del noir.

Il discorso sarebbe comunque da allargare ed importante sarebbe poter parlare dei maggiori interpreti del noir, come Fritz Lang, Edgar G. Ulmer, Robert Siodmak, Otto Preminger e il geniale e poliedrico Billy Wilder, dei tecnici della luce come John Alton, di attori come Edward G.Robinson ecc.

Ma forse ne parleremo in altro momento.

 

 

Omertà

 

Girato nel 1951 e diretto da John Sturges, è un film che è stato dimenticato e che la critica non ha mai particolarmente apprezzato definendolo piatto, zeppo di retorica, prevedibile e così via.

Non sono d’accordo.

Prima di tutto, la storia non è affatto scontata e banale, inoltre, non c’è una regia piatta e la retorica, anche se è difficile non trovarne in un film di “redenzione”, rientra in un impianto che sa mescolare bene tensione (specie nel finale), dramma personale e indagine complessa.

Di John Sturges si possono dire tante cose, ma non credo che si possa usare la parola “banale” per definire la sua opera. E’ un regista solido, buon artigiano con veri tocchi da maestro (“SFIDA ALL’OK CORRAL, GIORNO MALEDETTO, LA GRANDE FUGA, SFIDA NELLA CITTA’ MORTA, L’ORA DELLE PISTOLE, I MAGNIFICI 7), anche se non esente da prove scialbe.

Si tratta di storie raccontate con vigore, senza dialoghi eccelsi o compiacimenti formali. E’ un regista che eccelle soprattutto nel western, dove i dialoghi sono asciutti, “poveri”, ma anche secchi e precisi come fucilate. Gli piacciono le storie chiare, con psicologie semplici, quasi elementari, trame senza particolari intrecci o schermaglie verbali tipiche del dramma classico. Ama girare nei grandi spazi e, pur senza avere il talento visionario e la genialità di John Ford, dirige storie credibili e solide, senza concedere nulla al formalismo e all’estetismo. C’è però cura del dettaglio, della meticolosa precisione dell’inquadratura. Eccelle nelle scene notturne, dove, con l’ausilio di ottimi direttori della fotografia, inventa giochi di luce assolutamente apprezzabili. Non ci sono metafore, non ci sono doppi sensi, non ci sono preziosismi di alcun genere. I suoi protagonisti sono diretti, onesti e leali. Sono valori che si attagliano perfettamente al mondo western.

Il film in questione, invece, si discosta da questi schemi. Prendiamo il protagonista: non è un grande avvocato penalista all’apogeo della carriera e nemmeno un giovane avvocato alle prime armi di cui si intravvede una luminosa carriera. Ci troviamo di fronte a un uomo in pieno declino, con un recente passato da alcolista, con un’incipiente senilità che gli toglie le forze necessarie per continuare ad esercitare una professione sfibrante. Ci sono momenti nel film in cui colleghi, amici e avversari , oltre a noi stessi, provano un forte imbarazzo nel trovarsi di fronte a un ex valente avvocato che ora annaspa, apparentemente incapace di portare avanti dignitosamente una causa che sembra ormai persa. Le difficoltà, che in un film di impianto tradizionale, sarebbero superate con una gran forza di volontà, l’amore della propria moglie o la fortuna, qui si rivelano insuperabili. Da qui il ricorso alla bottiglia, alla corruzione, alla disonestà. E’ un uomo alla deriva che sta toccando con mano il proprio fallimento.

E’ un percorso tormentato di una persona che si ritrova all’improvviso sola, sola con i propri limiti fisici, con le proprie debolezze, con la propria fragilità. Si è infilato in un tunnel apparentemente senza uscita: ha preso a calci una vita degna e rispettata, subisce l’onta della scoperta della corruzione nei confronti di un testimone oculare. La scoperta di una relazione tra il proprio cliente e l’amante di un boss che, all’apparenza, sembra essere il vero colpevole, gli fa vedere una possibile luce alla fine del tunnel, la possibile soluzione, ormai insperata, che potrebbe restituirgli fiducia in se stesso pur avendo ormai perduto la propria dignità. Dignità che recupererà al prezzo della propria vita.

Spencer Tracy, nei panni dell’avvocato Courtayne, è semplicemente all’altezza delle sue migliori interpretazioni ed è un elemento che impreziosisce il film. La storia, come si è detto, non è banale, anche se lo sviluppo è quello tipico dei film del genere “noir”. A questo riguardo, la fotografia di un assoluto maestro come John Alton, ci offre, specie all’inizio e alla fine, soluzioni visive notevoli che saranno poi riprese, anche molti anni dopo, da registi e operatori di gran nome.

Certe sciabolate di luce nel buio della notte, figure inquietanti nel vano di una porta, contrasti di luci ed ombre tipici del “noir” classico, sono elementi che contribuiscono a rendere meno scontato questo film, arricchito anche da attori che conferiscono un peso artistico non indifferente, come John Hodiak e Pat O’ Brien.

La parte migliore del film è però sicuramente la parte finale, tutta giocata sulla tensione crescente, sulla sensazione della tragedia imminente, sulla partita che si gioca fra la tecnologia e la realtà che, con le proprie infinite variabili e tutti i possibili imprevisti, sembra sfuggire alla soluzione prevista o sperata e che restituisce, con tutta la propria ineluttabilità, il reale senso delle cose.

Il cerchio si chiude così com’era iniziato, ossia la raffigurazione di una vita vissuta degnamente, pur se segnata dalle avversità e dalla propria fragilità.