MESCHINU E IL NONSENSE

                                    

Il negozio di barbiere di Meschinu  dava sulla strada principale, anche se dal lato opposto a quello di Adriano Grisanti, di cui ho abbondantemente parlato, pur se non in faccia l’uno con l’altro.

Di nome faceva Rino Stellini ed era un vero personaggio curioso. L’umanità è fatta di tanti piccoli esseri, uno diverso dall’altro per etnìa, lingua, usi, costumi, carattere. Pur con tutte queste diversità, gli esseri umani hanno in comune la razionalità e la usano per orientare le loro azioni, definire i loro programmi, comprendere ciò che li circonda, ciò che vedono e sentono. Anche i sentimenti, in certa parte, sono informati alla ragione. Fortunatamente, le ragioni del cervello non coincidono spesso con quelle del cuore e questo rende spesso imprevedibile il nostro mondo. Per fortuna.

Ma a rendere ancora più vario il genere umano, intervengono delle anomalie che arricchiscono il già ricchissimo repertorio di differenze fra individuo ed individuo. Sono le cosiddette eccentricità, le stranezze che infrangono lo strato di razionalità entro cui ci muoviamo. Alcune di queste anomalie sono propedeutiche alle sensibilità artistiche, le quali, se incoraggiate anche in piccola misura, contribuiscono a rendere straordinario questo mondo e degno di essere vissuto.

Alcune di queste stranezze, quando non esistono quegli elementi che chiamerei detonatori, restano solo tali e il mondo è privato, per un’infinità di motivi, di possibili artisti, scienziati e campioni dello sport.

Anche in piccoli centri rurali, come quello dove sono nato, esistono dei potenziali personaggi non comuni. Ad esempio, mio zio, aveva una capacità quasi demoniaca di leggere al contrario parole di varie lettere, di fare di conto moltiplicando e dividendo numeri di tre cifre ad una velocità sbalorditiva. In tutto il resto, era una persona comune, con gusti, inclinazioni, comportamenti plebei, del tutto simili a quelli che frequentava.

La singolarità di Meschinu (a proposito, non sono mai riuscito a scoprire l’origine di quel buffo nomignolo; del resto, molti di questi nomignoli si tramandano di padre in figlio e, spesso, occorre andare indietro di tre o quattro generazioni) era il non sense e cioè quella forma particolare di linguaggio senza logica, con associazioni libere e imprevedibili, con situazioni surreali. Nel teatro dell’assurdo, esistono forme di linguaggio che si avvicinano alla parlata del mio ex-concittadino, come ad esempio Samuel Beckett in EN ATTENDANT GODOT oppure il “gramelot” di Dario Fo. Ma in Fo, il gramelot era un geniale miscuglio di dialetti che avevano un senso, anche se spesso in situazioni assurde e impossibili, inverosimili come “La fame del Zanni”

La lingua è un formidabile strumento per farsi un’idea dei nostri simili. Da un discorso, anche abbastanza breve, è possibile capire molto: l’origine sociale, la capacità razionale, la provenienza geografica, il grado di istruzione, lo spessore culturale e altro. In Meschinu, ad un occhio (e orecchio) attenti, capivi subito che si trattava di una persona con una particolare predilezione per un linguaggio “creativo”. I poeti, i letterati e gli scrittori, con ben altre basii, è chiaro, riescono ad ottenere delle associazioni verbali e concettuali, delle soluzioni inimmaginabili e straordinarie per sonorità, capacità evocativa, per purezza del verso, per ritmo, che sono inimmaginabili per i comuni mortali.

Meschinu, invece, era attratto dalle parole un po’ ricercate e le usava in contesti che nulla avevano a che fare con quelle parole. Come ad esempio, quella volta che mi trovavo a passare di fronte al Bar Centrale, sotto i portici. Mentre ero all’altezza della porta, vedo uscire Meschinu, col suo camice candido, da barbiere, farmisi incontro e guardandomi, mormorare, in perfetto italiano:” Sono stanco ed affranto!”.

Un’altra volta, ero più o meno, nello stesso punto e mi trovo il buon Meschinu che mi squadra e come se stesse riassumendo, in poche parole, un fatto sportivo, mi dice, in dialetto:”Ier j’a szügà al nèdar müt e la gata bleu; al nèdar l’a vint un a szeru, a sgnà al bõ at testa (ieri hanno giocato l’anatra selvatica e la gatta blu. L’anitra ha vinto uno a zero: ha segnati il bue di testa).

Altre volte, mi si avvicinava e mi diceva, convinto :” Sfacià!”(Sfacciato). Non c’era certo acrimonia nei miei riguardi, ma il desiderio insopprimibile di sfogare la sua continua voglia di esprimere la sua simpatia nei miei confronti, sapendo bene che non me la prendevo, anzi!

Era anche intonato. Una volta, attraversando la strada per rientrare in negozio, lo sentii cantare le prime strofe di una canzone di Achille Togliani, un noto cantante melodico degli anni ’50:” L’incanto di una rosa deliziosa, profumata, sei per me, mogliettina”. La cantava con una voce educata, ben modulata e non sguaiata. Ancora oggi lo ricordo con certa tenerezza.

Rino non era né bello né brutto, né alto né basso, almeno secondo i parametri degli anni’40. Aveva i capelli castani e ricci pettinati all’indietro, come usava tanti anni fa. Il suo naso era pronunciato, ma il viso, nel suo complesso, era regolare. Non era analfabeta, ma si esprimeva quasi esclusivamente in dialetto. Non era sguaiato né volgare, aveva un modo di fare quasi delicato. Io non ero, come ho già detto, suo cliente, ma immaginavo quelle mani sottili usare con certa maestria il pettine, le forbici e il rasoio, rigorosamente di quelli a serramanico. Non aveva il garzone a dargli una mano: la gente preferiva gli altri barbieri. Lui poteva contare solo su alcuni clienti abituali, pochi, per la verità. Quindi doveva fare tutto da solo e tempo gliene avanzava. Quando era inoperoso, spesso attraversava la strada e si recava al bar da Ezio, dove non consumava ma si limitava a scambiare qualche chiacchiera con gli avventori presenti, oppure sfogliava distrattamente il giornale, prevalentemente sportivo. Aveva praticato, in gioventù, il calcio. Giocava nella squadra locale e, da quel che mi ricordavano alcuni suoi coetanei o quasi, era un personaggio pittoresco. Una domenica, se l’era presa, non so bene perché, con il portiere avversario (secondo me, lo aveva apostrofato poco elegantemente) e gli aveva giurato che un golletto glielo avrebbe fatto. Giocava in attacco: era veloce e mingherlino. Durante un’azione di gioco, gli era capitata un’occasione ghiotta e ne aveva approfittato. Era riuscito a segnare. Memore di quanto promesso, aveva raccolto il pallone in fondo alla rete, poi, avviandosi verso il centro del campo, si era rivolto, beffardo, al portiere, dicendogli in dialetto:” Hai visto? Te l’avevo detto che ti avrei segnato. Sei contento adesso?”.

In paese, tutti sapevano che Rino era un po’ “matto”, nel senso che era un pochino eccentrico, ma non ho mai sentito nessuno lamentarsi di lui o accusarlo di qualcosa. Se ne parlava, con il sorriso fra le labbra, come avviene quando si parla di qualcuno che, in fondo, ci è caro e a cui si perdona volentieri qualche stravaganza.

Del resto cos’è che rende interessante una persona? Quando si perde nell’anonimato? Quando si adatta talmente bene all’ambiente e alla massa da perdersi, svanire, confondersi con essa? Da quando la normalità è un merito? E soprattutto, che cosa sarebbe questo povero mondo se fossimo tutti uguali, se tutti ci comportassimo allo stesso modo? I tipi originali come Rino rendono più piacevole, imprevedibile, allegra la nostra esistenza.

Mio padre era suo cliente. Non so se lo facesse per stima o per aiutarlo, pur se con qualche spicciolo solamente, a sbarcare il lunario, ma ho sempre apprezzato quella scelta. In piccoli paesi come il nostro, ci si aiuta, di solito, e si cerca, silenziosamente, senza tanta pubblicità, di venire incontro concretamente a chi si trova in difficoltà. Io non sono mai andato a frugare nelle tasche di Meschinu, che certamente non navigava nell’oro, però viveva con grande dignità le sue ristrettezze economiche.

Non riesco a togliermi dalla mente quest’ometto sorridente, sempre pronto alla battuta, gentile. Più lo ricordo e più mi sembra di vedere una generazione di giovani come Rino, piena di speranze stroncate, precipitata in una guerra assurda, costretta a vivere in condizioni incomparabilmente peggiori di quella, come la mia, che le sarebbe succeduta.

Allora quel suo sorriso, quella sua levità, quella sua piccola follia mi sembrano testimoni inoppugnabili di un piccolo grande uomo, capace di vivere orgogliosamente la propria povertà, incapace di odiare e sempre pronto alla battuta, contento di vedere spuntare negli altri un piccolo sorriso, come piccolo risarcimento, come un modo gentile di mostrare la sua presenza, di fare presente che sì, c’era anche lui, modestamente, dignitosamente come, del resto, aveva vissuto tutta la sua vita.