Domeniche di paese

Sustinente 7.2.2011 ore 16 017
Un piccolo paesino, quasi insignificante, ma un piccolo mondo, sempre meno popolato e sempre più dormitorio. La campagna sembra coprire quasi le case. Non si vede anima viva. Privacy o prefigurazione di un futuro cupo?

Le ricordo bene le domeniche, da ragazzo, al mio paese. Un paesino della Bassa mantovana, stretto fra il Po e le valli veronesi ormai redente dal secolare asservimento alle inondazioni, bonificate e rese fertilissime.

Il giorno di festa era regolato, allora, dai riti religiosi: tre messe mattutine, l’istruzione cattolica (la “dottrina”) e un vespro pomeridiano. Ero chierichetto e la mia famiglia era molto religiosa, soprattutto mia madre, la quale aveva ricevuto un’educazione religiosa pre-conciliare e quindi tendente al moralismo, all’osservanza esteriore dei precetti, al timore fisico dell’inferno e del peccato. L’innata bontà dei miei genitori aveva temperato questo clima quasi oppressivo e repressivo e la mia infanzia è stata segnata da una sensazione di serenità e spensieratezza che ha contribuito a formarmi un carattere mite.

Andare a messa non lo sentivo come un obbligo noioso e senza senso. Lo consideravo necessario anche se non mi sono mai appassionato alla frequentazione religiosa. Da ragazzo, si accettano le regole e non si discutono. A quel tempo la chiesa era frequentata in modo assiduo e la grande maggioranza, cattolica, non vedeva di buon occhio chi disertava la messa. Si trattava perlopiù di famiglie di socialisti e comunisti, di gaudenti, di superficiali o, semplicemente, di persone legate al concreto, al quotidiano e per nulla interessate alle questioni religiose.

Il paese, di solito tranquillo fino alla noia, mostrava segni di fermento in occasione delle campagne elettorali o durante la sagra di San Rocco, il patrono, a metà agosto.

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Il monumento ai caduti. Riportato allo stato originale.

La domenica, allora, i negozi di alimentari e i barbieri erano aperti, oltre ovviamente ai caffè e alle osterie. Sotto i portici, venivano esposti per la vendita prodotti locali come il formaggio grana e carrube, sementi e mangimi. Si intavolavano affari tra agricoltori che si concludevano spesso con l’aiuto dei mediatori.

In primavera e d’estate, c’era animazione in piazza. Fuori dai bar, la gente si attardava a conversare. Di solito, la prima colazione veniva consumata a casa. Il caffè veniva preso a metà mattina, tra una chiacchiera e l’altra. Diversi uomini aspettavano la domenica per un taglio di capelli. Un gradevole odore di lozioni e profumi usciva dai saloni e ricordo che aspiravo a pieni polmoni quell’olezzo e mi sarei attardato volentieri nei paraggi. Mi incuriosiva udire i discorsi della gente, tutti rigorosamente in dialetto. Gli argomenti erano quelli di sempre: gli affari, lo sport, i pettegolezzi, le donne.

A casa mia, si lavorava anche di domenica mattina. Avevamo un negozio di alimentari e lo gestivamo in due famiglie, quella di mio zio e quella di mio padre. Mio nonno lo ricordo soprattutto quando era costretto a star seduto, essendogli stata amputata una gamba, e si divertiva con un bastone a spaventare i bimbi che accompagnavano le madri che venivano a fare la spesa.

Mi svegliavano, almeno quando ero ancora piccolo, verso le otto e alle nove andavo alla “messa del fanciullo”. Finita la messa, tornavo a casa oppure mi recavo in oratorio per giocare a ping pong o al biliardino.

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Via XX Settembre nell’attualità. Colpisce la desolazione e l’assenza della gente. Un segnale di quel che sarà Sustinente in futuro?

Alla mezza, e cioè a mezzogiorno e mezzo, pranzavamo: il pranzo di solito consisteva, d’inverno e in autunno, in una minestrina di carne, lesso di manzo e gallina, mostarda o patate lesse e, come dolce, spesso la “sbrisolona”, che mio padre insisteva a chiamare “sfrigulà”.

D’inverno, alle due, andavo a seguire l’istruzione religiosa: per ogni classe delle elementari, c’era una saletta e un giovane parrocchiano si affannava a parlarci di Vangelo, di Gesù, di vita cristiana, con scarso successo. La nostra mente era altrove. Dopo mezz’ora ci recavamo in chiesa per cantare un paio di salmi e ricevere la benedizione. Finita la funzione religiosa, ogni due settimane, correvamo verso il campo sportivo per vedere la partita di calcio. Alla fine, tornavamo verso casa, ma spesso ci fermavamo da Renato “Rutamòla”, un venditore ambulante che trainava, prendendolo per due lunghe stanghe, un grosso carretto, delle noccioline americane, dei lupini oppure castagnaccio o caldarroste. Tornavo a casa contento e, se non era già buio, uscivo a giocare con alcuni miei coetanei lungo il vicolo che costeggiava casa mia.

La domenica mattina era sempre il momento migliore; il pomeriggio era un lento approssimarsi col pensiero al giorno dopo. Forse non era “tristezza e noia” come dice il poeta, ma un graduale spostamento dei propri pensieri verso il lunedì, carico, come sempre, di impegni e lavoro. La mattina della domenica era ancora un momento di leggerezza, di “détente”, di rilassamento. C’era voglia di scherzare, di dire battute, di prendere in giro amichevolmente. Ho qualche flash che ogni tanto mi torna in mente e vedo il barbiere, uno dei tanti, uscire in camice bianco dal negozio e intonare le prime note di “Mogliettina”, una canzone allora in voga di Natalino Otto. Si chiamava Rino, ma in paese lo chiamavamo Meschino. Un uomo eccentrico, imprevedibile, a volte infantile per certi suoi giochi verbali assurdi, veri e propri non-sense. Oppure, ricordo davanti al salone di un altro barbiere, Adriano, quasi di fronte a quello di Rino, sul marciapiede, in giacca e cravatta, alcuni giovani che facevano crocchio e facevano passare il tempo fra commenti e pettegolezzi. Sempre sul marciapiede davanti al bar ENAL, che un tempo si chiamava “Dopolavoro”(eredità fascista), era quasi di rigore parlare di sport. Ricordo un cartello esposto davanti alla sala Tv: “In questo locale le trasmissioni sportive hanno la precedenza”. In quella sala vidi alcune partite del Mondiale di calcio in Svezia (1958) e alcune gare dell’Olimpiade di Roma (tra cui la vittoria di Berruti).

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Il Municipio. La seconda finestra a destra, al piano terra, un tempo era la porta del negozio di barbiere di Adriano Grisanti, luogo di interminabili discussioni sportive, politiche e pettegolezzi locali.

Il pomeriggio, ricordo mio zio, seduto accanto alla radio ad ascoltare la radiocronaca delle partite di calcio e, più tardi, del programma Tutto il calcio minuto per minuto.

A volte, ma non spesso, mi chiamava per accompagnarlo in macchina a Ferrara (assieme ad altri sportivi) a vedere giocare contro la SPAL una “grande” di turno, come l’Inter, la Juve o il Milan.

Ricordo ancora una puntata a Ferrara, in macchina con quattro conoscenti di mio zio. Era una domenica di fine inverno; non faceva più freddo, ma il sole non era ancora re incontrastato. I paesi che attraversavamo erano ancora semivuoti: ci si attardava a tavola o a schiacciare un pisolino. Ricordo solo qualche passante lungo le strade, umide e non ancora accarezzate dal sole vero, quello di maggio. Ricordo vagamente un giocatore dell’Inter, il grande Luis Suarez, che era venuto a prendersi il pallone proprio sotto i miei occhi, al di là della rete divisoria. Ricordo la sua fronte ampia, stillante sudore e la sua fretta nel portare il pallone all’angolo del campo per battere il “corner”.

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Luis Suiarez, calciatore spagnolo “gallego” di La Coruna. Regista impareggiabile della Grande Inter degli anni’60, allenata da Helenio Herrera e sotto la presidenza di Angelo Moratti.

Come in ogni paese, c’erano delle macchiette, dei tipi originali che erano parte integrante del folklore locale e tutti li si accettava con la naturale bonomia della nostra gente, pronta a criticare ma anche a dare una mano. Non era raro che, certe domeniche, venisse a pranzo qualche povero cristo, bersagliato dalla sfortuna. Ricordo uno di loro, un certo Renato, che non voleva chiedere apertamente di essere invitato a pranzo: sarebbe stato come perdere un po’ della sua dignità o almeno di quel poco che ancora gli era rimasto e alla quale non avrebbe rinunciato per nulla al mondo. Si era messo d’accordo con mia zia dicendole che quando intendeva venire a pranzo da noi, si sarebbe messo all’interno del bar Enal dietro la vetrata che dava sul marciapiede, in modo che mia zia, tornando dalla messa, lo vedesse e aggiungesse quindi un posto a tavola. A quei tempi era normale. Magari, invece di invitarlo a tavola, si portava un piatto sul davanzale, col cibo ancora caldo, in modo che il povero di turno si sfamasse senza arrecare troppo disturbo alla famiglia.

Il primo grande scossone alle abitudini, al modo di stare assieme, lo diede la televisione. All’inizio, parlo degli anni fra il 1954 e il 1959, pochissimi avevano il televisore, così come pochissimi avevano il telefono. In occasioni di programmi di largo ascolto, non era raro vedere certe famigli spostarsi, con i seggiolini, presso la casa di chi possedeva l’apparecchio. Era il caso di “Lascia o raddoppia”, per esempio, ma non solo. Noi il televisore lo comprammo nei primi anni Sessanta, quando ormai in molte case era diventato un oggetto come un altro. Lo scossone di cui parlo avvenne proprio a metà decennio, quando appunto, molti lo possedevano. Il cinema ed i caffè cominciarono a perdere clienti. Nei paesi, l’abitudine di recarsi al caffè, dopo cena, era troppo inveterata per svanire. In città era diverso: i quartieri dormitorio, le fungaie umane create dal boom economico e il crescente disagio sociale causato dall’aumento del costo della vita, dalla disoccupazione e dalla crescente criminalità, scoraggiavano ad uscire. I bar chiudevano sempre più presto e le vie e le piazze si spopolavano. Ormai iniziava un’era nuova, quelle delle tante monadi, chiuse in casa, con la luce della tv sempre accesa.

Nei paesi no, questo non avveniva. La sera, quando non si era d’inverno, ci si attardava nei caffè o nelle terrazze all’aperto dei bar. La qualità della vita era migliorata e ancora non si recepivano i primi segnali dello sconvolgimento sociale che stava per arrivare.

La domenica, la gente si vestiva con giacca e cravatta, come sempre. Un’abitudine, questa, in parte ancora vigente.

Un’altra abitudine che ormai non esiste più è quella delle “vasche”. Consisteva nel percorrere su e giù diverse volte la via principale in gruppi di due o più persone. Di solito, i gruppi erano composti o da soli maschi o da sole femmine. Erano i tempi in cui era un’eccezione andare in macchina a prendere un caffè e fare una passeggiata in città.

La prosperità ha cambiato tutto.

Le “vasche” erano una buona occasione per salutare la ragazza che piaceva, con un sorriso o un’occhiata prolungata di quel minimo per far capire che non si trattava di semplice normalità.

Durante la bella stagione, ci si sedeva all’aperto ai tavolini del bar gelateria IL BARACHIN e questo avveniva dopo i Vespri, la funzione pomeridiana che terminava verso le 17.30, l’ora giusta per evitare il caldo pomeridiano e “tirare” l’ora di cena.

Era anche l’ora, più o meno, del ritorno di coloro che erano andati ad assistere alla partita di calcio della squadra locale. Tornando, molti si sedevano ai tavoli e commentavano le fasi della partita tra di loro e con altri avventori.

Quando ricordo questo, mi tornano alla mente le immagini di uno dei migliori film di Florestano Vancini e cioè LA LUNGA NOTTE DEL ’43. La scena si svolge a Ferrara un pomeriggio di tarda primavera. Siamo all’inizio degli anni ‘50. Sotto i portici della strada che costeggia il Castello Estense, alcuni avventori sono seduti ai tavolini di un bar. Alcuni di loro conversano; altri si sono appisolati, altri ancora guardano un po’ annoiati il viavai, per la verità ancora molto ridotto, dei passanti, in specie di sesso femminile. La radio trasmette la radiocronaca di una partita di calcio. Credo che si tratti di Italia-Inghilterra giocata a Londra il 6 maggio del 1959 e finita in pareggio:due a due. Alcuni giovani in piedi guardano la partita alla tv. Il televisore è all’interno di un negozio di elettrodomestici chiuso, ma come avveniva in quegli anni, la tv, ancora un oggetto di lusso, veniva lasciata accesa dal titolare dei negozi anche fuori orario, per dare modo ai passanti di assistere a qualche programma di successo ed invogliare all’acquisto.

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Piazza Roma vista dai giardini. A sinistra, il Barachìn, in fondo, la Chiesa e la Canonica e, a lato, l’Oratorio. Al centro, la nostra fontana, brutta se si vuole, ma ormai divenuta insostituibile.

Quelle immagini sono per me straordinariamente vere e riflettono alla perfezione un quadro sociale dell’epoca. Per rendere il quadro veramente completo, il regista inserisce nel film un tocco geniale: alla fine del secondo tempo, esce dal bar un signore un po’ attempato, in maniche di camicia, che comincia a prendersela con i giocatori italiani che stanno prendendo una sonora batosta dai figli della perfida Albione. “Sfaticati buoni a nulla, gliela farei vedere io a quelli…” e così via. Quante volte ho udito queste frasi e quante volte le ho sentite pronunciare da certi signori non più giovani. Come ad esempio, quella domenica in cui, passando davanti ai gradini che scendevano verso l’ingresso della Casa del Popolo, proprio in centro paese, udii più o meno le stesse parole. Era appena terminata una partita della Nazionale. Non doveva essere andata molto bene per i nostri colori. Tra la gente che usciva, udii un signore che conoscevo bene dire: “Ah, va là Lorenzi…” senza terminare la frase, ma lasciando intendere che il cannoniere nerazzurro, noto a tutti col nomignolo di “Veleno”, lo aveva proprio deluso. E pensare che lo stesso, all’arrivo dei bombardieri americani sul nostro paese tra il 1944 e il ’45, aveva manifestato tutta la sua contrarietà esclamando “Eccoli lì…i liberatori!”, che lasciava capire quanto fosse legato al regime che ci aveva portato alla guerra,alla perdita della libertà e all’odio. Questo signore era proprio parente stretto (in senso ideologico) del personaggio (di nome Aretusi, magnificamente interpretato da Gino Cervi) del film in questione. E pensare che anni prima si era reso colpevole di un atto nefando (la cosa non è provata al 100%, ma tant’è), facendo assassinare il federale fascista di Ferrara (nel film si chiamava Bolognesi, ma nella realtà era Ghisellini), per lui troppo accomodante, e fare poi ricadere la colpa sui partigiani. Delitto che poi porterà alla vendetta fascista e alla strage del ’43.

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Gino Cervi, nei panni di un ex-caporione fascista, uscendo dal bar, se la prende con gli sfaticati italiani che stanno perdendo una partita di calcio con gli inglesi. Quasi le stesse parole usate anni prima con gli italiani scansafatiche, al tramonto del regime mussoliniano.

Storie terribili ma vere, comuni ad ogni paese delle nostre lande padane, popolate da gente generosa, ma sanguigna, legata alla propria terra, di natura conservatrice, ma capace di rivolte terribili, vere e proprie “jacqueries”, dove nasce e prospera il socialismo agrario, contro la prepotenza dei “padroni”, ma dove anche si diffonde il fenomeno opposto e cioè quello fascista, vera e propria reazione dei proprietari terrieri al dilagante movimento di riscossa contadina.

Sust feb 2012 (22)
Quante volte i miei compaesani hanno percorso questa stradina che porta dal paese al Po? Lungo questo sentiero, quanti sogni, quante illusioni, quanti progetti cullati, realizzati o infranti?

Ancora oggi, mentre percorro gli argini, le rive dei fossi, le “cavdagni” (dal latino Capitanie), penso a quelle domeniche povere di povera gente, di gente semplice e solidale, a quei crocchi di giovani che si ritrovavano fuori dalla chiesa appena finita la Messa e discutevano animatamente di futuro, di cambiamenti, di progetti. C’ero anch’io fra loro. La nostalgia per quei tempi e quelle domeniche testimonia la sostanziale positività di ciò che si è fatto e, fatalmente, la consapevolezza che un sereno periodo della nostra vita è ormai, irrimediabilmente, un ricordo.