Armando e lo “Scandalo al sole”

Armando Vanzini aveva qualche anno più di me. Statura media, corporatura regolare, né grasso né magro. Lo conoscevo senza averci mai parlato. Lo vedevo tutti i pomeriggi davanti a casa mia. Lavorava con suo cognato, Lino, che aveva sposato la sorella Fernanda. Faceva il fabbro e questo significa avere a che fare con saldatrici, flessibili, martelli, tenaglie e altro. Ma in un piccolo centro agricolo, una buona parte del lavoro consisteva, in quei tempi e cioè gli anni ’50 e ’60, nel ferrare cavalli da lavoro.

Lino dirigeva i lavori ed Armando eseguiva: erano però diversi nel modo di concepire il lavoro. Lino era un fabbro che amava la propria attività, ma non aveva la pazienza e la meticolosità necessarie per eseguire lavori di fino. Armando, invece, non concepiva certe manchevolezze. Per lui un lavoro doveva essere eseguito a regola d’arte. I contrasti tra lui e Lino nascevano proprio da questa diversa concezione. Una saldatura doveva essere perfetta e non si doveva notare quasi. Certe sbavature, certi difettucci di poco conto erano per lui intollerabili.

A volte, Lino perdeva la pazienza, stanco di dover riprendere continuamente Armando per quella sua mania della perfezione e lo mandava bruscamente a casa. Armando se ne andava, deluso e irritato. Immancabilmente, il giorno dopo, Fernanda, su pressione del marito, si recava dal fratello e lo pregava di tornare al lavoro aggiungendo che Lino era dispiaciuto. E Armando tornava, salvo, poi, dopo qualche tempo, litigare di nuovo.

D’estate, nei meriggi torridi, senza un filo di vento, dopo pranzo, ero solito coricarmi e tentare di schiacciare un pisolino. Tentare…ma troppo spesso quei tentativi non erano coronati da successo. In effetti, nell’officina di Lino, verso l’una e mezza, cominciava il tormento. Martellate, sibili, grattate, tonfi. Un fracasso che impediva di prendere sonno. Se chiudevo la finestra, il caldo diventava opprimente. Inoltre, la finestra della mia stanza era quella più vicina all’officina. Mi innervosivo, mi giravo e rigiravo nel letto, mi coprivo la testa con un cuscino… niente da fare. C’erano brevi intervalli di quiete che mi illudevano e che, come ogni illusione, la dura realtà riprendeva il sopravvento: ed era una serie di botte da orbi menate su lastre di lamiera, un sibilo improvviso, inquietante, tanto acuto quanto sgradevole provocato forse da un taglierino o da un flessibile.

I miei genitori erano più fortunati. Dormivano nella stanza più lontana dall’officina e i rumori giungevano loro più attenuati. Verso le 16 si alzavano. Mio padre scendeva in negozio (di alimentari) e mia madre si dedicava alle solite faccende di casa. Scendevo pure io ed uscivo. Al campetto dell’oratorio era ancora prestino, i ragazzi ci andavano verso le 17, quando i morsi del sole non erano più così micidiali. Avevo un’ora da riempire. Alla casa del Popolo, alla tv, trasmettevano telefilm per ragazzi, come PENNA DI FALCO Capo Cheyenne oppure RIN TIN TIN, con un ragazzino Rusty e il suo cane, adottati in un forte in territorio indiano, alle prese con mille avventure. Ma quando questi programmi non andavano in onda, mi recavo spesso da Adriano, il mio barbiere. Ricordo un giorno di giugno del 1959, era esattamente il 26 ed era la seconda tappa del Tour de France , Metz-Namur. La vinse il nostro Vito Favero, che un anno prima era arrivato sorprendentemente secondo in classifica generale a Parigi, davanti al suo capitano Gastone Nencini.

Il radiocronista commentava con entusiasmo l’impresa di Favero, che però, qualche giorno dopo, all’undicesima tappa, si sarebbe ritirato.

Nella bottega di Adriano, mi sedevo al tavolo e sfogliavo il giornale sportivo, se non era TUTTOSPORT era LA GAZZETTA DELLO SPORT, qualche rivista e ascoltavo distrattamente i discorsi che si tenevano fra Adriano e i suoi clienti. Mi piaceva soprattutto il leggero rumore che produceva il rasoio sulla pelle coperta da una patina di crema da barba. Ogni passata, la barba scompariva e la pelle tornava pulita, soda, fresca. Alla fine, dalla mensola accanto allo specchio, Adriano prendeva una sorta di peretta di gomma: premendo sulla parte bassa, dal beccuccio usciva uno spray che inondava l’ambiente di un gradevolissimo profumo. Quando, una volta al mese, toccava a me, uscivo sentendomi inondato da quel profumo e mi sembrava di essere un gran signore, riverito e rispettato da tutti.

Tornando ad Armando, a volte mi sedevo sui gradini di casa e osservavo Armando e Lino intenti a lavorare. Quell’anno, il 1959, io ero dodicenne, era di moda una musica di Max Steiner (il grande Steiner autore di tante colonne sonore di film americani) e suonata dall’orchestra di Percy Faith. Si chiamava Scandalo al sole (il titolo originale era A Summer Place) ed era la colonna sonora del film omonimo, diretto da Delmer Daves, con Richard Egan, Dorothy McGuire, Sandra Dee e Troy Donahue.

La colonna sonora ebbe un successo strepitoso e, ancora oggi, rimane nella memoria infinitamente più del film stesso. Dato che era trasmessa continuamente alla radio (alla TV non c’erano ancora programmi musicali come quelli attuali), era entrata nella mente di tutti e, ovviamente, anche in quella di Armando. Ecco, se dovessi associare quel ragazzo a un oggetto, a un’immagine o a una musica, per me il binomio Armando-Scandalo al sole resta assoluto, intoccabile.

Passava ore ed ore a fischiare quel motivo; era qualcosa di quasi ossessivo, compulsivo. La fischiava mentre cercava di sistemare un giunto di un trattore o raddrizzare una biella. Non lo faceva quando ferrava un cavallo, perché a Lino non piaceva che si distraesse, lo voleva tutto concentrato. E non a torto, visto che il cavallo a volte faceva movimenti bruschi che facevano cadere la zampa che si stava ferrando; allora Lino sbottava e, afferrata una grossa tenaglia, menava due o tre botte sui lombi dell’animale che si acquietava quasi subito. Quando giungeva il momento di appoggiare il ferro rovente sullo zoccolo, il contatto sprigionava un forte odore di bruciato che non provocava alcun dolore al cavallo. E’ un odore che mi ha accompagnato per tanti anni e mi fa ritornare a quel tempo. Accanto a Lino, vedo Armando, sempre tranquillo, attento e, soprattutto, mentre fischia quella benedetta canzone.

Quelle note lente, melodiche e malinconiche mi riportano ai lunghi ed interminabili pomeriggi estivi, alla ricerca dell’ombra, all’attesa di dare quattro calci ad un pallone nel campetto dell’Oratorio con gli amici, alle radioline a transistor con musiche oggi improponibili ma non per me, che ho sempre avuto un debole per la musica da “crooner”, con personaggi oggi dimenticati come il maestro Gigi Cichellero, Cinico Angelini,  cantanti come Natalino Otto e Flo Sandon’s,  Gino Latilla, Luciano Tajoli e tanti altri. Per cercare l’ombra, il negozio di Adriano era quello che ci voleva e poi c’era quel profumo…

Non ho mai parlato con Armando; essendo un po’ più grande di me, c’era una piccola barriera fra noi fatta di rispetto e imbarazzo. Faceva parte di una compagnia di giovani, tra cui mio cugino Mimmo, che era molto affiatata e che aveva nel curato di allora, don Ermes, una sorta di chioccia cordiale e alla mano. Spesso si riunivano in canonica e si divertivano come ci si divertiva una volta nei piccoli paesi: una risottata, una partita al biliardino o a ping-pong. La canonica era ormai un ambiente troppo stretto per contenere l’esuberanza di quei giovani. Il parroco stava ultimando la costruzione dell’Oratorio, un edificio che aveva, in principio, il compito di riunire i giovani per le attività ludiche e di formazione spirituale. Io e i miei amici ne avremmo fatto una specie di rifugio dorato. Armando, nella sua semplicità, aveva legato con tutti. Era il classico compagno tranquillo che non creava problemi, che amava ascoltare più che raccontare, a cui piaceva ridere, bere e mangiare con moderazione, senza grilli per la testa, il classico buon ragazzo di campagna che aspettava il momento per vivere la sua vita.

Quel momento, alla fine, arrivò e il sodalizio con Lino si ruppe: Armando aveva conosciuto una ragazza di un paese vicino, Novellara, nel Modenese e l’aveva sposata. Aveva trovato quasi subito lavoro presso una grossa fabbrica locale. Lei era professoressa e aveva trovato in Armando ciò che andava cercando: semplicità, affetto e laboriosità. La loro era serena come le tante unioni tra giovani di paese. Quella che per tanti sapientoni poteva essere noia, per loro e per tanti altri era una routine accettata di buon grado, vissuta con la consapevolezza che la vita semplice, laboriosa ed onesta è da preferire all’avventura, alla piccola trasgressione. Il destino, però, aveva in serbo qualcosa di diverso.

Ad aiutare Lino ora c’era un ragazzo del luogo, Giorgio, che gli sarebbe stato accanto per molti anni e che, anche quando trovò un altro lavoro, non avrebbe mai smesso di essergli amico e di andare spesso a trovarlo, aiutandolo fino agli ultimi suoi giorni di vita.

Anni dopo, quando avevo ormai lasciato il mio paesino per recarmi nella capitale, mia madre, o mio fratello, mi comunicarono che Armando non c’era più. Se l’era portato via un infarto. Era un cuore ancora giovane che aveva ancora tanto da dare, da gioire e soffrire come tutti, ma che il destino non aveva premiato per avere scelto di vivere una vita tranquilla. Come accettare queste disgrazie? Queste assurde violazioni ad un codice che riteniamo tutti valido fin che tutto ci sorride e che poi scopriamo essere capriccioso e troppo spesso malvagio.

Ora, al posto dell’officina, la figlia di Lino ha fatto costruire una casa e ora ci abita assieme al marito. Là dove sostavano attrezzi agricoli, cavalli e asini in attesa della ferratura, c’è un’aiuola con fiori e piccoli arbusti. Quando ci passo accanto, mi sembra di sentire, disperse nel vento, le note fischiettate di quella canzone, ma quasi subito, il rombo di un’auto che transita sulla strada principale se le porta via, rubandomi anche delle sensazioni che ogni tanto si presentano e mi aiutano ad ingentilirmi l’animo.