Per favore, aspetta!

Non è un film propriamente americano e non si tratta di un film di successo. Il regista è un semi-sconosciuto regista australiano di origine polacca (Ben Lewin), lo sceneggiatore è un giovane sceneggiatore mezzo filippino e mezzo cinese (Michael Golamco), anch’egli semi-sconosciuto.

E’ stato presentato in diversi festival cinematografici, tra cui quello della festa del Cinema a Roma nel 2017, senza vincere alcunché. La critica si è mostrata tiepida e il pubblico abbastanza freddino. Gli attori sono un po’ più conosciuti e cioè Dakota Fanning e, soprattutto, Toni Collette, attrice australiana da qualche anno sempre più richiesta.

Poca roba, direbbe qualcuno, e allora perché parlarne?

A mio avviso, invece, c’è tanta roba e di prima qualità e mi preoccupa che questo film lo si conosca così poco e che si debba ringraziare la programmazione di Sky che ha deciso di mandarlo in onda.

Può darsi che il pubblico non sia tanto propenso a recarsi al cinema per vedere una storia di una ragazza affetta da autismo e sia più attratto da storie più “forti”, oppure commedie nostrane dove il riso è assicurato e i problemi sono momentaneamente accantonati. Può darsi.

Che volete che vi dica? Magari hanno ragione gli altri, come da un po’ di tempo sembra accadermi; ma essendo io sufficientemente ottimista e un inguaribile romantico, innamorato del cinema che emoziona, commuove e diverte in modo intelligente, vorrei invitare lo spettatore a dedicare un’ora e mezza di una giornata alla visione di questo film.

 

Ci sono film che divertono, altri che impressionano, altri ancora che scavano nei meandri più bui della nostra mente, solleticandone paure e ossessioni. Questo film invece induce ad aprire gli occhi su cose che di primo acchito non ci attirano. Parlare di autismo, così come del dolore e della sofferenza, è qualcosa che viene istintivamente evitato. Eppure dolore e sofferenza esistono ed è da vigliacchi evitare di parlarne. Quasi in ogni famiglia c’è un dolore, oppure un lutto da affrontare e tutti noi siamo chiamati, lo vogliamo o no, a confrontarci con essi. La ricompensa è quasi sempre una modifica in meglio di noi stessi, una condivisione inaspettata con chi è meno fortunato e una sensazione di pienezza indicibile.

In questo film non si parla propriamente di sofferenza, ma di una storia legata alla sofferenza. Una storia autentica, rigorosa, appassionante che poco a poco ti prende, ti cattura e ti commuove.

E’ la storia di una ragazza, affetta da autismo (con tutto ciò che questo suppone) che ha una fissazione: quella di scrivere un copione ispirato alla serie televisiva Star Trek e cercare di vincere il premio che questo concorso ha messo in palio.

Wendy, questo è il nome della protagonista, è ospite, assieme ad altri con disabilità di vario genere, di una casa diretta da un’educatrice che l’assiste con competenza e affetto. La ragazza ha una sorella maggiore che non ha materialmente il tempo di assisterla e, forse, nemmeno la forza e la pazienza necessarie.

Wendy vorrebbe tornare a casa ma non è possibile. Riesce a terminare il copione, ma il tempo stringe e, per essere sicura che esso arrivi in tempo, decide di recarsi a Los Angeles dove ha sede la Paramount, sponsor dell’iniziativa. Inizia così un vero e proprio “Road Movie”, in cui Wendy, tra varie vicissitudini, arriva a destinazione e riesce a consegnare il copione.

Non vince il premio ma è riuscita a portare a termine una vera e propria impresa e questo la aiuta a migliorare il suo approccio verso l’esterno (in particolare verso la sorella e il nipotino) che è poi la (sua) vera vittoria.

Un momento particolarmente indovinato e toccante è quello, nel finale, quando la sorella si complimenta con Wendy per aver portato a termine la sua impresa e lei, senza guardarla, le dice:” L’ho fatto per te”, prendendo poi il nipotino tra le braccia e appoggiando la testa sulla spalla della sorella (cosa inaudita per chi è affetto da autismo).

La critica e molto pubblico non nutrono molta simpatia per questo genere di film, dove i sentimenti giocano un ruolo essenziale, forse perché in guerra con una sorte di “buonismo” che, specie negli ultimi tempi e in tutti i settori della vita civile, sembra essere in certo modo complice dei mali che affliggono questa parte di mondo. Ma non è questo il buonismo a cui mi riferisco. Quel buonismo è fratello della connivenza, del “volemose bbene” andreottiano, del sostanziale distacco tra il Potere e la gente, le sue necessità ed esigenze.

Il mio buonismo lo chiamo solidarietà, condivisione, fratellanza con chi soffre ed è emarginato. Molto mi accomuna a Wendy, la mia sensibilità, il mio modo di essere, la conoscenza diretta di quel mondo, così trascurato e che invece ci urla ogni giorno il diritto di non dimenticarlo.

Consiglio, anzi, raccomando la visione.

 

 

 

 

Delon et nous

 

Dopo aver letto il bel post omaggio di Maghella su Alain Delon, ho pensato che forse era questa una buona occasione per qualche riflessione sul personaggio-attore Delon, sul rapporto Delon-Francia e Delon-mondo.

L’attore francese si è indubbiamente imposto sia per le sue qualità estetiche sia per quelle recitative, rompendo il cliché dell’attore bello ma vuoto. Si è portato appresso la fama di bello, splendido amatore ma ha dimostrato nei fatti di essere un grande attore. A me sinceramente non interessa soffermarmi sulle sue qualità estetiche, peraltro ricordate nel post citato; mi interessa soprattutto il Delon attore, che ha poco a poco convinto i critici francesi, in primis, di cui si conosce la passione e la competenza.

 

I senza nome (Le cercle rouge) (Jean Pierre Melville)(1970)

Luchino Visconti , lo sappiamo, è un vero artista quasi rinascimentale per il senso estetico e l’immenso bagaglio culturale. Nessuno come lui ha percorso, con uguale disinvoltura, i sentieri ardui e pericolosi del cinema, del teatro e della lirica. In Delon vedeva personificata (così come con Helmut Berger) la figura della bellezza, della purezza stilistica, dell’ideale estetico al grado più alto. E’ stata probabilmente l’esperienza con Luchino a lanciare Delon, ancora più che con René Clément (IN PIENO SOLE), in modo prepotente nel firmamento del cinema. Dopo diverse interpretazioni in cui si esaltano soprattutto le sue qualità di sex symbol, arriva Jean-Pierre Melville, re del polar e ne fa un eroe con delle sfaccettature impensabili. Per la verità, qualcosa si era intuito in ROCCO E I SUOI FRATELLI, in quel suo personaggio puro e cupo. Ma con Meville, Delon tocca vertici interpretativi straordinari. La sua maschera da duro (sia poliziotto, sia fuorilegge) ha un fascino misterioso irresistibile. L’intreccio narrativo che solo un grande regista come Melville riesce a dirigere (e che non ha nulla da invidiare ai Crime Movies americani) e la figura inflessibile e glamour al tempo stesso, fanno un tutt’uno, un vero e proprio unicum a cui molti epigoni anche nostrani si sono ispirati.

Notte sulla città (Un flic) (Jean-Pierre Melville)(1973)

Stranamente, pur se ci ha lavorato in alcune produzioni non memorabili, con Hollywood non mai scattata la scintilla. Il pubblico non si è mai appassionato e i suoi film girati in terra americana si sono rivelati dei flop. La causa va forse cercata nel suo essere così orgogliosamente “francese”, nel suo non piegarsi a certi condizionamenti, certi compromessi sia con la produzione sia con il regista. Il pubblico americano non perdona determinati comportamenti, ma credo che il motivo principale sia nella scarsa qualità dei film interpretati (NE’ ONORE NE’ GLORIA di Mark Robson e TEXAS OLTRE IL FIUME di Michael Gordon, peraltro due registi discreti).

Frank Costello faccia d’angelo (Le Samourai) (Jean-Pierre Melville)(1968)

Il successo italiano ha diverse cause. La prima è sicuramente dovuta al suo indubbio fascino che non si è mai annacquato, malgrado gli anni. Anzi, invecchiando, ha arricchito la sua figura di un glamour particolare, quella capacità seduttiva che solo certe persone mature possiedono (come nel caso di Sean Connery, Cary Grant e il nostro Mastroianni).

 

Rocco e i suoi fratelli (Luchino Visconti) (1960)

La seconda è, che dietro la facile maschera della bellezza, si indovina un individuo tormentato, inquietante e terribilmente affascinante. E’ questa caratteristica che Valerio Zurlini, nel suo straordinario LA PRIMA NOTTE DI QUIETE, vuole rappresentare. Si tratta di un personaggio quanto mai complesso, a tratti misterioso, a tratti fragile. Zurlini realizza qui un capolavoro scavando dentro il personaggio in modo quasi crudele (scontrandosi, a quanto pare e spesso con il bell’Alain) ma ottenendo un risultato memorabile.

La prima notte di quiete (Valerio Zurlini) (1972)

Forse non è proprio questo tipo di attore di cui il pubblico italiano si è innamorato, ma è senz’altro quello di cui si sono innamorati i critici.

La Francia si è spesso divisa con l’andar del tempo su Delon. Dopo un inizio entusiasmante, molti hanno cominciato a criticarne certi eccessi e certe disinvolture (l’affaire con la Schneider), la storiaccia, mai del tutto chiarita, con il delitto della sua guardia del corpo e che portò alla luce particolari ben poco edificanti di storie di droga e sesso presenti nel suo entourage. Infine, non poche polemiche ha suscitato la sua posizione politica (ha sempre parteggiato per il Gaullismo e la destra, ultimamente con la Le Pen) e la sua interpretazione in un film per la TV di un commissario di polizia di Marsiglia, Montale, di idee progressiste, così contrarie alle sue convinzioni.

La prima notte di quiete (Valerio Zurlini) (1973)

Qui in Italia, non si è mai dato gran peso a queste cose. Delon parrebbe rappresentare quanto c’è di meglio oltr’Alpe, soprattutto in un periodo come questo, in cui la Francia non gode di grande considerazione da noi. C’è da tempo un diffuso senso di fastidio per i nostri cugini, accusati di sentirsi superiori a noi e gonfi fino a scoppiare di una grandeur senza basi obiettive. Ma queste sono considerazioni sterili che allignano soprattutto tra gli sprovveduti. Però, parlando di Delon, il nostro Paese gli ha sempre dimostrato affetto e stima. Il grosso pubblico, soprattutto femminile, non ha mai smesso di amarlo e perdonargli di tutto. La critica e gli spettatori più avveduti, nonostante tutto, continuano a vedere in lui un connubio straordinario di qualità interpretativa e di presenza scenica, una miscela irresistibile di fascino misterioso di artista “maudit” e di amante meraviglioso. Lui poi in Italia è di casa, è sempre un ospite richiestissimo e da noi si trova a meraviglia. In un Paese come il nostro dove il gusto estetico è un “must” che tutti ci riconoscono, Alain non poteva non essere una vera e propria icona.

La prima notte di quiete (Valerio Zurlini)(1973)

Delon è diverso dal tipo di attore francese che siamo abituati a conoscere. Ha il fascino “malin” di Jean Gabin, non ne possiede la profondità ma ha un tocco in più di sex-appeal. Non ha la simpatia di Jean-Paul Belmondo, non ha la carica umana di Daniel Gelin, la signorilità di Paul Meurisse, l’intensità di Jean Marais. Per venire all’attualità, non vedo attori le cui caratteristiche si avvicinino più di tanto a Delon. Lo stesso Daniel Auteuil non mi sembra averne né il carisma né il fascino, pur ritendendolo fra i migliori artisti transalpini. Delon è semplicemente Delon, un attore capace di riempire da solo lo schermo, di fare di un piccolo film un grande film. Se mi si consente una preferenza personale, non posso non citare ancora il professor Dominici (il cui cognome nel film nasconde forse quello di Caccia Dominioni) e le splendide sequenze iniziali e finali. Uno straziante assolo di tromba accompagna questo professore di letteratura, mentre cammina lungo il molo di Rimini, immerso nei suoi pensieri e nei suoi tormenti. La scena finale non potrebbe essere più eloquente: perdere la vita per una pura questione di umana pietà verso una convivente che non ama più e di cui teme un gesto estremo. Un finale tragico che conclude la parabola di una vita difficile e avara di ricompense.

A bientôt, cher Alain!

 

 

Excellent, Gérard!

 

 

Mentre scrivevo il post su Delon, non riuscivo a scrollarmi di dosso la figura imponente (in tutti i sensi) di Depardieu. Scrivere un post su Delon porta, quasi inconsapevolmente, ad affrontare la figura di questo grande attore francese. Come sono solito fare, questo post non vuole assolutamente abbozzare un profilo critico, in certa parte scontato. A me interessa cercare di parlare di Depardieu in modo per quanto possibile slegato dalla galleria critica delle sue interpretazioni. Questo compito lo lascio ad altri.

Novecento (Bernardo Bertolucci) (1976)

Anzitutto, chi è il vero Depardieu? E’ Olmo, il ragazzo di campagna, rozzo, sanguigno di NOVECENTO? O è invece il vicino di casa romantico e appassionato di LA DONNA DELLA PORTA ACCANTO o il poliziotto rude, brutale ma anche sorprendentemente sensibile di POLICE oppure il giovane e fragile René, chiamato ad un compito (direttore di fabbrica) per il quale si sente inadeguato? E’ il poeta Cyrano, poeta prigioniero in un corpo non affascinante, oppure il rivoluzionario Danton amato dal popolo che si diverte a umiliare l’incorruttibile nel film omonimo, oppure ancora lo struggente Conrad, vecchio, malato di A SMALL WORLD di Bruno Chiche?

La signora della porta accanto (La femme d’à côté) François Truffaut (1981)

Gérard non proviene dalla borghesia, ma dal popolo e queste sue origini sono il segreto o uno dei segreti delle sue interpretazioni riguardanti i vari personaggi popolari della sua carriera.

Danton (Andrzej Wajda)(1983)

Quando, ad esempio, interpreta Danton, diretto da Wajda, non mi viene in mente un altro attore in grado di interpretare meglio quel personaggio storico. Quando Danton affronta Robespierre, ne mette a nudo le debolezze, i difetti patologici e l’abnorme distanza fra il rigorismo giustizialista e l’incapacità di capire il popolo, quel popolo che egli dice di difendere a tutti i costi, anche a costo di ghigliottinare mezza Francia. Danton lo smaschera e lo deride, provocandone la fredda vendetta. Come si può non amare alla follia questo attore quando si difende davanti ai giudici cui è stato ordinato di condannarlo a morte e lui invece si erge a vero protagonista mettendo in stato d’accusa lo stesso tribunale rivoluzionario, suscitando il delirio di un’intera folla che decide in pochi istanti da che parte stare. Un’interpretazione memorabile.

Danton (Andrzej Wajda) (1983)

Come si può non abbracciare il buon Renè Ragueneau di MIO ZIO D’AMERICA di Alain Resnais, e provare grande empatia per questo ragazzo dolce, chiamato a dirigere una fabbrica con delle innovazioni tecnologiche che egli non è in grado di gestire, abituato com’è a un tipo di fabbrica dal volto umano e non una macchina infernale che tutto stritola e devasta? Quel giovanotto di campagna, gentile, educato e deriso, umiliato da un capo che lo demolisce poco a poco e gli spiattella tutta sua inadeguatezza, siamo noi, siamo ancora i (pochi ?) umani ancora esistenti. Un film modello in cui la filosofia si allea magistralmente con la settima arte.

A Small World-Ricordi lontani (A Small World) (Bruno Chiche) (2010)

E’ questo il tipo di personaggio che amo di più, quello anche, per capirci, del buon Conrad, disconosciuto da una madre opportunista e costretto a una vita di umiliazioni, solo perché nato quando non doveva, per le ambizioni di una madre degenere, capace di affidarlo ad un’altra persona e dichiarare figlio suo invece la creatura nata dalla relazione fra lei e il ricco Arthur. Quel Conrad, divenuto un peso per tutti, per le sue origini, per le sue stranezze, trova un’inaspettata amica in Simone, la moglie dell’erede, che si prende cura di lui, ormai aggredito dall’Alzheimer, ma ancoracapace di far riemergere lontani ricordi che ristabiliranno la verità.

Mon oncle d’Amérique-Mio zio d’America (Mon oncle d’Amérique) Alain Resnais (1980)

Vedi quest’uomo, prigioniero di un corpaccione inverecondo, relegato ai confini del decoro umano da miserie morali orrende, ancora capace di provare sentimenti, di non provare rancore, condannato dalla malattia al buio della conoscenza, eppure capace di rinnovare giorno per giorno le sue piccole abitudini, le sue emozioni, che trova nel suo ritorno all’essere come un bambino i propri ricordi di bambino che saranno come lance nella coscienza di chi lo ha rinnegato come figlio e come fratellastro.

A Small World-Ricordi lontani (A Small World) (Bruno Chiche) (2010)

Depardieu non gode di una reputazione specchiata in Francia. Anche da noi si conoscono le sue stranezze, come quella di prendere la cittadinanza russa, orgoglioso della sua amicizia con Putin, o quella di trasferire la sua dimora appena al di là del confine col Belgio, per sottrarsi al fisco. Si conosce la sua infanzia turbolenta, si conosce la sua passione per il vino (possiede un podere a Pantelleria), si conoscono le sue donne, la sua esuberanza, ma tutto questo non impedisce che la gente lo ami ancora e si riconosca in lui in alcune delle sue interpretazioni più note e amate come LA SIGNORA DALLA PORTA ACCANTO. Depardieu è un po’ l’uomo medio, non certo come Delon che, appena si presenta, espone quasi arrogantemente la sua avvenenza, il suo glamour a cui il successo arride quasi senza sforzo, mentre Gérard capisci che si è dovuto fare largo a spintoni per farsi avanti. Delon è il francese che assapora in punta di forchetta, mentre Gérard è colui che s’ingolla a tutto spiano baguette spalmate di burro, incurante di diete e consigli medici. E’ un Danton de noantri, appassionato, volgare, rozzo e gaudente, pieno di gioia di vivere, un Olmo Dalcò che sta tra la gente e la difende anche a costo di prendere a badilate i signorini e i signoroni “dali beli braghi bianchi” della villa accanto che si prendono senza fatica i raccolti, lasciando ai braccianti le briciole.

A Small World-Ricordi lontani (A Small World) (Bruno Chiche) (2010)

In Italia, si conosce Gérard, senza ombra di dubbio, ma non lo si conosce forse come lui meriterebbe. Tranne quei tre o quattro titoli (quelli commercialmente più di successo), il grande pubblico non ha visto molto altro. Il pubblico italiano, l’ho già scritto altre volte, non ama il cinema francese. Lo giudica noioso, verboso, poco interessante, altezzoso.

Da un punto di vista puramente cinematografico, sono d’accordo solo in parte. Le commedie francesi, ad esempio, non mi appassionano. C’è un senso dell’umorismo che qui da noi non funziona. Sono commedie che, a differenza di quelle italiane, cercano di evitare la volgarità gratuita e i localismi e si basano soprattutto su intrecci amorosi e su situazioni paradossali. Ma da noi, il pubblico è più smaliziato e le situazioni sono più crude, spesso condite di sarcasmo. Questo rende le nostre commedie meno raffinate ma preferite dal grosso pubblico. Un genere che invece da noi quasi non esiste, se non nelle fiction tv, sono i polizieschi, che invece godono in Francia di molto favore, come ad esempio i famosi “polar”, eredi della grande tradizione francese di Melville, Giovanni e Becker, dove ora eccellono autori come Marchal, fra gli altri. Ma quanti, da noi, conoscono i suoi film? Forse il peso peso della fu Nouvelle Vague è troppo oneroso e ancora non si intravedono autori, quelli veramente notevoli sono ormai vecchiotti (Pialat, Assayas, Philippe Garrel, Duras, Besson e Leconte). Poi magari scopri giovani registi come Lucas Belvaux con SARA’ IL MIO TIPO? o Christophe Barratier con LES CHORISTES e nutri la speranza che qualcosa si muove. Il problema è che Claude Sautet non c’è più e non riesco ad accettarlo.

Sarà il mio tipo? (Pas son genre)  (Lucas Belvaux)(2014)

Non mi avventuro in considerazioni extra-cinematografiche perché il terreno è minato. D’altronde qui abbiamo ben poco di cui vantarci.