Paolo, apostolo di Cristo

 

Ci sono essenzialmente due modi di fare un film su San Paolo. Il primo è quello di trovare un attore adatto, mettergli in bocca qualche frase, inframmezzandole con alcune sue parole presenti negli ATTI DEGLI APOSTOLI, inventarsi scene di sana pianta, all’interno di un’ambientazione abbastanza fedele storicamente, metterci un po’ di pathos e un po’ di ritmo e il gioco è fatto.

Oppure c’è un altro modo ed è quello di mostrare al pubblico, sprovveduto, la figura rivoluzionaria e gigantesca di questo titano della cristianità. Questo significa mostrare la sua formazione, la sua iniziale furia persecutrice verso i cristiani, la conversione sulla via di Damasco, la frequentazione della prima comunità cristiana di Gerusalemme, il Concilio di Gerusalemme, le prime diatribe sulla necessità di inserire la nuova religione all’interno di quella ebraica, sotto la legge mosaica (tesi cara alla comunità di Gerusalemme), oppure distaccarla da quella senza però condannarla e renderla indipendente, aperta ai pagani, aperta al mondo (Katholikòs), fondare la nuova religione dandole una dottrina nuova, rivoluzionaria, aprire comunità cristiane in tutto il mondo conosciuto e tantissime altre cose. E finire poi assieme a San Pietro in un carcere orrendo per morire poi decapitato, lasciando un’eredità più che mai attuale.

Tutto poi si complica quando viene introdotto il personaggio di Luca evangelista, autore del racconto contenuto negli ATTI, di cultura greca, non ebreo (era nato ad Antiochia), che non ha mai conosciuto Cristo (come del resto, anche san Paolo), medico e conoscitore della Bibbia, oltre che dell’ebraico e del latino.

Il regista, Andrew Hyatt, poi, è un giovane americano (è nato nel 1982), autore di 4 lungometraggi di cui due di tema religioso (questo e FULL OF GRACE). Il cinema americano, si sa, è molto attento alla voce “incassi” e se non ci sono all’inizio forti capitali per una produzione “Kolossal”, ci si deve chiedere come fare per interessare un pubblico sempre poco disposto ad andare in sala a vedere un film di tema religioso. Per farlo, bisogna assolutamente evitare di presentare situazioni o problemi che non siano in linea con l’ortodossia (pensiamo alle comunità cristiane del MidWest) come invece fece, a suo tempo Scorsese con L’ULTIMA TENTAZIONE DI CRISTO sollevando un’ondata di proteste. Oppure, magari diventare più realisti del re, e mostrare in modo crudissimo la Passione di Cristo (come ha fatto Mel Gibson), giocando tutto sulla spettacolarità spesso ripugnante, invece che sulla Parola e sulla riflessione. A volte si crede che, mescolando abilmente le carte, si possa raggiungere il successo insperato.

Nel film di Hyatt, invece, non c’è una spettacolarità particolare, c’è povertà di mezzi, rinuncia ai grossi nomi. Inoltre, Hyatt si arrischia a parlare di san Paolo attraverso la persona di Luca evangelista. Un rischio notevole, perché si sposta l’attenzione su Luca, mettendo in secondo piano san Paolo. Il film si apre con l’arrivo di Luca a Roma e finisce con la decapitazione di Paolo, dopo che Luca è partito per andare a predicare in Oriente. In effetti, questa potrebbe essere una mossa intelligente del regista il quale, per evitare di trattare il tema di san Paolo in modo diretto, lo fa attraverso gli occhi di Luca. In questo modo, evita le sabbie mobili della più che probabile semplificazione o banalizzazione, del sicuro svilimento della figura del santo.

 

 

Ma anche così le insidie sono enormi. C’è ad esempio la mancanza della figura di san Pietro. Eppure in quel carcere c’era anche lui ed erano insieme fino al giorno (comune ad entrambi) del supplizio. Perché questa omissione? Togliendo Pietro, si compie una scelta molto discutibile e, a mio avviso, sbagliata. E’ come spezzare a metà la Chiesa, fondata sulle figure di quei due giganti, diversi ma anche molto simili e soprattutto perché non ci può essere Chiesa prescindendo da uno dei suoi due fondatori.

Le visite di Luca a san Paolo in carcere sono frutto di fantasia, anche se c’è qualcosa che potrebbe avvalorare la tesi della presenza a Roma di Luca, nella lettera che Paolo scrive a Timoteo, in cui si lamenta di essere stato abbandonato da tutti e che solo Luca è con lui. Questi, stando a quanto scrivono molti studiosi, redasse il suo libro avvalendosi delle testimonianze raccolte nel corso dei suoi spostamenti e soggiorni in varie comunità cristiane che si erano andate costituendo già appena dopo la resurrezione di Cristo. Però Hyatt preferisce mostrare Paolo in persona che racconta le sue esperienze e le sue riflessioni messe per iscritto da Luca, destando i sospetti del comandante romano del carcere. Questa scelta ha lo scopo di dare risalto alla figura di Paolo, che altrimenti sarebbe rimasto nell’ombra. In questo modo, il pubblico capisce che Paolo è il Maestro e Luca una figura di diversa caratura. Ma anche così, non si percepisce la grandezza di Paolo e il valore della sua rivoluzione fondativa del Cristianesimo. Si intuisce invece la sua saggezza, la sua profondità. Ma questo non è sufficiente per delineare la sua figura. Non si può ignorare questo, magari dando per scontato tutto il resto (e per resto intendiamo la parte più importante). Non si può parlare di Paolo, dando per scontato il significato della sua grandezza, mortificandolo nella rappresentazione di un vecchio saggio che affronta con dignità il carcere e il supplizio.

Questo è un atteggiamento valido quando si parla di personaggi pubblici moderni cui i media hanno riservato ampi spazi per interviste, articoli, intromissioni nella sfera privata diventati ormai di pubblico dominio. Si può quindi parlare di un episodio della vita di Nixon, Edgar Hoover, dello stesso Lincoln senza incorrere nella banalizzazione (magari però questa avviene per la pochezza dell’analisi del regista). Di questi personaggi si sa molto e quindi, vedendo il film, si parte già con un bagaglio di conoscenze che aiutano a capire meglio il personaggio analizzato in un singolo momento della sua vita.

Ma di Paolo cosa si sa? E soprattutto, cosa ne sa la gente comune? Vederlo, anche se con gli occhi di Luca (di cui sappiamo ancora meno) per qualche momento della sua vita, ci aiuta a farcene una vaghissima idea e non certo a capire la portata della sua missione.

Non si riesce quindi a comprendere perché Hyatt abbia dato questo titolo che risulta fuorviante, fornendo così un pessimo servizio alla conoscenza di san Paolo. La fede, parafrasando le parole di suor Maria ne LA GRANDE BELLEZZA, (2013) di Sorrentino, non si racconta, si vive.

NON SI RACCONTA, SI VIVE!

Per saperne di più, a chi non ha tempo né voglia di leggersi le Lettere, consiglio di andare su RAI STORIA e vedere la puntata di PASSATO E PRESENTE, diretta da Paolo Mieli, su San Paolo e la Chiesa, con l’intervento magistrale del professor Alberto Melloni.

 

 

HOSTILES Politicamente corretto Vs. Realtà

Politicamente corretto, ossia lo strato ideologico che si deposita sul nostro modo di pensare e lo insidia, lo permea con la (supposta) forza dell’idea di civiltà che dovrebbe (dico dovrebbe) essere il nostro faro.

Civiltà? Quale? E che cos’è la civiltà? Viene spontaneo ricordare Paul Valéry:

Nous sentons qu’une civilisation a la meme fragilité qu’une vie (La crise de l’Esprit, première lettre)

Il grande poeta francese lo scriveva nel 1919, oscuramente (forse) consapevole di quanto sarebbe successo vent’anni dopo. Quale civiltà? “Libertà, quanti delitti si commettono in tuo nome” sospirava Madame Roland attimi prima di essere ghigliottinata; basterebbe sostituire la parola ‘libertà’ con ‘civiltà’ per darci modo di sospirare anche noi? La nostra civiltà si fonda sul diritto, sulla legge; tutto giusto, basterebbe citare Cicerone nella sua orazione Pro Cluentio quando scrive.” Legum servi sumus, ut liberi esse possimus”: bello, bellissimo. Peccato che lo stesso oratore latino nella Pro Milone scrivesse:” Silent leges inter arma”. E allora? Allora dobbiamo accettare, sempre con Valéry, che le nostre civiltà siano mortali e che questo strato, questo ‘overlay’ fatto di tolleranza, di apertura verso l’altro e il diverso, di capacità di ascoltare e capire, sia flebile, fragile, a volte perfino evanescente si vada a situare nella categoria del “dobbiamo” più che in quella del “siamo”. Il politicamente corretto è ideologia che spesso si scontra con la dura realtà quotidiana, con ciò di cui siamo fatti e cioè sangue, nervi, ossa e muscoli.

Basta pensare a ciò che sta succedendo nel nostro Paese, qui ed ora, nella nostra patria del diritto, in certe periferie come Torre Maura, dove sentiamo ragazze urlare:” Io li brucio, li odio!” e sappiamo bene a chi si riferisce. O a Minerbe, paesino del Veronese, dove il sindaco ordina di dare a una piccola allieva straniera un pasto diverso solo perché i suoi non pagano la retta. E’ questa la “civilisation”? E la sinistra? Quanti errori si sono commessi in tuo nome!” parafrasando ancora Madame Roland. Pensare molto agli “ultimi” e dimenticare “i penultimi” come ricorda Federico Rampini nel suo recentissimo LA NOTTE DELLA SINISTRA: DA DOVE RIPARTIRE. Questi penultimi, dimenticati pure loro, ma a differenza di altri, pure mazziati, che non votano più “il partito” ma la destra estrema, disperati alla ricerca di qualcuno che li ascolti, che renda loro giustizia, una volta per sempre.

“Les banlieues” sono lì a ricordarci che la storia non perdona, che lo strato del politicamente corretto, quando non si deposita su un humus fatto di giustizia sociale e di educazione civica, non germoglia, diventa sempre più fragile sino a seccarsi, inaridirsi, per lasciare spazio alla barbarie, mostro atavico, mai domo, mai estinto e sempre pronto a ringhiare ed offendere.

Il politicamente corretto spesso lascia tracce anche nell’espressione artistica e pure nella ricerca storica. Quanto ha lottato e subito, ad esempio, Renzo De Felice per portare avanti la sua ricerca, che a volte contraddiceva la vulgata del politicamente corretto della sinistra?

Nel cinema è successo e succede ancora che il politicamente corretto finisca per inquinare, in luogo di arricchire, un prodotto. E’ una lunga storia, che inizia con CHEYENNE AUTUMN (Il grande sentiero) John Ford (1964), dove il regista volge uno sguardo diverso verso i nativi, rompendo la tradizione del pellerossa feroce e del bianco buono. Questa tradizione, per la verità, era stata infranta da Delmer Daves con BROKEN ARROW (L’amante indiana)(1950). Venne poi il periodo della contestazione giovanile, della guerra in Vietnam. Poco a poco, il “politically correct” che prima identificava i bianchi come portatori della civiltà, ora li vede come biechi usurpatori, avidi assassini razzisti, pieni di odio, portatori dei disvalori che il mondo occidentale corrotto semina come tante metastasi nel tessuto sociale delle popolazioni native, viste come “il buon selvaggio” rousseauiano, tutto ingenuità e innocenza. Ecco quindi prodotti come ULZANA’S RAID (Nessuna pietà per Ulzana) di Robert Aldrich (1972), SOLDIER BLUE (Soldato blu) di Ralph Nelson (1970) ed altri. La guerra in Vietnam, che non poteva essere trattata al cinema per motivi di censura, almeno per diversi anni, trovava un facile riferimento nei “pellerossa identificabili con i coraggiosi ed eroici soldati vietnamiti”.

In HOSTILES (Ostili) di Scott Cooper (2017), il politicamente corretto finisce per inquinare un prodotto che, una volta tanto, sembrava descrivere una storia con gli strumenti dell’indagine seria. Un prodotto promettente, come lo era stato GERONIMO di Walter Hill (1994), vero capolavoro, capace di stare in equilibrio fra le ragioni di ambedue le parti in conflitto (gli Apaches Chiricahua di Geronimo e“Cappotto d’Orso” Nelson Miles).

Lo “scarto” ideologico tra la prima parte del film e la seconda, più che una presa di coscienza, assomiglia a una resa a quella che oggi è la nostra sensibilità, anno 2019. Non è umanamente, psicologicamente, razionalmente possibile che due “mostri” di crudeltà come lo sono stati fino a ieri Falco Giallo (splendido, come al solito, Wes Study) e il capitano John Blocker (un ottimo Christian Bale), capaci di stragi orrende, pieni ancora (all’inizio del film, almeno per John) di odio, finiscano, in pochi giorni per agire e parlare come due vecchi saggi che rinnegano tranquillamente il loro cupissimo passato.

Ma è politicamente corretto che i due grandi nemici si riconcilino ed è hollywoodianamente normale che la signora Quaid (Rosamund Pike), che ha perso, pochi giorni prima, marito e tre figli, per colpa di un attacco Comanche, e il buon Bale inizino una più che probabile storia amorosa.

Scott Cooper, giovane ed interessante attore e regista americano CRAZY HEART (2009), OUT OF THE FURNACE) (Il fuoco della vendetta)( (2013) BLACK MASS- (Black Mass- l’ultimo gangster) (2015), ha capito molto bene da che parte tira l’aria e, tra una concessione al politicamente corretto e un’altra al love affair, si mette il cuore in pace, non prima però di aver dato prova di una certa maestrìa ( o mestiere?).

I punti di riferimento sono abbastanza evidenti, certe inquadrature sono fordiane, assolutamente, così come sembra evidente il richiamo a Bob Aldrich (soprattutto nelle fasi concitate dello scontro con i pellerossa).

Lo iato fra il primo e secondo tempo ci introduce ad un’atmosfera diversa, accompagnata da una musica malinconica e da lunghe pause che ricordano Terrence Malick de THE NEW WORLD (Il nuovo mondo) (2005); la presenza di Q’Orianka Kilcher e dello stesso Bale sembra confermarlo. Il film così, da una solida storia (il richiamo a John Sturges e, forse, a Raoul Walsh non mi sembra tanto assurdo), cambia poco a poco (ma non così tanto) tono e passo e diventa elegia. L’elegia è componimento essenzialmente lirico, che esprime pensieri personali usando un tono malinconico. In effetti, nel film, si respira sempre di più quest’atmosfera, grazie alle musiche suggestive di Max Richter e alle indubbie qualità delle scene. Da nemici acerrimi ed irriducibili, Falco Giallo e John Blocker diventano, in pochi giorni, due vecchi saggi che si lasciano alle spalle odi, pregiudizi e rancori, indossando la toga che si confà a chi ha ormai lasciato la sabbia intrisa di sangue dell’arena per sedersi sui nobili scranni dei patres senatoriali. Il tono elegiaco è lo strumento che permette da un lato ai due “capi” di vedere i loro trascorsi come qualcosa di ormai lontano, quando la loro gioventù era piena di speranze e di promesse, prima che si contaminasse con le radici dell’odio e con l’abisso. Quei tempi, forse, ora che il tramonto della vita si avvicina, forse possono ancora tornare, dando un significato meno negativo a tutta un’esistenza.

E’ evidente, però, che il meccanismo non può funzionare. Il cammino della redenzione segue percorsi lunghi, complicati e sofferti. Tutti lo sappiamo, anche il buon Scott Cooper. La redenzione suppone un cammino interiore di auto-coscienza ed auto-critica crudele, fatto di passi indietro e passi avanti, in modo spesso disordinato, contradditorio. E non sempre succede.

Il peccato originale di HOSTILES sta proprio qui, in questa mancanza di profondità interiore, che lascia solo intravvedere, a volte, nelle smorfie di sofferenza e di pianto di Blocker, l’inizio del cammino.

L’ostilità (origine del titolo) è la misura del nostro mondo. Non ci sono persone, gruppi, tribù, alieni a questo sentimento. Siamo tutti ostili verso qualcuno. Il Western, con l’arrivo del ‘bianco’ diventa il luogo per eccellenza dell’ostilità invece di essere quello della concordia. E’ come se il mondo senza legge fosse in qualche modo più umano e civile di quello portato dalla nostra civiltà. Ostile.

E risulta quindi più un augurio (ingenuo) quello della riconciliazione fra i due mondi che la realtà vera, dura, acida e sgradevole sembra contraddire ogni giorno di più.