Tite, un vecchio conterraneo

 

 

Adenor Bacchi, detto familiarmente Tite, è il commissario tecnico del Brasile cinque volta campione del mondo di calcio.

I suoi bisnonni, Andrea Bacchi e Maria Mazzocchi si trasferirono dall’Italia in Brasile nel 1883. Tite è nato a Caxias do Sul nel 1961.

C’è qualcosa di molto familiare di Tite per me. I suoi bisnonni erano mantovani, di Viadana, pare. Ma il cognome è presente in tantissimi paesi della mia terra, pure nel mio. Conosco almeno sei famiglie in cui questo cognome è presente.

Ma c’è ancora qualcosa. Quando lo vedo, in tv, a volte seduto e altre volte agitato e in piedi, mi sembra di riconoscere in lui certi miei compaesani.

Il suo fisico è massiccio, è robusto ma non è grasso. Ma i suoi capelli, grigi e non folti, pettinati ordinatamente all’indietro mi riportano alla memoria tante persone che ho conosciuto e che abitavano o tuttora abitano dalle mie parti.

Il suo sguardo è sveglio, intenso e profondo. Il suo modo di esultare non è mai esagerato, mentre, nelle circostanze avverse, non noti la rabbia scomposta e sguaiata di un Jorge Sampaoli (ct dell’Argentina), o la gestualità mediterranea di un nordico come il ct della Svezia. In Adenor noti tristezza, quasi malinconia.

Io non lo vedrei, se me lo trovassi davanti e non sapessi che mestiere fa, come agricoltore. La sua pelle non è bruciata dal sole, è bianca come quella di chi non ha lavorato nei campi, ma in ambienti coperti e protetti.

Ha fatto l’allenatore, è vero, ma non si porta addosso i segni inequivocabili di chi ha sudato, faticato al sole e alle intemperie, per guadagnarsi il pane. I suoi bisnonni molto probabilmente, invece, quegli sforzi li hanno compiuti, ma con il passare delle generazioni, il fisico è andato ingentilendosi assieme a una sempre minore fatica e povertà grazie alla capacità e alla sobrietà dei figli e nipoti di quei primi immigrati. Caxias do Sul (nello stato di Rio Grande do Sul, all’estremo sud-est del Brasile) è stata fondata da immigrati veneti nel 1876 e da allora frotte di altri emigranti sono arrivate anno dopo anno, alla ricerca di lavoro e di un luogo più ospitale. Come altre località brasiliane fondate da italiani, poco a poco si sono creati centri di aggregazione e accoglienza verso altri italiani (e non solo) che poco a poco arrivavano dal vecchio continente.

Si sono fatti rispettare gli italiani del Brasile grazie alla serietà, alle capacità, allo spirito di iniziativa e presto, grazie anche a loro, quel Paese è cresciuto e i luoghi dove essi hanno vissuto sono ora fiorenti e importanti per l’economia e il benessere.

Tite, per me, sulla base delle mie esperienze, dei personaggi da me incontrati e della mia fantasia, potrebbe benissimo essere un fornaio. Li ricordo bene i panettieri di un tempo: indossavano abiti chiari e, spesso, un berrettino, rigorosamente candido. Spesso erano uomini di corporatura considerevole, usi alle levatacce, al calore e alle scottature, alla metodicità di un mestiere che ripaga gli sforzi regalando la fragranza celeste del pane appena sfornato.

Li vedo alle prese con grandi ceste ricolme di pane nelle sue più svariate forme. Li sento canticchiare canzoni d’un tempo, melodiche e orecchiabili. Il mestiere del fornaio è antico e nobile. Sfamare la gente quando c’è povertà e miseria: il ricordo va subito alle pagine memorabili dei Promessi Sposi e all’assalto ai forni. Il fornaio si sente investito di questa vera e propria missione che è sfamare la popolazione. Questo, ovviamente, accadeva nel secolo scorso, ma qualcosa di questo sentimento quasi patriottico è rimasto. Al di là del discorso economico, in effetti, il fornaio, a differenza del droghiere o del salumiere, sa che è compito suo fornire il prodotto base, l’ultimo ridotto rimasto agli umani prima di morire di fame. Dalle parti mie, poi, il pane non è solo un prodotto ben lievitato, con i giusti ingredienti di sale, farina, acqua e olio (o strutto), ma è piattaforma per sfornare un pane sempre diverso, nel gusto e nella forma. Prendete una soffiata a Milano e comparatela con una ricciolina (o crocetta): la differenza è sostanziale. E non parliamo delle forme: ricciole, arabi, monta su, michette, ciabattine ecc. Andate a Parigi: amo la baguette, certo, ma a sera è già immangiabile. Il nostro pane è buono anche il giorno dopo.

Mi sembra di vederlo, Tite, che ti aspetta, sulla porta del suo forno, con la sua camicia bianca, i pantaloni infarinati, il cappellino e un largo sorriso, invitandoti ad entrare con un gesto della mano. Quei capelli un po’ radi e grigi, pettinati all’indietro, mi riportano agli anni ’40 o ’50 e mi richiamano alla memoria mattine splendide di cieli tersi, quando, accompagnato da mio padre alla scuola elementare, passavo di fronte al forno e assaporavo la fragranza del pane appena sfornato. Il garzone, un giovanetto allegro, appoggiava sul manubrio della bicicletta una cesta strapiena di sacchetti di pane da portare ai clienti, mentre Tite, il fornaio, sulla soglia, salutava mio padre e mi rivolgeva un sorriso.

Se per uno strano scherzo del destino, dovessi imbattermi in Tite, magari incrociandolo su una via cittadina, magari a Rio, a Milano o Madrid, sento che qualcosa mi spingerebbe a fermarlo e dirgli, nel nostro dialetto:”Ciau, Tite! Cum l’è bun al tu pan!” e me lo immagino, all’inizio sorpreso, poi, una volta capito da dove vengo, allungare il braccio e stringermi la mano, rispondendo, ancora in perfetto mantovano:”Grasie. A n’u mai dismengà al dialet!”.

 

 

Addio, Cabezón!

 

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L’ho visto giocare, Sivori. L’ho visto dal vivo allo stadio di Mantova un pomeriggio di primavera di tanti anni fa. Erano gli anni ’60. Prima della partita era solito tirare dei rigori: pare che quella domenica un rigore l’avesse sbagliato e mi pare che quello fosse un brutto segno per lui, che era abbastanza scaramantico. Infatti, se non ricordo male, quella volta la Juventus non vinse.

Ricordo anche che, all’entrata in campo, uno degli spettatori, gridò in dialetto mantovano: Fatti tosare. Tutta invidia. In effetti, era lui l’uomo più pericoloso e più geniale. Era l’uomo che gli avversari temevano di più. In ogni momento poteva inventare il goal: per questo motivo la gente sfotteva lui in prevalenza.

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Ma si faceva amare e odiare anche perché era particolarmente dotato nel palleggio e nel dribbling: egli usava questo suo talento anche dal punto di vista meno nobile, quello di irridere gli avversari, facendo passare la palla in mezzo alle loro gambe. Questa tecnica, allora semisconosciuta in Italia, la portò proprio lui, el cabezòn. Si avvicinava all’avversario caracollando, poi, d’improvviso faceva il “tunnel” e poi andava verso un altro avversario. Questo faceva impazzire di gioia gli juventini, ma faceva infuriare gli avversari.Risultato immagine per Omar Sivori Juve

In primo piano Gianni Rivera e Sivori. Dietro, seminascosti, Dino Sani e Salvadore. A destra, John Charles.

Sivori, di botte ne ha prese e tante ma non era il giocatore che le prendeva in silenzio, non era, tanto per fare un esempio, il suo compagno John Charles, gigante gallese, buono e nobile, leale e coraggioso. Sivori aveva un DNA latino, fatto di malizie, provocazioni, reazioni, folli scoppi d’ira eccetera. Quante ammonizioni e quante espulsioni! Una volta credo che si beccò sei giornate di squalifica. Quando poi arrivò in Nazionale (lui, argentino e orgoglioso di esserlo, ci pensate?) portò in maglia azzurra tutto il suo bagaglio fatto di talento e delizia ma anche di vigliaccate.

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Sivori temeva i randellatori, grossi il doppio di lui e stava ben attento a non provocarli troppo e se lo faceva, era solo per far loro subire un’espulsione. I calci agli stinchi a tradimento li sapeva appioppare e come.

Quando la Juve venne eliminata in Coppa dei Campioni nella “bella” che si giocò a Parigi, egli, che per tutta la partita era stato bersagliato dai rudi difensori madridisti, aspettò il fischio finale e, di soppiatto, si avvicinò a uno dei difensori che più lo avevano fatto soffrire, mi sembra Pachìn, e gli mollò un calcio da dietro così forte da obbligarlo ad uscire in barella.

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Ieri e oggi: Da sin.: Pippo Inzaghi, Omar Sivori, Sandro Del Piero e John Charles

Era umorale, bizzoso e impulsivo: difficile vederlo finire una partita senza ammonizioni o quantomeno falli cattivi. Un giocatore difficile da gestire: quando avvenne il suo divorzio dalla Juve, una delle cause fu soprattutto il suo pessimo rapporto con Heriberto Herrera, l’allenatore paraguayano mentore del “movimiento”, una parola che a Sivori piaceva poco. Iniziava il calcio atletico, cominciavano le sedute ginniche faticose e noiose. Herrera voleva atleti e non solo giocatori. Sivori era l’anti-atleta. Mentre gli altri si allenavano, lui passeggiava; quando i suoi compagni andavano a letto, lui giocava a carte nei locali di Torino fino a notte inoltrata.

Poi, la domenica, faceva sfracelli. In questo assomigliava ad un altro grande argentino, il più grande, e cioè Diego Armando Maradona

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Foto preziosa: Diego Armando Maradona e Omar Sivori.

Era un calcio che stava morendo quello fatto di geniali artisti innamorati della palla, delle belle donne e della bella vita. Il calcio fatto di ritmi forsennati, di ossessive lezioni tattiche, di dedizione totale al dio pallone, quello cioè di Helenio Herrera si stava imponendo. Quelli come Sivori, e cioè gli Antonio Valentìn Angelillo, capocannoniere mai uguagliato e amante della bella vita non avevano scampo.

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Una carezza a Mariolino Corso…prima della partita, ovviamente.

A me personalmente piaceva di più John Charles: sono sempre stato attratto dalla cultura sportiva britannica fatta di agonismo e di lealtà, ma devo dire che certe giocate di Enrique Omar Sivori mi mandavano in delirio. Certi pallonetti impossibili, certe sue invenzioni ed intuizioni sarebbero state riprese in seguito solo da un paio di giocatori e cioè Michel Platini e Maradona.

 

Come tutti i talenti egoisti ed impulsivi, Sivori non era e non poteva essere un vero leader: era un “maverick”, uno che si distingueva da tutti gli altri, che faceva storia a sé, che non si allineava, orgoglioso come un “gaucho”, permaloso ma capace di grandi e profonde amicizie come quella che lo tenne legato alla sua Juventus e ad alcune delle sue grandi figure come Boniperti, Charles e l’avvocato Agnelli.

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Un patto a tre per tre juventini doc: Sivori, Nestor Combin e Luis Del Sol.

Nella sua tenuta di San Nicolàs, campeggiava lo stemma della sua ex-squadra con la scritta La Juventus. Ogni tanto se ne veniva in Italia e sempre veniva invitato a commentare in televisione ed egli, diventato più maturo e riflessivo, dava i suoi giudizi che potevano o meno essere discutibili ma che mai, da quel che ricordo, sapevano di compiacenza, piaggeria o superficialità. Spesso i suoi giudizi sul nostro calcio erano severi, ma erano dettati da sincerità e da una notevole sapienza calcistica dove si indovinava sempre il vecchio amore per il calcio funambolico, fatto di estro, fantasia, gioia e creatività e la sua scarsa considerazione per il calcio atletico, pieno di podisti, atleti e portatori di palla.

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Una domenica d’inverno di tanti anni fa e Sivori segna. Che ricordi!

Egli soleva irriderli, quando poteva, intestardendosi su un tunnel di troppo, meritandosi magari un calcione. ma scatenando la passione di centinaia di migliaia di persone, nel bene e nel male. Vuoi mettere? Si discuteva per giorni su un suo dribbling e tanti nostri ragazzi lo imitavano ed alcuni perfino ci riuscivano. Allora non c’era la moviola: le possibilità di vedere ripetuta una sua giocata erano pochine. Allora si ricorreva ai ricordi e questi, si sa, spesso portano a magnificare, ampliare e mitizzare e così un suo golletto diventava pura antologia. Ma non faceva niente, perché il mito aiutava e spingeva migliaia di ragazzini a tentare di giocare come lui.

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L’addio del campione.

Caro Sivori, spero che tu riposi in pace e che lassù trovi la serenità che ti meriti.

 

John Charles se n’è andato

 

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Ieri, 21 febbraio 2004, è morto John Charles, ex-calciatore della Juventus e della Roma, venuto in Italia dal Leeds nel 1961.

Era gallese di Swansea, Charles, un metro e novantatre per 88 chili, una forza della natura, capace con la testa di sparare bordate micidiali ma anche di accarezzare il pallone per invitanti “assists” al cabezón Sivori o al capitano Boniperti.

Sono triste perché con big John se n’è andato un pezzo della mia vita ed un pRisultato immagine per John Charles Juventusezzo di cultura calcistica.

A parlarmi di Charles era mio zio Enzo, tifoso della Juve. Lo vidi durante una partita giocata dal Galles ai Mondiali, credo quelli del ’58, in Svezia. Mi sembra si fosse fatto male e lo ricordo con un cerottone sul sopracciglio. Il Galles non fece una gran figura. D’altro canto, in Svezia c’era il Brasile di Pelé (allora appena diciottenne), Garrincha, Didì e Vavà: una delle squadre più forti e più belle che abbia visto.

La mia Juve era Charles, Sivori e Boniperti ed era assolutamente da amare: la si amava perché giocava bene, perché era molto forte e poi la si amava perché aveva Sivori e Charles.

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Sivori era l’opposto esatto di Charles. L’argentino era piccolo, brutto e sgraziato ed in più era un gran figlio di buona donna: beffardo, strafottente, maligno e vigliacchetto. Faceva passare il pallone fra le gambe degli avversari non per sveltire l’azione ma per irriderli. Tratteneva il pallone e provocava l’avversario con tutto un repertorio di finte, giochetti che imbestialivano i difensori e ne scatenavano rabbia e impotenza. Spesso poi perdeva il controllo dei propri nervi e sfogava la sua rabbia con sceneggiate invereconde contro arbitri e avversari. Ricordo il calcio a freddo che appioppò da dietro a Pachín, appena finita la partita che si era risolta con la vittoria del Real Madrid in una Coppa dei Campioni dei primi anni sessanta, oppure la volta che se la prese con l’arbitro beccandosi sei o nove giornate di squalifica. Era da amare o da odiare. Gli juventini stravedevano per lui; gli avversari lo detestavano.Risultato immagine per John Charles Juventus

Charles era invece la cultura del calcio e dello sport. Prendeva tante di quelle botte da stroncare un bisonte e mai una reazione, mai un gesto scomposto. Non un’espulsione, non un’ammonizione in tutta la sua carriera. Neanche Facchetti, nerazzurro cuore d’angelo, c’è riuscito.

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A volte, ma raramente, si sfogava nello spogliatoio con Boniperti, lamentandosi come fa un bimbetto col papà o la mamma: “Lui fatto a me male, tanto male”.

E il capitano: “John, quando salti per colpire di testa, allarga le braccia, non c’è bisogno di sgomitare; solo allargando i gomiti farai spazio attorno a te” e John :”Sì, sì”.Poi, tornato in campo saltava come sempre faceva: diritto, maestoso, con le braccia lungo i fianchi e gli avversari che si dannavano per tirarlo giù, per sbilanciarlo, per trattenerlo.

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Caro John, mi manchi. Io non sono come te, ma vorrei esserlo perché il calcio deve essere come tu lo concepivi e cioè serietà, impegno, concentrazione, onestà, lealtà, rispetto degli avversari e mente libera: mente libera all’inglese e cioè, finita la partita, si va a bere una birra con amici ed avversari, quel che è capitato in campo è finito e, soprattutto, la partita è finita e basta.

Io non amo il popolo inglese per una serie di ragioni che sarebbe lungo ed inutile ricordare qui, ma lo rispetto profondamente. La cultura sportiva di questo paese deve essere di esempio per un paese come il nostro.

La cultura sportiva è in realtà riflesso di una cultura sociale e civile che agli inglesi certo non manca.

Noi, popolo appassionato, umano, pieno di slanci di generosità, non siamo nemmeno capaci di “pensare” un campo da calcio senza recinzioni, una polizia senz’armi, una rivalità politica senza scontri personali, un leader politico senza scorta, una manifestazione senza servizio d’ordine, un concorso senza raccomandazione, una politica senza interessi o carrierismo, un’ammirazione senza adulazione, una cultura del saper perdere, una partecipazione a qualsiasi evento senza prima calcolare quale sia il carro più promettente.

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Ecco quanto mi allontana da Charles e quanto, per paradosso, lo sento tanto simile a me.

Infine, sia detto per inciso, Charles mi riporta ai miei anni di infanzia: non andavo a vedere le partite allo stadio che molto di rado. Non ricordo di aver visto giocare Charles e nemmeno Sivori anche se devo averli visti perché quando la Juve arrivava a Mantova, mio zio mi accompagnava a vederla. Ma ero molto piccolo e i ricordi si fanno molto sbiaditi: mi ricordo di aver visto Suarez e Mazzola a Ferrara contro la Spal, ricordo di aver ammirato a Mantova il Milan di Rocco con Altafini, Rivera e Dino Sani che credo giocasse una delle sue prime partite in Italia quel giorno.

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Ricordo invece una sfida tremenda con il Real di Alfredo Di Stefano, la “Saeta rubia” del Real Madrid: un fenomeno autentico, all’altezza di Maradona e Pelé. Ma ricordo anche le botte che prendemmo. Perdemmo in casa, ma riuscimmo a vincere a Madrid. Si dovette giocare una “bella” in campo neutro e fummo sconfitti.

“Ciars” pronunciava mio zio e quando lo diceva gli si illuminavano gli occhi. A chi non poteva piacere un vero campione, un signore autentico, un gentleman fuori e dentro lo stadio?

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L’immagine di un calcio che non c’è più; un calcio cioè senza sponsor, senza le pay tv o le pay per view, senza i procuratori, senza le vagonate di miliardi che finiscono nelle tasche di baldi giovanotti contro ogni senso della misura, ogni regola di equilibrio, ogni limite.

Ogni tanto big John veniva a Torino per una rimpatriata con gli amici d’un tempo: il passo sempre più pesante, i chili in più, l’occhio lento e moscio per qualche bevuta di troppo; ma il sorriso era quello, l’italiano sempre stentato e l’amicizia vera, di quelle che resistono a tutto, anche alla prova del tempo.

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Mi ha fatto molto piacere sentire da Boniperti e da Umberto Agnelli le espressioni di ammirazione e di sincero rimpianto: vorrei che nella sede torinese dei bianconeri ci fosse una targa, un busto che lo ricordi e vorrei anche che quella targa fosse affissa nello spogliatoio, con la sua foto e una dedica: “A John Charles, gallese bianconero, con gratitudine e rimpianto la tua Juventus”.

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22/2/2004

Ricordo di Beppe Viola

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Esattamente trent’anni fa moriva, stroncato a soli 43 anni in uno studio tv, Beppe Viola.

Chi ha qualche annetto in più sulle spalle, come me, lo ricorda bene. Non è mia intenzione qui parlare di calcio: non è la sede e, del resto, non ne ho la competenza. A me interessa l’uomo e ritengo sia giusto scriverne qui perché Beppe era anche sceneggiatore.

Se dovessi dire chi ha inventato un nuovo linguaggio sportivo, dopo l’ubriacatura di retorica e fraseggio aulico ed arcaico, direi Gianni Brera. Gianni aveva, oltre alla formazione culturale, una vivacità intellettuale anticonformista che gli permise di difendere tesi discutibilissime (quasi razziste) con il piglio sicuro di chi conosce l’argomento trattato. Sue sono le invenzioni linguistiche come i neologismi, suoi gli azzardati accostamenti (“gli abatini” le “masturbazioni” intese come gioco che non predilige la verticalità).

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Viola era invece un autodidatta. Era nato a Milano e abitava dalle parti di via Lomellina, vicino di casa di Enzo Iannacci. Non aveva compiuto studi regolari; non aveva neanche un diploma di media superiore. Era un autodidatta. Ma aveva la curiosità,l’intelligenza ed un talento innegabile. Sapeva scrivere. Non avendo come modelli i classici, il suo punto di riferimento era la gente, il “popolo”. Infarciva quindi la sua prosa con i detti popolari, il colore, i dialettismi, gli accostamenti pittoreschi. Tutto questo aveva il potere di innervare il suo linguaggio, arricchendolo oltre i limiti consentiti dalle severe norme lessicali. Tutto questo ne faceva un “creatore” di linguaggio altrettanto

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Si distingueva dalla compita diligenza dei suoi colleghi quando, con onestà intellettuale notevole, capiva che non era il caso di scrivere o mandare il solito “pezzo” di routine, maledicendo in cuor suo, il mestiere che lo obbligava a farlo. Un esempio? Nel novembre del 1969, si giocava un derby meneghino (Inter-Milan credo). La partita fu così brutta che Beppe, al momento di darne conto alla Domenica Sportiva serale, preferì proporre agli stupiti telespettatori un servizio andato in onda sei anni prima dopo un derby degno di questo nome. Grande!

Ma non scriveva solo di sport. Scriveva canzoni (tra cui TIRA A CAMPA’ e STATU QUO in coppia con Iannacci). Ma quella che tutti ricordano senz’altro è QUELLI CHE (scritta nel 1975 con Iannacci e che Fabio Fazio, da persona sensibile e intelligente, ha scelto come sigla per l’omonima fortunata trasmissione pomeridiana domenicale.

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Per il cinema, ha collaborato alla sceneggiatura con Monicelli per ROMANZO POPOLARE e con Ugo Tognazzi per CATTIVI PENSIERI. Nel primo, egli fa anche una breve e gustosa apparizione come addetto al controllo dei biglietti in un cinema milanese.

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Ma scrisse anche parecchi testi per quei simpaticoni di comici che si esibivano al celebre cabaret milanese Derby Club, tra cui Teo Teocoli, Massimo Boldi, Cochi e Renato, Felice Andreasi, Paolo Villaggio ecc.

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Io lo ricordo come uomo pieno di ironia, portato spesso a sdrammatizzare e magari anche a sfottere elegantemente certi campionissimi, beccati magari in atteggiamenti o prove tutt’altro che esaltanti.

Perché il bisogno di ricordarlo? Credo che, quando un Paese o una società attraversano un delicato momento di transizione o una stagione per molti aspetti da dimenticare, sia importante proporre esempi di onestà intellettuale, forte tensione morale e un talento vero, virtù tutte queste proprie di Beppe Viola.

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Per concludere questo piccolo ricordo, propongo alcune righe di un commosso articolo di Gianni Brera, pubblicato su LA REPUBBLICA del 19 ottobre 1982:

  (…) Era nato per sentire gli angeli e invece doveva, oh porca vita, frequentare i bordelli. (…) Povero vecchio Pepinoeu! Batteva con impegno la carta in osteria e delirava per un cavallo modicamente impostato sulla corsa; tirava mezzo litro e improvvisava battute che sovente esprimevano il sale della vita. Aveva un humour naturale e beffardo: una innata onestà gli vietava smancerie in qualsiasi campo si trovasse a produrre parole e pensiero. Lavorò duro, forsennatamente, per aver chiesto alla vita quello che ad altri sarebbe bastato per venirne schiantato in poco tempo. Lui le ha rubato quanti giorni ha potuto senza mai cedere al presago timore di perderla troppo presto. La sua romantica incontinenza era di una patetica follia. Ed io, che soprattutto per questo lo amavo, ora ne provo un rimorso che rende persino goffo il mio dolore… »

 

 

Note di Fisiognomica applicata al calcio

Dimmi che faccia hai e ti dirò chi sei. Chissà se esistono ricerche o studi di qualche università americana che, abituate a compiere studi approfonditi sul metodo riproduttivo degli istrici o sulle tendenze sociali degli anellidi, non perdono occasione per gonfiare il petto e urlare al mondo che la vera ricerca si fa solo negli States.

Io, più modestamente, e per gioco, mi vorrei soffermare su un aspetto superficiale dei recenti mondiali di Germania: quello fisiognomico, appunto.

 

In una galleria come questa non era possibile lasciar fuori  un poersonaggio come Paul “Gazza” Gascoigne.

 

Miroslav KLOSE

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La faccia da seminarista di Klose, ad esempio, il centravanti della Germania. Klose è polacco d’origine e tedesco d’adozione: cosa alquanto inquietante se pensiamo a come hanno ridotto la Polonia i tedeschi nell’ultima guerra. Ma la Polonia è un Paese profondamente cattolico ed è patria dell’uomo più importante, a livello politico e morale dell’ultimo quarto di secolo e cioè Papa Woytila. Klose quindi è un figlio della Polonia e di quel Paese ne indossa le vesti morali ed esteriori. Morali perché un seminarista non può non essere eticamente inappuntabile; esteriori, perché Klose è un vero figlio della pia Polonia: si fa il segno della croce quando entra in campo e quando esce, eccetera. I polacchi si dividono in due categorie fisiognomiche: i figli dei minatori e i figli degli intellettuali. I figli dei minatori sono degnamente rappresentati da Lech Walesa:; gli altri invece li vedo ben rappresentati da Klose, che non è un intellettuale ma un seminarista. Ma in Polonia, al contrario dell’Europa, intellettuali e seminaristi non sono termini antitetici. IL cattolicesimo segna un’identità personale e di popolo che ha permesso ai polacchi di non farsi omologare né dai nazisti né dai comunisti sovietici. L’esatto contrario di ciò che avviene in un Paese come la Francia, dove l’intellettuale è. quasi per sua natura, molto spesso agnostico e assolutamente ateo.

Guardate le sue movenze, il suo passo misurato, elegante, il suo stacco di testa, imperioso. Non protesta mai Klose, mai una parolaccia, mai un gesto volgare, mai una giocata scorretta, vigliacca, maligna. Piuttosto un sorriso, magari un po’ amaro oppure un segno della croce eseguito in modo rapido e sapiente, proprio di un seminarista.

 

LUCIO

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Un altro atleta che ha attirato la mia attenzione è il difensore del Bayern di Monaco e della nazionale verdeoro del Brasile: si chiama Lucio e per me è un fabbro (nella mia immaginazione e nella mia esperienza i fabbri e i maniscalchi si assomigliano un po’ tutti). Lucio ha il volto da fabbro e il corpo da fabbro. L’avete mai visto correre? Sgraziato, scoordinato, irruento e a volte goffo: un fabbro, appunto. Avete mai visto un fabbro correre? Abituato com’è per il suo mestiere a menare colpi di maglio ben assestati, a modellare ferri da cavallo, a lavorare sulla forgia al caldo e al freddo, a tirare bestemmie se il cavallo non vuole farsi ferrare o se il ferro non è venuto come si voleva, che senso avrebbe saper correre? In effetti, Lucio, quando corre, più che un uomo sembra un cavallo. Non per nulla in Brasile lo chiamano “O caballo”. La prossimità e promiscuità coi cavalli da ferrare ha innescato un meccanismo di imitazione nel fabbro. Ma il cavallo, nei suoi movimenti, è aggraziato, mentre il fabbro, o perché l’imitazione non è mai come l’originale o perché un uomo che imita un animale diventa goffo, non sa coordinare i movimenti come sa fare un cavallo. Il risultato è appunto Lucio: non so se sa imitare il nitrito, penso che se lo tentasse, ne uscirebbe un raglio indistinto, una cacofonia indecorosa. Nelle sue sgroppate, pardon, nelle sue sortite fuori dalla sua zona di competenza, che è l’area difensiva, finisce spesso per perdere il pallone perché non riesce a controllarlo come un vero brasiliano. Lucio deve avere antenati europei probabilmente tedeschi o cechi: bravi a forgiare, coi loro grembiuli di pelle grezza, le manone callose, e la pelle resa ruvida dalle vampate improvvise ma costanti delle loro fucine, ma incapaci di accarezzare il volto di una fanciulla, di parlare con voce melodiosa alla loro amata, abituati come sono a menare nerbate sui poderosi lombi di animali riottosi per renderli più mansueti o a proferire parolacce da far arrossire un vetturino felliniano o uno scaricatore di porto.

 

Juan Román RIQUELME

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C’è un giocatore argentino, si chiama Riquelme, che si è distinto come uno dei migliori registi di questo mondiale. Gioca nel Villareal, una squadra di una cittadina spagnola a nord di Valencia, che è assurta a notorietà perché, da sconosciuta che era, si è imposta per gioco, personalità ed entusiasmo, nel novero delle migliori squadre europee, fino ad arrivare alla semifinale dell’ultima Champions League. Una cittadina di 45.000 abitanti!

Il suo gioiello è appunto Riquelme, un atleta che in patria, prima di venire a giocare in Europa, era considerato un fuoriclasse assoluto. Comprato da una squadra spagnola, il Valencia, mi pare, non era riuscito a mantenere le promesse che da lui ci si aspettava. Dopo qualche anno di anonimato, il Villareal ha deciso di acquistarlo, convinto che in un ambiente meno stressante di quello di una grande città e in una squadra senza particolari obblighi di successo, sarebbe tornato ad essere quel che era.

In effetti, così è avvenuto. Ora Riquelme è conteso dai migliori club europei ed è l’anima ed il cervello fino di questa Argentina.

Vederlo giocare non è particolarmente esaltante da un punto di vista estetico. Quello che mi ha colpito di lui è invece il modo di muoversi e la sua espressione. La sua è una continua smorfia dolente, propria di chi sta quasi esalando gli ultimi sospiri, Ogni passo che muove, ogni movimento che effettua sono caratterizzati da un costante stringimento d’occhi, contrazione dei muscoli facciali, tipici di chi sta veramente soffrendo, magari per un calcio negli stinchi o per una fitta intestinale lancinante. Poi, quando pensi che sia giunto il momento per far accorrere il cappellano in campo per impartirgli l’estrema unzione, ti fa un passaggio geniale, ti inventa una giocata magistrale. E non ride. Non ride né sorride mai. Può darsi che i suoi facciano parte o facessero di quelle sette che, per trovare pace, dovettero lasciare un’Europa intollerante per stabilirsi nel Nuovo Mondo. Una specie di quaccheri accaniti che considerano il riso e la gioia come strumenti demoniaci. “Penitentiagite” sembrerebbe esclamare ogni volta che tocca un pallone e i suoi avversari, basiti da tanta gravità morale; lo lasciano fare, rispettosamente, come si conviene con un uomo di Chiesa e di alta statura morale. Una sua prerogativa che lo fa discostare dalla “gravitas” è lo sputo. Il suo è uno sputo piccolo, compatto e a forma di pallina. Lo fa prima di ogni calcio piazzato e di ogni giocata importante. L’ipersalivazione è un fenomeno ipernoto a chi pratica lo sport, ma ci sono sputi e sputi. C’è quello sgangherato e senza ritegno che bagna mezzo ettaro di terra. C’è quello secco, preciso come un proiettile. Quello lascivo che esce dalla bocca quasi come una bava di bue per adagiarsi mollemente su una scarpa. Quello che Totti lanciò a Poulsen, il danese maligno, agli Europei di Portogallo nel 2004, era uno sputo a tappetino: una discreta quantità di liquido organico che veleggia allegramente sul volto di un avversario.

Quello di Riquelme è uno sputo secco, nervoso, degno di un buon quacchero, senza doppi sensi, diretto e preciso, come un versetto della Bibbia. Riquelme non sputerebbe mai ad un avversario: il suo rigore morale e la sua cognizione del dolore glielo impedirebbero. E’ un quacchero talmente innamorato dell’estasi del dolore, che pur senza provarlo, ne assume le conseguenze esteriori.

 

David BECKHAM & Wayne ROONEY

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E poi c’è l’Inghilterra: le contraddizioni di questo Paese sono riassunte, per così dire, da David Beckham e da Wayne Rooney. Il primo rappresenta la upper middle class che accede ai privilegi dorati “etonians” della Ruling Class: Beckham ha il fisico, lo stile e il carisma di un Englishman alla Rudyard Kipling: l’erede dell’impero, bello, affascinante e ricco come un Lord, perfetto tanto da far dire a qualcuno che se Dio avesse una patria questa sarebbe l’Inghilterra o che se Dio fosse un cittadino attuale sarebbe per forza inglese.

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Rooney è invece il campione della working class: rude, volgare, sboccato ma terrificante nella sua furia. Nessuno è più barbaro di un inglese cresciuto nei quartieri degradati. La sua violenza non conosce limiti, la sua barbarie lo accomuna agli Unni, i più barbari tra i barbari. Guardate il suo volto: poco espressivo, pienotto, occhi chiari e sfuggenti, capelli corti e rossi, fisico tracagnotto tipico di chi è abituato a sgobbare nei docks di Liverpool o nei mattatoi di Manchester o nelle fonderie di Birmingham. Rooney è l’inglese erede di chi ha conquistato un impero con la costanza, la caparbietà e la perfidia tipica di Albione. La furia totale della truppa moderata e ben incanalata da ufficiali rampolli di famiglie che li hanno fatti studiare a Eton o Cambridge. A Waterloo furono loro, temprati da dura vita e sacrifici, a battere Napoleone, come ebbe a dire Wellington.

Non c’è genio nelle loro giocate, c’è, questo sì, tenacia e caparbietà anche di fronte a situazioni insostenibili o all’apparenza disperate. Ogni altro popolo (escludendo forse tedeschi e giapponesi) verrebbe sfiorato dal senso dell’impotenza e forse del ridicolo: gli inglesi no. Capaci di lottare strenuamente per un’isola insignificante all’altro capo del mondo ancora negli anni Ottanta, di entusiasmarsi ed aggrapparsi a valori e simboli ormai sbiaditi (la Corona) e di mantenere sempre e comunque la loro spocchia, il loro senso di superiorità verso chiunque, orgogliosi di un passato da protagonisti e convinti di esserlo oggi ancora.

Beckham è il simbolo di un dandysmo da yuppy, da VIP, che tanto piace alle ragazzine di oggi: una combinazione felice tra successo e bellezza, che è poi il modello oggi vincente. Rappresenta quello che tanti giovani vorrebbero essere, ricchi, belli e famosi. Se poi Beckham è anche il marito di una Spice Girl, beh, è proprio il massimo. Guardate come si muove, come saluta, come festeggia. Sono gesti, i suoi, misurati, mai sguaiati, sono le movenze di un abitante di Mayfair, abituato al self control, e all’understatement (quando è possibile). Il suo gol all’Ecuador, nei quarti di finale, è di una precisione chirurgica, ma la sua gioia non è banale, esagerata e proletaria. Nel suo sorriso noti sempre il “touch of class” che lo rende diverso da tutti gli altri.

Quando segna Rooney invece, è come se la classe operaia andasse in Paradiso. Il fisico tozzo gli impedisce di muoversi con stile, le sue radici plebee lo inducono al gesto liberatorio, all’urlo scomposto, alla gioia incontenibile di un poveraccio che s’accorge di aver vinto alla lotteria più ricca. Non da plebeo ma da figlio malvagio e maleducato del popolo è l’uso della scarpa come arnese per schiacciare i testicoli degli avversari, come gli è capitato con il Portogallo, gesto che gli è costato l’espulsione.

La sorte è malvagia con i figli del popolo: non sanno gestire l’improvvisa prosperità, la notorietà, il successo con tutti i suoi riti e i suoi obblighi. Presto o tardi le sue radici gli manderanno un conto molto salato.

In Italia il ceto operaio ha avuto come elemento moderatore la religione cattolica: successi e disgrazie trovano nel cattolicesimo una specie di attutitore o ammortizzatore sociale che impedisce a chi ne viene colpito di dar luogo a comportamenti estremi. E’ ovvio che questa è una generalizzazione.

In tante parti del mondo, nelle classi meno privilegiate, c’è invece il passaggio diretto al gesto estremo: il malessere o degrado sociale porta spesso all’alcolismo, al comportamento trasgressivo, mentre, di fronte ad una improvvisa prosperità, c’è l’incapacità di gestirla.

In Inghilterra c’è un preoccupante malessere sociale giovanile nelle periferie delle grandi città che spesso ha come conseguenza dei comportamenti criminali, tanto assurdi come gratuiti all’apparenza.

Lo sport lì, come in tutto il mondo del resto, potrebbe essere un ottimo canale per contrastare la violenza.

 

Franck RIBERY

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Non vi è mai capitato di trovarvi da soli in un vicolo, di notte, nella zona più malfamata di Marsiglia? No? Neanch’io, per fortuna. Ma mettiamo, come semplice ipotesi, di trovarvi proprio lì: un tassista vi ha scaricato per sbaglio, voi non conoscete niente e nessuno e, d’improvviso vi compare davanti Ribéry. La prima reazione è quella di tagliare la corda, ma è chiaro che non è una buona soluzione. Ma l’avete visto in faccia, Ribéry? E’ la classica faccia del tagliagole. Una cicatrice orrenda che gli scende dall’angolo dell’occhio destro fino alla bocca gli conferisce un aspetto patibolare. Chi è che dorme con lui in stanza, in Germania? Sicuro che si sono giocati a carte quel posto, nel senso che avranno fatto letteralmente carte false pur di non dormirgli accanto. Eppure Ribéry è un buon attaccante e ha dato brio e pericolosità a un reparto che, con il solo Henry, non si è dimostrato particolarmente pericoloso. Un tagliagole francese dev’essere del tipo champagne e cioè: Pardon Monsieur, posso fregarle il portafogli? Oh, merci, c’est gentil, vraiment. Merci et au revoir. Ribéry, quando salta in dribbling i suoi avversari, è come se gli fregasse il portafogli. Una finta a destra e hop! Uno scarto a sinistra e hop! Merci, grazie per esserti fatto scartare. Ma anche i tagliagole, nel loro piccolo, ogni tanto si incazzano. Provate a mollargli un calcio o piantargli la punta del gomito nelle costole e vedrete che reazione! Il Ribéry-champagne diventa un sangiovese romagnolo sanguigno: Adieu la France: Ribéry diventa un qualsiasi sanculotto o un cagoulard spietato e malvagio. Coi suoi dentacci da mulo normanno, coi suoi piedoni da paysan e le parolacce da scaricatore delle Halles va tutto in malora e Ribéry mostra veramente chi è. Un homme du peuple, un vignaiolo pronto ad accendersi per un nonnulla, un vero tagliagole insomma. Frank Ribéry, 23 anni, di Boulogne-su-mer, giovanotto veloce in una squadra di vecchi, anche se pieni di classe. Frank Ribéry, che ha ridato vitalità alla Francia, proprio come un vitigno giovane innestato su uno vecchio ed esausto.

 

Zinedine (Zizou) ZIDANE

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(mondiale 2006)

Zinedine Zidane è figlio di emigranti algerini stabilitisi a Marsiglia. Ha cominciato dalla strada, tirando calci e menando cazzotti e testate come un qualsiasi monellaccio di periferia. Doveva farlo se voleva crescere normalmente in quell’ambiente. Ragazzo dal temperamento buono, docile ma, ogni tanto, di fronte ad una provocazione inaspettata, uno sgarbo improvviso, ecco scattare in lui l’istinto della “banlieue” : una testata dura, improvvisa, folle.

Zidane ha dato tanto al calcio e tanto ne ha ricevuto. Campione autentico per quel che riguarda il gesto tecnico, la giocata di genio, che nessuno si aspetta. Eppure qualcosa in lui non gli ha permesso di essere definito un vero campione in campo e fuori. Se Maradona era il genio allo stato puro dentro il campo e uno scugnizzo viziato e infantile fuori, Zidane è stato l’esatto contrario. Fuori del campo è un padre inappuntabile, un uomo generoso, solidale e un marito affettuoso, in campo, a volte, si trasforma in una specie di scapestrato che mena testate a gioco fermo. E’ stato espulso 18 volte, in due mondiali, in Champions League e in campionato.

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Questo in Germania era il suo ultimo mondiale: l’aveva anche detto. Pur venendo da un periodo per nulla soddisfacente come quello nel Real Madrid, una squadra di grandi stelle e senza operai, finita a catafascio com’era lecito prevedere, si era ripromesso di giocare un grande torneo, l’ultimo della sua carriera. E ha mantenuto le promesse. La Francia era partita malissimo, rischiando di non arrivare nemmeno agli ottavi. Poi qualcosa è cambiato. I grandi giocatori hanno fatto gruppo, si sono ritrovati e non ce n’è stato per nessuno. Hanno fatto fuori una Spagna un po’ troppo supponente, un Brasile inconcludente e un Portogallo battagliero ma inferiore. Zidane è stato il capitano coraggioso di questa squadra che grazie al suo esempio si è messa anche a giocare bene. Un gioco elegante, armonioso, possente. Poi è arrivata l’Italia. L’86% dei francesi era sicuro di vincere contro di noi. Troppo forti siamo- dicevano e ci credevano, les bleus. Anche il trombone Blatter e Monsieur Platini, l’antipatia spocchiosa e sprezzante fatta persona ne erano sicuri. “Non ci batterete per almeno altri trent’anni- diceva Michel, gonfiando il petto e una pancia sempre più prominente.

Zidane, dopo 7 minuti realizza con un “cucchiaio” un rigore inesistente concesso dall’arbitro Elizondo per un fallo di Materazzi che non c’era. Eccolo lì Zidane, bello, trionfante, tornare verso il centro del campo. Come contro il Portogallo, la Francia passa su rigore, un rigore che basta a proclamarli, se niente cambia, campioni del mondo.

La faccia di Zidane è quella triste dell’emigrato, dell’uomo che ha dovuto fare a testate per emergere. La sua fortuna era il talento calcistico, cosa che mancava ai suoi coetanei ragazzi di strada. Ma la sua era anche determinazione cocciuta, estrema. Via da quel quartiere; basta miseria, basta umiliazioni. La faccia di Zidane ora è quella di un borghese che è uscito dal ghetto, che è riverito, che frequenta locali e ristoranti alla moda. E’ francese e la Francia gli è grata di averla portata già una volta sul tetto del mondo, nel ’98 e sul tetto d’Europa nel 2000. La Francia ama chi la rende grande nel mondo. Tutta la stampa ha proclamato lui, prima ancora della finale, miglior giocatore del torneo. Blatter lo ha già rivelato alla stampa. Ma c’è ancora una partita e qualcosa può ancora succedere.

In effetti, qualcosa succede: l’Italia batte un calcio d’angolo e Materazzi salta più in alto di Vieira che lo marca : è pareggio. La Francia non se l’aspettava. Gli azzurri ora fanno paura: colpiscono una traversa con Toni, sempre di testa, hanno il controllo del gioco.

Negli spogliatoi, fra un tempo e l’altro, mister simpatia e cioè Raymond Domenech carica a dovere i suoi e il gioco gli riesce; sono i francesi ora che giocano meglio. Prima con un tiro di Ribéry uscito di un niente, poi con un colpo di testa di Zizou i galletti vanno vicini al vantaggio. Ma il risultato non cambia. Si va ai supplementari. Zidane è stanco, ha un giorno in meno di riposo rispetto agli azzurri. Quella porta pare proprio stregata, Buffon para tutto. Zidane, come gli altri, è un po’ nervoso: vede avvicinarsi la lotteria dei rigori. E poi c’è la marcatura che lo fa soffrire: duri ‘sti italiani, tignosi e tenaci. Alcune giocate non gli riescono. Mentre sta spalle alla porta sente all’improvviso, ancora una volta, le mani di Materazzi, sempre lui, che gli afferrano la maglia. E’ già da un po’ che lo fa: adesso però gli dico qualcosa :” Se vuoi la mia maglia te la posso dare a fine partita.”. Lo dice con un po’ di scherno. Materazzi è un tipo emotivo, si accende per poco. A fine partita, contro la Germania, non avendo compagni vicini da abbracciare, si era chinato ad abbracciare le gambe dell’arbitro. Come si fa in tutti i campi del mondo, Materazzi gli risponde andando un po’ sul pesante e sibila una frase simile a questa: “Meglio se me la da tua sorella” e aggiunge qualcos’altro. Zidane che ormai stava allontanandosi, sente e qualcosa si cortocircuita in lui. Vede Marsiglia, vede i calci e gli stracci, il tanfo delle periferie e degli angiporti e parte ad ariete contro il petto dell’italiano. E’ una testata plateale e spettacolare, tanto forte quanto precisa. L’azzurro cade pesantemente, come un sacco di patate. Dopo qualche momento, a Zizou viene mostrato il cartellino rosso. Espulso! E nella finale del Mondiale!

Blatter, dimostrando un’imparzialità olimpica, lascia la tribuna e va a consolarlo nello spogliatoio e resta con lui fino alla fine. Non va nemmeno, come sarebbe suo dovere, a premiare gli italiani che nel frattempo hanno segnato più rigori dei francesi. Zizou non va nemmeno a ritirare la medaglia d’argento. Forse Blatter lo ha dissuaso, chissà.

Neanche Platini scende a premiare, lui vice-presidente della FIFA: che esempio! E’ che non riesce a sbollire la sua rabbia. Darebbe calci agli italiani e non medaglie.

Zidane viene proclamato miglior giocatore del torneo. Domanda: se fosse successo con un italiano?

Chirac lo accoglie il giorno dopo a braccia aperte all’Eliseo e lo abbraccia. La Francia ha perso ma forse ha vinto lo stesso. Tre giornate di squalifica a Zidane che è ormai un ex-calciatore e due-dico-due a Materazzi, reo d’averlo insultato. Certo che la Francia ha vinto!

E’ uno scandalo che lascia molti strascichi e che farà storia per l’evidente sproporzione fra provocazione e reazione. Ma bisognava pure accontentare Platini e la grande France, parbleu! L’Italia non conta niente, ma la Francia , diamine, è sempre la Francia!

Parafrasando Jacques Prévert :”Quelle est cette grandeur qui hante mon coeur?”

 

RAUL

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Mondiale 2006

Raúl González Blanco, più di qualunque altro della nazionale spagnola, è il simbolo della disfatta. La sua è la faccia della sofferenza, dell’impresa storica incompiuta, del “fracaso” per dirla alla spagnola.

L’eliminazione negli ottavi di finale è stata giusta ma inopinata. Gli spagnoli erano in gran parte convinti che questo fosse l’anno giusto per il trionfo nel campionato del mondo. A detta dei tecnici e degli esperti, questa era la formazione più forte di sempre. Ed invece è andata male, un’altra volta. Lo sbigottimento, la sorpresa sono stati tali che per un giorno intero la Spagna non ha reagito. La mazzata è giunta all’improvviso e così pesante che sono occorse molte ore per cominciare a ragionare con una certa dose di freddezza e raziocinio. Il giorno dopo, nella popolare rubrica radiofonica Gaceta de los deportes su Radio Nacional de España, il celebre giornalista José Manuel Gonzalo ancora non riusciva a farsene una ragione e già cominciava a cercare dei colpevoli, tra cui individuava Raúl.

Già, un colpevole, o meglio un capro espiatorio. Accade sempre così, anche in questioni molto più serie e drammatiche. Una sconfitta grave difficilmente viene metabolizzata da una Nazione: più facile trovare dei responsabili che paghino per tutti. Non è possibile che paghi un intero Paese: diventa quindi semplice la caccia all’untore. E’ accaduto in Italia alla fine del fascismo: i responsabili di tutto il disastro era solo Mussolini e la sua cerchia di gerarchi. Poi la colpa venne estesa a tutti i fascisti, anche a coloro la cui unica colpa era quella di aver indossato una divisa o aver servito nella GNR per necessità. Non c’è stato un processo di autocritica da parte della Nazione. L’intero popolo italiano, o almeno in larghissima parte, si macchiò di colpe gravi, come il non essersi opposto in modo netto, nelle piazze, nelle scuole, dappertutto anche con la forza, all’onda montante fascista. Se l’esercito avesse sparato su quegli straccioni della marcia su Roma, probabilmente oggi il fascismo sarebbe solo una parola nota agli storici.

Il capro espiatorio è di solito uno che non conta nulla o un ex-grande ormai solo d’impiccio. Prendersela con Raúl è una vera schifezza. Raúl, grande di Spagna, bandiera del Real Madrid e della Selección per un decennio, ex-giovane prodigio, inappuntabile in campo e fuori. Un vero spagnolo, un autentico “caballero” , dall’indole di “hidalgo”. Non è mai la colpa di un singolo a decidere le sorti di una squadra. E’ la squadra spagnola a non avere mantenuto le promesse. Oltre al bel gioco, bisogna anche segnare. Puoi avere i più promettenti giovanotti dell’Europa calcistica, li puoi incensare e glorificare, puoi cospargerli di mirra e coprire di miliardi, fino a rovinarli.

Per vincere occorre fare gruppo e avere motivazioni immense. L’Italia, coperta dagli scandali, sbeffeggiata da tutti, schizzata di fango su tutti i giornali del mondo, segnata a dito come una sorta di mostro, queste motivazione le ha trovate, tirando fuori l’ultimo barlume di dignità che ancora si celava in loro e facendo gruppo, serrato a coorte, come dice l’inno, pronto a dare l’anima contro tutto il mondo. Questo ha permesso loro di arrivare fino in fondo.

La Spagna invece si è beata del proprio bel gioco, si è illusa di avere già vinto prima ancora di giocarsela con le vere grandi. I giornali, la tv, l’opinione pubblica ne decretava il trionfo certo e scherniva gli altri avversari (tra cui l’Italia cui non si perdona nulla in Spagna quando perde).

Raúl non ha giocato bene, è vero. Ma neanche la Spagna. Dopo essere passata in vantaggio grazie ad un rigore concesso dal nostro arbitro Rosetti doveva serrare i ranghi e giocare concentrata, pronta a colpire in contropiede e sferrare il colpo di maglio definitivo. Ha invece lasciato giocare la Francia e questa, più esperta, ha preso poco a poco le redini del gioco e l’ha stesa. Raúl González Blanco, la faccia triste della Spagna, la Spagna irriconoscente, impietosa, vigliacca a prendersela con chi tanto le ha dato.

Non lo festeggeranno più in Plaza de la Cibeles a Madrid, forse si sbarazzeranno di lui perfino nella sua squadra con la nuova gestione Calderón – Capello. Forse andrà all’estero o, forse, appenderà le scarpe al chiodo e se ne andrà a Yuste a riflettere sul vecchio adagio : Sic transit gloria mundi. Vecchio imperatore di Spagna, caro Raúl, fedele compagno di tante battaglie al Bernabeu, sui campi di mezzo mondo e ora costretto a un “buen retiro” triste e pieno di amarezza.

Mi verrebbe spontaneo parlare della volgarità di questo mondo, che crea e distrugge i propri miti con egual velocità: un mondo volgare, ignorante e superficiale ha bisogno di miti perché non sa affrontare la verità, non sa e non vuole ragionare sui grandi temi perché costretto a correre, affannarsi dietro ad una vita che corre sempre più veloce. Non ha il tempo di fermarsi a pensare. Per sopravvivere bisogna correre, seguire la corrente, allinearsi alle regole di un mercato impazzito. “Chi si ferma è perduto” dicevano i nostri nonni, ma non è cambiato nulla allora?

Caro Raúl, vecchio guerriero stanco e triste, non ti curare di loro, ritirati pure, nulla ti toglierà e ci toglierà le tue giocare improvvise, le tue reti rapide e mortali, il tuo scatto bruciante, il tuo anello baciato e la tua espressione felice. Va pure a Yuste e, ti prego, se la Spagna ti richiedesse di nuovo, sotto forma di intervista o comparsata in un programma di varietà, sprona pure il tuo destriero dal rombo potente e lasciali pure cercarti. Non farti trovare, lascia loro solo il ricordo della tua carriera cristallina: è quella l’unica risposta che meritano.

 

Francesco TOTTI

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Mondiale 2006

E veniamo all’Italia. Il personaggio più interessante tra i giocatori azzurri del mondiale è a mio parere Francesco Totti. Ho vissuto a Roma sedici anni e qualcosa del carattere dei romani l’ho capito. Totti, diciamolo subito, è il classico giovane romano della classe medio-bassa (piccoli commercianti, artigiani, impiegati di medio livello) molto vicina alla Roma popolare (quella del quartiere Testaccio, del Tuscolano o del Prenestino), ma già un gradino sopra alla Roma di Primavalle, Tor Pignattara, Centocelle e del Tufello.

Voglio dire che il suo comportamento , il suo modo di fare, pensare ed agire è tipico di una certa romanità: furbetta, caciarona, fanfarona, sempre pronta alla battuta, a sdrammatizzare tutto e tutti, pronta all’irrisione dell’avversario e al piagnisteo. Una romanità che se da un lato si è riscattata tirandosi su le maniche come tutti gli italiani nel dopoguerra, dall’altro perpetua i comportamenti resi celebri da Alberto Sordi nelle sue caratterizzazioni dell’italiano medio.

Totti è grande nella Roma: la città (o parte di essa, quella di fede giallorossa) lo adora e coccola come una pietra preziosa, ma non lo è in Nazionale. E’ grande in campionato, ma non nelle coppe con squadre straniere.

La sua classe, sugli scenari internazionali, evapora e mette in mostra le sue pecche. Segno che non è un grande campione, ma solo un ottimo giocatore.

La sua incapacità di imporsi a livello internazionale denota una personalità fragile, costruita su fondamenta non sempre solidissime. E’ la personalità del furbetto, del bullo, magari di animo buono, ma abituato ad arrivare ed ottenere più grazie all’accomodamento, all’accortezza, all’innata furberia che al sacrificio personale, al duro impegno. In più Totti ha avuto dalla sorte un grande talento come pedatore. Se Totti fosse appartenuto alla genìa di chi si è fatto largo nella vita grazie al sacrificio e alla volontà, oggi sarebbe uno dei più grandi campioni. Invece…

Totti ama irridere (ecco l’uso frequente del “cucchiaio”) non si accontenta di superare o battere l’avversario. Come tutti i bulletti non ama che la si metta sulla fisicità: appena un bullo trova uno più grande e grosso di lui abbassa le ali e lascia il campo. Questo, gli avversari lo sanno. Ormai, dopo quel che è successo in Portogallo, tutti gli allenatori gli piantano addosso il loro giocatore più rognoso e maligno ed il gioco è fatto. C’è solo da aspettare il momento della reazione scomposta. A volte va bene e a volte va male.

Come il vino che più invecchia e più diventa buono, Totti è diventato però sempre meno “borgataro” e sempre più campione. Ha saputo accettare ruoli sempre meno da protagonista, in silenzio e senza mancare di rispetto. Nel contempo, ha mostrato  spunti di classe purissima che lo hanno portato ai vertici del calcio internazionale. Purtroppo, anche la gioventù se ne va e rimangono solo ricordi e velleità. Ma l’addio è stato da par suo: in lacrime e applaudito virtualmente dal mondo intero, sempre in piedi, nonostante fosse stato ormai relegato a panchinaro fisso, ha lasciato un’immagine indimenticabile che lo situa fra i grandi di sempre.

 

Gennaro GATTUSO

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Bisognerebbe consegnare il collare dell’Annunziata a chi ha affibbiato il titolo di Ringhio a Gattuso. E’ un appellativo che gli calza a meraviglia. La cosa più curiosa è che si parla di Gattuso come di un giocatore grintoso, generoso, mai domo, tenace, lottatore, dall’agonismo spinto al massimo. Peccato che non si parli mai di lui come giocatore di calcio. In effetti non sa effettuare traversoni, non sa fare passaggi che non siano elementari, non sa giocare di testa, non sa usare il sinistro, non sa tirare. In cambio è un grande intenditore.

Di lui colpisce lo sguardo fiero, quasi altezzoso, perennemente accigliato: retaggio di secoli di dura fatica a lavorare su terre inospitali, aride, povere capaci solo di regalare miseria e avare di soddisfazioni. C’è una certa qual nobiltà in quello sguardo: quella di sfidare l’autorità e le avversità quando ormai non c’è più nulla da perdere. Secoli di oppressione, ignoranza, povertà, invece di fiaccare quelle genti, ne hanno indurito la scorza, solleticato l’orgoglio, acceso l’orgoglio.

Le tradizioni, le superstizioni, i costumi arretrati hanno aiutato a mantenere una scala di valori che, nella stragrande maggioranza dei casi, è rimasta inalterata. In loro, però, cova da sempre una rabbia a stento contenuta, contro le ingiustizie subite, l’assenza dello Stato (Borbonico, Piemontese o italiano che sia), le soperchierie e i soprusi dei potenti.

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Ecco quindi in queste genti apparire di tanto in tanto il lampo, il gesto estremo apparentemente insensato e ingiustificato.

Tutti noi portiamo dentro i segni dei mali secolari e aviti. Questi segni sono stati sommersi, insabbiati con il passo dei tempi da nuove realtà, nuove situazioni, dal benessere, dai consigli paterni e scolastici, dai precetti religiosi. Non fanno più capolino. In Gattuso invece, così come nella sua gente, essi restano appena coperti da un sottile strato di civiltà pacifica. Lo scontro verbale e quasi fisico, con Rino che prende per il collo Joe Jordan “lo Squalo”, ex rossonero e ora vice allenatore al Tottenham Hotspurs, reo di averlo insultato come uomo e come italiano, è più comprensibile.

 

Andrés INIESTA

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Questo centrocampista del Barcellona, giovane e bravo, ha il volto del bravo bimbo felice di avere appena ricevuto l’ostia della Prima Comunione. E’ un ragazzino buono, diligente e carino, un po’ come Tonino Carino da Ascoli. Lo vedo sorseggiare il suo brodino, la sua brava minestrina come quella che sua mamma gli preparava con cura ogni domenica. Lo vedo imbacuccato da capo a piedi anche quando fuori non fa freddo, perché, si sa, i colpi d’aria ( e Barcellona è una città di mare con “brisa y todo”) fanno male. Non protesta mai Iniesta, accetta le decisioni dell’arbitro e abbassa la testa, Iniesta. Bravo ragazzo. I suoi compagni lo adorano, lo possono mandare a ffanculo, tanto lui non insorge e non protesta, Iniesta. Lui, abituato alle minestrine (sopa de fideos sopa boba, sopa de ajo, sopa de lentejas, de acelgas, de judías, ecc), al filettino ai ferri, all’insalatina e che non ha mai colpi di testa, Iniesta. Nello spogliatoio, c’è chi impreca e bestemmia tanto da far arrossire un vetturino di Forlì, c’è chi da calci al muro e alle borse, ma lui si guarda bene dal perdere il controllo; arrossisce e forse addirittura si spaventa, Iniesta e zitto e docile resta, Iniesta.

Ha una faccia bianca, da anemico, pur con tutte le bistecchine che ha ingollato. Se la toponomastica non è un’opinione, il fatto di provenire da Fuentealbilla [trad.: fonte pallida] vorrà pur dire qualcosa. E’ un paesino della provincia di Albacete, Castilla La Mancha. Ma ha poco sangue, forse per questo è così bravino e carino. Il sangue non gli va mai alla testa, a Iniesta. Non è come quel lungagnone di Piqué o quello smargiasso di Marchena cui il sangue spesso monta “hasta la coronilla”. Andrés deve essere come quei lucertoloni che, essendo di sangue freddo, hanno bisogno di scaldarsi per cominciare a muoversi. Infatti, sembra che sulla banchina del porto di Barcellona, egli si trovi come a casa sua. Un giorno lo portarono al commissariato. Qualcuno aveva chiamato la polizia per denunciare, sembra, la presenza di un probabile pederasta, che se ne stava tutta la mattina disteso sul muretto della banchina, probabilmente a caccia di qualche amichetto. Portato al commissariato, lo riconobbero, ma il capitano, che era un tifoso del Real Madrid, decise lo stesso di schiaffarlo in gattabuia per una notte e senza cena, per giunta. A suo dire, assomigliava a Iniesta, aveva i documenti intestati ad Iniesta, la voce era la stessa di Iniesta, ma non era Iniesta, era un “cabrón del Barça”, un culé che si divertiva a delinquere, spacciandosi per il giocatore.

Ora quel capitano lavora come “sereno” in uno dei paesini più sperduti dell’Estremadura, fra Trujillo e Guadalupe. Dicono che, di sera, si odono orribili “tacos” all’indirizzo della Catalogna provenire dalla cameretta della pensioncina in cui abita. [oh, intendiamoci, questa storiella è tutta inventata]

Carino, ma vendicativo, Iniesta, come quella volta che Rijkaard, il suo allenatore, lo spedì anzitempo negli spogliatoi e lui si vendicò pisciandogli in una scarpa. Da allora il buon Rijkaard si porta dietro le scarpe da gioco ed il motivo non è certo la scaramanzia.

Quando però va in campo, Iniesta si erge sopra tutti i suoi compagni, perfino sopra l’immenso Javi, re del centrocampo blaugrana. Questo giocatore, scoperto da un talent-scout del Barça (cui va eretto un monumento) quando giocava nel Balonpié de Albacete, ha un talento calcistico mostruoso. Vede il gioco come pochissimi al mondo; piccolo com’è ma robusto (come tutti i castigliani), non si fa rubare un pallone neanche a morire. Con le sue gambine rachitiche, riesce ad arrivare prima degli altri e ad avere in una frazione di secondo la visione di gioco chiara e la giocata migliore da effettuarsi. I suoi passaggi sono pennellate d’artista e spesso strappano ammirazione e sorpresa. Piccolino, pallido, timido ma grandissimo campione, il migliore della Spagna campione del mondo 2010 in Sud Africa. Meglio del duro “guaje”asturiano David Villa, tremendo castigatore; meglio del “Niño Torres, “delantero” spietato (meno che al Mondiale 2010), meglio di rey Javi, catalano pensoso, furbo e dal cervello strabordante di materia grigia. I tocchi di Andrés sono sapienti, magici e geniali. Sconvolgono le dure convinzioni teutoniche, le ferree barriere italiche (d’un tempo), le presuntuose certezze brasiliane, le tetragone difese argentine spesso venate di leggerezza e le opposizioni galliche malate di esteticismo. Poi Iniesta sa anche fare gol e i suoi sono molto pesanti. Finale Champions tra Chelsea e Barcellona, finale mondiale fra Spagna e Olanda. Iniesta viso pallido di Fuentealbilla, piccolo genio assoluto, che vale più oro di quel che pesa, con quel suo sorriso timido, la zucca pelata e la vocetta gracile come le sue gambe e un cuore grande da fargli levare la maglietta e mostrare tutto il suo affetto per un “compañero” morto d’infarto qualche tempo prima. “Corazón noble de Castilla”, “pequeño gigante del Barca”, “Alma pura de España”. Gracias Andrés.

 

Roberto DONADONI

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Donadoni, se dovessi affibbiargli un nomignolo o una definizione secca e breve, lo chiamerei “un gentiluomo secco”.

Chiariamo subito un possibile equivoco: non sono in grado di dire se sia un grande allenatore, ma ho il massimo rispetto per lui come uomo. Ho avuto modo di guardarlo, di sentirlo parlare, vederlo muoversi. Mai un gesto fuori luogo, una parolaccia. Queste mie impressioni sono mediate dalla televisione, non ho mai avuto il piacere di conoscerlo personalmente o vederlo dal vivo. Da giocatore si poteva contare su di lui a occhi ciechi; la costanza era un valore assoluto del suo rendimento. Giocava nel grande Milan di Sacchi e di cose ne ha imparate, certo. E’ un uomo nato in provincia, quella di Bergamo. I bergamaschi sono gente dalla scorza dura, poco incline a mostrare i propri sentimenti. Gente che lavora sodo, seria, di poche parole ma su cui si può contare, gente che fa a meno di contratti scritti; la parola e una stretta di mano sono più che sufficienti. Almeno fino a qualche decina d’anni fa. Lo chiamano “osso” coloro che gli sono vicini o che lo hanno frequentato. Osso mi rimanda al concetto di duro e privo di ogni morbidezza o piacevolezza. Un osso non ti dà nulla, non ti permette di gustare neanche un atomo di carne o fibra. Vivere accanto a gente del genere non dev’essere gradevole. Un bergamasco si trova a meraviglia solo con i bergamaschi e forse con i lapponi. Il suo è un volto scavato, il fisico asciutto è lo stesso di quando era calciatore. La sua parlata è monotona, senza lampi d’ironia, metafore ardite, paragoni brillanti. Tutto razionale, politicamente corretto, educato, serio. Fin troppo.

Ma avercene di gente così. Come cambierebbe l’Italia se avessimo tanti Donadoni? Forse saremmo meno mandolinari e più svizzeri, ma all’estero la stima nei nostri confronti sarebbe ben diversa.

Non svia gli ostacoli, le domande difficili, a trabocchetto, personali: risponde a tono e, al massimo, elargisce un sorriso un po’ triste.

La razionalità dei semplici, la misura di figlio di tempi difficili, la compostezza degli onesti, la dirittura morale dell’uomo di un tempo. Ti guarda dritto negli occhi e tu lo guardi e noti un certo imbarazzo nello stare davanti a frotte di giornalisti più o meno educati, a grappoli di telecamere. Mi viene voglia di mettergli una mano sulla spalla e dirgli: Caro Dunadù, qualche cosa l’hai messa da parte, puoi avere una vecchiaia senza problemi economici. Perché non alleni i giovani, perché non stai con i ragazzi che vogliono imparare a giocare a pallone? Essi imparerebbero da te qualcosa di enormemente più importante : l’amore per lo sport, il rispetto dei valori fondanti. Essi in te vedrebbero un esempio illustre e tu potresti rendere un servizio impagabile allo sport. Manda a quel paese questa marmaglia di ipocriti, profittatori, ciarlatani, gente senza dignità che non può altro che farti del male.

Purtroppo Donadoni non è riuscito a realizzare dei buoni risultati con la Nazionale. Eliminata nei quarti dalla Spagna: una squadra impaurita, timorosa, rattrappita, figlia di quelle nazionali degli anni Settanta e Ottanta (nei momenti bui), che ci hanno fatto odiare da mezzo mondo, da quello cioè che ama il bel gioco. Squadra asserragliata in difesa, lanci lunghi a cercare il colpo di genio dell’unico attaccante, incapacità di creare gioco, poche idee e tanta avarizia. Poi d’improvviso i fuochi del 1982 e del 1978 a segnalare che con un allenatore coraggioso e un cambiamento di mentalità la nostra squadra poteva competere con le migliori.

Credo che non abbia avuto il tempo materiale per fare il suo lavoro e non ha magari (sono solo sensazioni) ricevuto l’appoggio e la solidarietá’ totale dell’ambiente e della Federcalcio.

 

Raymond DOMENECH

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Gli antipatici diventano simpatici quando la loro antipatia diventa sfacciata, ostentata e cioè si fa farsa. Era diventato una macchietta l’impareggiabile Raymond. “Gli italiani?” E giù contumelie, frecciate, battutacce. Compravamo gli arbitri, aggiustavamo le partite, siamo dei gaglioffi, eccetera. Lo stesso Platini ha dovuto squalificarlo dall’alto della sua poltrona di segretario dell’UEFA per delle accuse non provate.

Strano tipo questo Domenech: chiare origini catalane, calciatore mediocre, ma promettente allenatore delle giovanili dei “bleus”, occhiali con montatura anni Cinquanta, giacche grigie con i bordi neri taglio sempre anni Cinquanta, capelli più bianchi che grigi arruffati e scompigliati. La Francia con lui non ha mai vinto nulla. Ai mondiali del 2006 perse in finale ai rigori con l’Italia e agli europei fece una figuraccia, eliminata nel girone senza aver mai vinto una gara. Eppure la Francia crede in Domenech: una fiducia che ha più della fede cieca che di una scelta razionale. Ha lasciato a casa gente come Trezeguet (20 gol in bianconero nell’anno degli Europei) e Mexes, pilastro difensivo della Roma, preferendo loro dei bestioni sfiatati e spompati come Anelka (eterna promessa mai mantenuta), Boumsong (fallito al Newcastle e alla Juve) e nonno Thuram che a 36 anni non può reggere 90 minuti al centro della difesa.

Simpatico Domenech: come si fa non volergli bene? Prende sberle a destra e a sinistra ma continua ad andare per la sua strada. Alla fine degli Europei, quando ci si aspettava che rassegnasse le dimissioni in sala stampa, ha sbalordito tutti dichiarando la sua intenzione di sposare la sua compagna. Formidabile Domenech. Sai che gli importa ai giornalisti della tua relazione con la tua compagna. Dopo avere rivelato questa sua intenzione si è alzato e se ne è andato, felice della sua vera vittoria. Ma il mondo non ama queste rivelazioni da un perdente. Il mondo vuole dei fatti e cioè delle vittorie e il buon Raymond è solo un buon perdente, un “loser”, un personaggio che sarebbe piaciuto tanto a un regista come “le gros Robert” Aldrich.

“Ho perso, sì, e allora? Ma ho vinto quello che per me è una vera vittoria: ho intenzione di sposare la mia compagna. Grazie. Non intendo rispondere alle vostre domande. Grazie e arrivederci”. I giornalisti, basiti. “Ma questo è scemo o ci fa?”, chiedevano i transalpini. Ma ormai Raymond era già fuori della sala stampa. Diavolo d’un Domenech, sei veramente impagabile.

 

Vicente DEL BOSQUE

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A me è sempre piaciuto quest’uomo dall’aria paciosa, dall’espressione serena ma mai piatta. La telecamera, ha in certe occasioni, rilevato le sue occhiate fulminanti, i suoi gesti misurati e sapienti, la sua compostezza da “hidalgo”. Vicente è del 1950, è salmantino (Salamanca) che qualcosa vuole pur dire per chi è spagnolo: Castilla, scorza dura, “nobleza de alma”. La sua vita da sportivo è quasi tutta “merengue” Ex centrocampista (discreto), poi allenatore. Vince due scudetti, poi, (dopo l’eliminazione ad opera della Juve, in Champions) nel 2003 viene licenziato da Florentino Pérez. Su due piedi, brutalmente. Il presidente manco si disturba a comunicarglielo di persona: delega un suo dipendente che lo farà nel corridoio che porta agli spogliatoi. Del Bosque ne è toccato e molto amareggiato. Ma non fa proclami, non alza la voce, non lancia accuse, Si ritira in buon ordine, come un vecchio gentiluomo che sa di avere un tesoro che altri non hanno e cioè la dignità e una forte porzione di stoicismo.

Vedi quest’uomo e ti sembra di vedere tuo padre, un po’ invecchiato ma sempre presente, lo sguardo disteso ma fermo di coloro che hanno saputo affrontare la vita con fermezza, dignità e nobiltà. Per questo ripeto che Salamanca vuol dire pure qualcosa. La storia poi si occupa personalmente di fare chiarezza sui valori autentici e su quelli fasulli. Il buon Fiorentino è rimasto famoso più per le vagonate di miliardi buttati al vento che per aver creato una vera grande squadra. Troppo facile comprare i migliori fenomeni sul mercato quando non esistono limiti di spesa. Difficile è formare un gruppo saldo e compatto capace di soffrire in undici e gioire in undici. Florentino non lo ha capito, non ha capito nulla. Ha svenduto autentici gioielli (Snejider e Robben) per comprare giocatori che erano dei veri fenomeni, ma le cui capacità di fare gruppo erano tutte da scoprire (Kakà, Cristiano Ronaldo, Benzema). Il Real Madrid è stato quest’anno buttato fuori dal Lione (il cui capitale giocatori non arriva al 30% di quello merengue) in Champions League. Vicente lo cacciarono non tanto per l’eliminazione, quanto per la sua inadeguatezza al nuovo stile “galattico”. Non portare la cravatta, non avere una presenza fisica all’altezza era considerato un peccato imperdonabile. Cose che fanno rabbrividire.

“Cosas que pasan” avrà senz’altro pensato Vicente. Chiamato al Besiktas (squadra turca) non era riuscito ad ottenere grandi risultati (solo quarto) e si era dimesso. Alla fine, dopo l’esperienza felice di Luis Aragonés nella selección (titolo di campione d’Europa), qualcuno si ricordò di quest’uomo orgoglioso, dignitoso e nobile e lo chiamò alla guida della “Roja”. In seno alla squadra c’erano due opposte fazioni: quella dei madridisti e quella dei barcellonisti. Un po’ come da noi succede fra romanisti e squadre del Nord. La crescente e ribollente voglia di indipendenza della Catalogna, resa chiara e legalmente codificata nel famoso Estatut (del 2006), in cui fra l’altro si vuole la lingua catalana come preferente (e il castigliano insegnato nelle scuole come “altra lingua” , il concetto di nazione catalana,ecc.) oltre al Plan Ibarretxe sull’autonomia dei Paesi Baschi, primo passo verso l’indipendenza politica, potevano scatenare pericolose contrapposizioni fra i giocatori , Vicente, allo scopo di evitare tutto questo, decise di convocare tutti i suoi giocatori a una cena (chiamata “la cena de la tortilla”) in cui vennero gettate le base per un patto di unità e compattezza alieno da ogni rivendicazione politica, sportiva, etnica o sociale. Quel patto fu la piattaforma di lancio di una delle più grandi nazionali di calcio di ogni tempo.

¡Enhorabuena, Vicente, caballero castellano!

 

 

Luka MODRIC

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Se mai una pantegana ha assunto le sembianze di un homo sapiens, questo è Modric. Anzitutto chiariamo: Pantegana (probabilmente dal latino Ponticana, ratto di origine pontica, antica regione della Turchia), ma pare che la pantegana che noi intendiamo e cioe’ il ratto delle fogne venga dalla Norvegia. A Milano, sponda Inter, la Gialappa’s Band aveva soprannominato con questo sgradevole epiteto il centravanti teutonico Jurgen Klinsmann, poiche’, almeno all’inizio, lo riteneva una mezza schiappa. Poi l’attaccante si dimostro’ piu’ forte delle critiche, ma ormai il marchio era rimasto.

Klinsmann non aveva in realta’ nulla del ratto: era alto, biondo, anche se non molto elegante nei movimenti e nelle giocate, come invece lo era il suo connazionale, pure nerazzurro, Karl Heinz Rummenigge.

Luka Modric, invece, talentuoso centrocampista croato, ora in forza ai “merengues” del Real Madrid (dopo alcuni anni in Premier League), ha un vero volto da pantegana. Occhi piccoli e vispi, dentini giallastri prominenti, naso aguzzo, lineamenti slavi: insomma un vero ratto. Per la verita’ il pallore della sua carnagione e quei dentini ricordano sinistramente il conte Vlad, conosciuto ai piu’ come Dracula.

Insomma, un connubio infernale tra il topastro da chiavica e il succhiatore nobile.

L’altro giorno alla tv, vidi Cristiano Ronaldo, che aveva appena segnato una rete delle sue, correre verso la meta’ campo. All’improvviso, notai sopraggiungere alle sue spalle, il buon Luka con il volto sorridente. Un sorriso che mi fece accapponare la pelle. Una chiostra di denti giallastri in bella (si fa per dire) mostra. Signore mio! Ronaldo non si era accorto, felice com’era e impossibilitato ad udire i passi felpati della pantegana, dato il gran vociare dello stadio, che l’essere gli era ormai addosso. Oddio, pensai, adesso lo morde! Con la scusa di festeggiare, sai com’e’, approfitta per affondare le zanne nel collo sudato, ma giovane e forte, del portoghese.

La natura ha voluto prendersi gioco di questo mostriciattolo croato, togliendogli bellezza ma regalandogli doti non comuni di tecnica, visione del gioco, tiro e precisione nei passaggi.

Cosi’ come, spesso, essa agisce al contrario: elargisce talvolta i doni a profusione dell’estetica, negando quelli solidi dei valori etici oppure quelli minimi del sapere stare al mondo.

Mi piacerebbe essergli amico, anche se preferirei contatti epistolari o ultratecnologici come Skype. Lo spirito e’ forte, si sa, ma la carne e’ debole e, si sa, “Naturam repellas furca, tamen usque recurret!” come splendidamente scrive Seneca.

 

Arjen ROBBEN

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Sono un suo ammiratore, lo confesso. Talentuoso, elegante, rapido, tecnico. Forse un po’ troppo fragile. Quando giocava nel Real Madrid, si infortunava spesso. Forse è questa la ragione per cui lo vendettero al Bayern Monaco. Mai vendita fu più sbagliata. Vendere Robben e Snejider insieme è una scelta a mio avviso folle. O al Madrid qualche luminare della medicina confidò che la fragilità muscolare di Robben ne sconsigliava la permanenza in squadra oppure al comando c’è un branco di somari.

Fisico poderoso, ma asciutto, alto, cranio pelato e movenze da pantera, sta facendo la fortuna del Bayern (ma non solo lui, è chiaro). Il suo è un volto scavato, spigoloso, duro come un bravo “Boer” abituato a coltivare la terra, allevare vacche e maiali e contare le monetine alla fine di una dura giornata di lavoro. Ma le sue movenze sul campo smentiscono i suoi tratti. Quando inizia le sue discese sul lato destro del campo, diventa devastante. Scarta, evita, controlla l’avversario e i suoi tentacoli per fermarlo, lui si divincola e fila via che è un piacere. Converge quasi sempre al centro per piazzare il suo sinistro o per appoggiare il pallone ad un compagno smarcato.

Ogni tanto, quando frana a terra, tradisce le sue radici ancestrali: quello che sembrava un ballerino elegante e leggero si trasforma in un maldestro contadino olandese alle prese con un maiale imbufalito sfuggito non si sa come dal recinto. Cercando di fermarlo, ne è stato investito, finendo ingloriosamente su una stercata suina.

 

Carlos TEVEZ

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Non sono mai stato in Argentina e men che meno in una borgata della periferia di Buenos Aires. Ho letto però le dichiarazioni di alcuni di coloro che ci sono vissuti. Non è mia intenzione cominciare ora a sproloquiare sui soliti problemi sociali delle periferie delle grandi città in certi Paesi. Devo però, dato il personaggio in questione, fare riferimento, per forza di cose e nel modo più conciso possibile, al contesto sociale in cui Carlitos è nato e vissuto. Egli stesso, in alcune interviste, parla degli anni in cui crebbe nella borgata Ejército de los Andes, denominata Fuerte Apache (forse a causa del film di Daniel Petrie (Fort Apache the Bronx, il titolo originale). Vita misera, delinquenza diffusa, risse, coltelli. Carlitos era uno dei tanti che se le davano di santa ragione, pronti ad attaccar lite, pieni di rabbia verso una società che li aveva presi a calci. E allora “pégale, pégale!”, “ménalo, ménalo!”. Questo è un amico degli sbirri! “Pégale, pégale!”, Quello è un infame? “Pégale, pégale!”, quell’altro ha fatto uno sgarro alla nostra banda? “Pégale,pégale!”. E giù botte e carezze con il coltello. Pochissimi l’hanno sfangata, nel senso di uscirne bene e farsi largo nella vita. Carlos deve avere qualcosa di diverso dentro. Gli spagnoli chiamano “Agallas” quel coraggio, quella determinazione ferrei che sono decisivi nella vita di un individuo per non cadere nelle imboscate della vita, specialmente se cresci nel Forte Apache. Tuttavia, la cicatrice che gli scende dall’orecchio al collo, non è il ricordo affettuoso di una rissa, ma la grave ustione causata dal rovesciamento di una pentola d’acqua bollente in cucina. Quella ferita che ha sempre rifiutato di sanare con interventi chirurgici, perché, dice, o lo si accetta per come è o niente. Prendetemi così come sono, col mio passato, con la mia infanzia tormentata, “pégale, pégale!”.

Il suo carattere duro, poco incline al compromesso, alla diplomazia non gli sono sempre stati d’aiuto nella vita. Roberto Mancini non ne poteva più di lui al Manchester City. E lui non ne poteva più dell’Inghilterra, dove non gli veniva perdonato niente. La stampa britannica è maestra nell’arte del “peeping”, nel frugare nella vita personale dei personaggi influenti, nello sbattere in prima pagina il “mostro” di turno. L’ha fatto sempre, con il caso Profumo, con la principessa Diana, con Carlo d’Inghilterra, con Boy George, con Sven Goran Eriksson, con Balotelli, con tutti, insomma. Qualche caso, come quello del presunto rifiuto di sostituire un compagno, durante una partita, oppure quello della macchina confiscata perché la polizia lo aveva multato per aver colorato i finestrini della sua macchina in modo illegale e lui aveva rifiutato di pagare.Basta con il City, basta con l’Inghilterra. Agli argentini, poi, non è che l’Inghilterra desti magnifiche sensazioni, dopo l’avventura delle Falkland/Malvine.

In Italia, le scappatelle extra-coniugali, le evasioni fiscali, le multe fanno ridere, mentre in Inghilterra fanno incazzare. Abbiamo una percezione del crimine che si avvicina di più alla mentalità argentina (del resto popolata a metà da emigranti italiani)che non a quella d’Albione.

Quando la Juventus decise di acquistarlo sapeva di correre un rischio. Le informazioni ricevute, però, non collimavano con la fama che Carlitos “pégale, pégale” si era guadagnata oltre Manica. La scelta si è dimostrata più che azzeccata e Carlitos ha dimostrato di essere una vera forza, se non l’anima della squadra bianconera.

Fabrizio CACCIATORE

Ci sono volti che, nella mente, rimandano ad altri che hanno una certa rassomiglianza e, cosa curiosa, spesso si attribuiscono ai volti che rassomigliano all’originale determinati  difetti o qualità propri di questi.

Fabrizio Cacciatore, calciatore del Cagliari, è torinese, ha 31 anni, gioca in difesa, non è sicuramente un fenomeno, ma un buon giocatore.

A me quello che interessa non è il calciatore, ma l’uomo. Premetto che non lo conosco e non so quasi nulla di noi. Scrivo queste righe per una ragione: mi ricorda qualcuno. Quel qualcuno era un uomo molto simile a Fabrizio. Credo che si divertisse, tra l’altro, ad andare talvolta a caccia. Da lì il passo è breve: Fabrizio, oltre che calciatore è anche un cacciatore, come suggerisce il suo cognome. Ovviamente , sono note queste che nulla hanno a che vedere con la realtà e ciò che scrivo è solo frutto della mia strampalata fantasia.

Ora, quell’uomo che mi ricorda tanto Fabrizio, è, o forse meglio era, un signore che ogni tanto saliva sull’autobus che mi portava da casa mia a Piazza Trastevere, ovviamente a Roma. L’autobus era spesso affollato e costui non era particolarmente contento di trovarsi in mezzo alla calca. Una mattina, spintonato a destra e a sinistra, perse la calma e si lasciò andare ad una sfilza di bestemmioni che fece zittire tutti i passeggeri.  L’accento era del nord, credo piemontese. Era alto, non più giovanissimo, con due baffetti corti e non eccessivamente spessi.

Era un po’ il ritratto del nostro Fabrizio, insomma. Ora, quando lo vedo giocare, me lo immagino austero, generoso, ma un po’ facile a perdere le staffe e a sciorinare una serie di bestemmie con l’accento torinese. Lo immagino subire falli da un avversario e lui, paziente, sopportare una e più volte, poi, all’ennesima scorrettezza, avvicinarsi all’avversario con gli occhi spiritati e urlargli un paio di insulti, conditi da un paio di bestemmioni da far rivoltare nella tomba qualche santo piemontese.

Quel signore dell’autobus aveva una voce stentorea e quindi immagino che quelle bestemmie abbiano richiamato l’attenzione dell’arbitro, svelto a mostrargli il cartellino giallo.

Me lo vedo anche durante una battuta di caccia in qualche bosco del Piemonte. Lo vedo camminare tra gli alberi, con circospezione, attento a non fare nessun rumore, quando, all’improvviso, una grossa lepre, sorpresa e spaventata, gli passa di corsa tra le gambe e, colpendolo sulla gamba d’appoggio, gli fa perdere l’equilibrio e scappa tra i cespugli. Il povero cacciatore, preso alla sprovvista, perde l’equilibrio e cade spalle all’indietro e, mentre tocca il suolo fa partire inavvertitamente un colpo di fucile che squassa il grande silenzio boschivo e fa fuggire tutta la selvaggina nei paraggi. Il nostro uomo, quasi inebetito e ancora incapace di rendersi conto di ciò che è successo, si rialza e, dopo aver capito di essersi lasciato sfuggire una grossa lepre, borbotta qualche imprecazione e poi, come al solito, infilza una serie di bestemmie urlate con voce rauca di rabbia.

Mi hanno sempre, quasi istintivamente, generato un po’ di soggezione gli uomini grandi e grossi, con il cipiglio e con i baffetti. Ho sempre temuto di irritarli e di beccarmi un sacco di legnate.  Per un paio d’anni ho prestato servizio semi-volontario presso una comunità di recupero per le tossicodipendenze. Ho conosciuto molti giovani afflitti dal problema della droga e ho cercato, pur con le mie modestissime capacità, di aiutarli a uscire dal tunnel e pensare la vita in modo positivo. Con certi ragazzi è stato più facile, perché c’era disponibilità e una certa indole pacifica. Con alcuni, invece, non sono riuscito a combinare qualcosa, visto che in loro c’era chiusura e ostilità. Con uno di loro, in particolare, è stato particolarmente difficile, vista la sua aggressività e la sua irascibilità. Aveva più o meno le stesse caratteristiche fisiche di Fabrizio: scattava per un nonnulla e minacciava sfracelli. Ad un certo punto, ho temuto veramente per la mia incolumità. Rifiutare, con le dovute motivazioni, una sua richiesta era una prova psicologica non indifferente.  Ricordo un giorno che gli spiegai che non potevo concedergli una determinata cosa. Perse il lume della ragione, afferrò una sedia e l’alzò per colpirmi. Per fortuna, fu solo un accenno. Poi la rimise al suo posto e se ne andò bofonchiando qualche parola che non riuscii ad afferrare.

Magari, anzi, ne sono sicuro, Fabrizio Cacciatore è l’uomo più buono, corretto e leale del mondo, ma qui ciò che importa è quello che trasmette la sua immagine. e cioè un energumeno che ti salta addosso, ti stende e ti vomita addosso, con un alito appesantito da un fiascone di barbera del Piemonte, i peggiori insulti, solo perché gli hai fatto un torto.

In campo, ad esempio, non vorrei essere nell’avversario che gli rifila una gomitata nel fianco o un calcione negli stinchi. Lo vedo rialzarsi, correre come un ossesso verso l’avversario col pugno alzato e urlargli, a salivate mefitiche, tutto il suo furore. Vedo l’arbitro che corre a perdifiato verso di lui col cartellino giallo bene in vista e lui, Fabrizio, con gli occhi fuori dalle orbite, farglisi incontro con tutta la prepotente fisicità di cui madre natura lo ha dotato. Vedo l’arbitro farsi piccino e abbassare timidamente il braccio che regge il cartellino giallo. Odo i bestemmioni che proferisce e una sorta di urlo barbarico atavico, di quelli che si scambiavano a centinaia di metri di distanza gli antichi abitatori delle selve. L’arbitro non sa che pesci pigliare: confermare il cartellino giallo e rischiare la pellaccia o nascondere il cartellino, fare finta di non udire e fischiare  semplicemente il fallo a suo favore (come, in effetti, è stato).  L’arbitro di calcio, di solito, è un don Abbondio giovane e amante del quieto vivere. Non ha il coraggio di opporsi a una folla inferocita che minaccia di linciarlo, figuriamoci se rischia un cazzottone in faccia da parte di un giocatore esagitato fuori di testa. In fondo, siamo un po’ tutti dei don Abbondio, chi più e chi meno, pronti a schierarci con i forti, i potenti, i furbastri e distogliere lo sguardo davanti alle soperchierie e ai soprusi. Di solito, chi più urla e sciorina tutta una trafila di banalità da bar Sport che fanno presa sugli sprovveduti, ottiene il favore delle folle. Fabrizio non arriva a quel punto: sbollita la rabbia, diventa un cucciolone e si commuove di fronte a una vecchietta che gli chiede un’elemosina. Le mette nel palmo della mano qualche moneta e se la prende con chi l’ha ridotta così, magari aggiungendo un paio di bestemmioni made in Turìn. Poi si allontana fischiettando come quel cacciatore che sta sull’uscio a rimirar tra le rossastre nubi stormi di uccelli neri nel vespero migrar.

Chissà se anche quel cacciatore si accendeva facilmente e aveva un paio di baffetti…

PAUL “GAZZA” GASCOIGNE

In questa galleria di personaggi, non poteva certo mancare un vero personaggio e cioè Paul Gascoigne. Non c’è molta fisiognomica in questo tributo, in quanto Paul non ha nulla di particolare a livello fisico. Ha una statura normale (1.65 m), un po’ grassottello, una bocca che quando ride si sganghera un po’, ma nulla più.

Ma Gascoigne è un vero personaggio. A differenza di Wayne Rooney, anch’egli proveniente dalla classe operaia, “Gazza” è assolutamente imprevedibile, incostante, fragile, matto come un cavallo ma anche spassoso, come quella volta, in Scozia, durante una partita, quando scorse sul prato un cartellino giallo, lo raccolse e lo mostrò all’arbitro, suscitando risate in campo e sugli spalti, ma non quella dell’arbitro, poco brillante al punto da ammonirlo. (Circola, per la verità, un’altra storiella, non so quanto sia fasulla, secondo cui, dopo essere stato espulso da un arbitro, estrasse un cartellino rosso, che normalmente teneva nei calzoncini, e per manifestare tutto il suo disaccordo, lo  estrasse a sua volta, mostrandoglielo come se l’arbitro fosse lui).

Nasce a Gateshead, in una famiglia povera: il padre fa il manovale e la madre lavora in fabbrica. Se la passano male, tanto che vivono all’ultimo piano di un condominio, in una sola stanza, dove il bagno é in comune con gli inquilini del piano.

Ha un certo talento nel calcio; qualcuno lo nota e gli fa un provino, ma lo scartano perché grasso. Paul ha però ben altri problemi: ha qualche disturbo mentale.