Tite, un vecchio conterraneo

 

 

Adenor Bacchi, detto familiarmente Tite, è il commissario tecnico del Brasile cinque volta campione del mondo di calcio.

I suoi bisnonni, Andrea Bacchi e Maria Mazzocchi si trasferirono dall’Italia in Brasile nel 1883. Tite è nato a Caxias do Sul nel 1961.

C’è qualcosa di molto familiare di Tite per me. I suoi bisnonni erano mantovani, di Viadana, pare. Ma il cognome è presente in tantissimi paesi della mia terra, pure nel mio. Conosco almeno sei famiglie in cui questo cognome è presente.

Ma c’è ancora qualcosa. Quando lo vedo, in tv, a volte seduto e altre volte agitato e in piedi, mi sembra di riconoscere in lui certi miei compaesani.

Il suo fisico è massiccio, è robusto ma non è grasso. Ma i suoi capelli, grigi e non folti, pettinati ordinatamente all’indietro mi riportano alla memoria tante persone che ho conosciuto e che abitavano o tuttora abitano dalle mie parti.

Il suo sguardo è sveglio, intenso e profondo. Il suo modo di esultare non è mai esagerato, mentre, nelle circostanze avverse, non noti la rabbia scomposta e sguaiata di un Jorge Sampaoli (ct dell’Argentina), o la gestualità mediterranea di un nordico come il ct della Svezia. In Adenor noti tristezza, quasi malinconia.

Io non lo vedrei, se me lo trovassi davanti e non sapessi che mestiere fa, come agricoltore. La sua pelle non è bruciata dal sole, è bianca come quella di chi non ha lavorato nei campi, ma in ambienti coperti e protetti.

Ha fatto l’allenatore, è vero, ma non si porta addosso i segni inequivocabili di chi ha sudato, faticato al sole e alle intemperie, per guadagnarsi il pane. I suoi bisnonni molto probabilmente, invece, quegli sforzi li hanno compiuti, ma con il passare delle generazioni, il fisico è andato ingentilendosi assieme a una sempre minore fatica e povertà grazie alla capacità e alla sobrietà dei figli e nipoti di quei primi immigrati. Caxias do Sul (nello stato di Rio Grande do Sul, all’estremo sud-est del Brasile) è stata fondata da immigrati veneti nel 1876 e da allora frotte di altri emigranti sono arrivate anno dopo anno, alla ricerca di lavoro e di un luogo più ospitale. Come altre località brasiliane fondate da italiani, poco a poco si sono creati centri di aggregazione e accoglienza verso altri italiani (e non solo) che poco a poco arrivavano dal vecchio continente.

Si sono fatti rispettare gli italiani del Brasile grazie alla serietà, alle capacità, allo spirito di iniziativa e presto, grazie anche a loro, quel Paese è cresciuto e i luoghi dove essi hanno vissuto sono ora fiorenti e importanti per l’economia e il benessere.

Tite, per me, sulla base delle mie esperienze, dei personaggi da me incontrati e della mia fantasia, potrebbe benissimo essere un fornaio. Li ricordo bene i panettieri di un tempo: indossavano abiti chiari e, spesso, un berrettino, rigorosamente candido. Spesso erano uomini di corporatura considerevole, usi alle levatacce, al calore e alle scottature, alla metodicità di un mestiere che ripaga gli sforzi regalando la fragranza celeste del pane appena sfornato.

Li vedo alle prese con grandi ceste ricolme di pane nelle sue più svariate forme. Li sento canticchiare canzoni d’un tempo, melodiche e orecchiabili. Il mestiere del fornaio è antico e nobile. Sfamare la gente quando c’è povertà e miseria: il ricordo va subito alle pagine memorabili dei Promessi Sposi e all’assalto ai forni. Il fornaio si sente investito di questa vera e propria missione che è sfamare la popolazione. Questo, ovviamente, accadeva nel secolo scorso, ma qualcosa di questo sentimento quasi patriottico è rimasto. Al di là del discorso economico, in effetti, il fornaio, a differenza del droghiere o del salumiere, sa che è compito suo fornire il prodotto base, l’ultimo ridotto rimasto agli umani prima di morire di fame. Dalle parti mie, poi, il pane non è solo un prodotto ben lievitato, con i giusti ingredienti di sale, farina, acqua e olio (o strutto), ma è piattaforma per sfornare un pane sempre diverso, nel gusto e nella forma. Prendete una soffiata a Milano e comparatela con una ricciolina (o crocetta): la differenza è sostanziale. E non parliamo delle forme: ricciole, arabi, monta su, michette, ciabattine ecc. Andate a Parigi: amo la baguette, certo, ma a sera è già immangiabile. Il nostro pane è buono anche il giorno dopo.

Mi sembra di vederlo, Tite, che ti aspetta, sulla porta del suo forno, con la sua camicia bianca, i pantaloni infarinati, il cappellino e un largo sorriso, invitandoti ad entrare con un gesto della mano. Quei capelli un po’ radi e grigi, pettinati all’indietro, mi riportano agli anni ’40 o ’50 e mi richiamano alla memoria mattine splendide di cieli tersi, quando, accompagnato da mio padre alla scuola elementare, passavo di fronte al forno e assaporavo la fragranza del pane appena sfornato. Il garzone, un giovanetto allegro, appoggiava sul manubrio della bicicletta una cesta strapiena di sacchetti di pane da portare ai clienti, mentre Tite, il fornaio, sulla soglia, salutava mio padre e mi rivolgeva un sorriso.

Se per uno strano scherzo del destino, dovessi imbattermi in Tite, magari incrociandolo su una via cittadina, magari a Rio, a Milano o Madrid, sento che qualcosa mi spingerebbe a fermarlo e dirgli, nel nostro dialetto:”Ciau, Tite! Cum l’è bun al tu pan!” e me lo immagino, all’inizio sorpreso, poi, una volta capito da dove vengo, allungare il braccio e stringermi la mano, rispondendo, ancora in perfetto mantovano:”Grasie. A n’u mai dismengà al dialet!”.