John Charles se n’è andato

 

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Ieri, 21 febbraio 2004, è morto John Charles, ex-calciatore della Juventus e della Roma, venuto in Italia dal Leeds nel 1961.

Era gallese di Swansea, Charles, un metro e novantatre per 88 chili, una forza della natura, capace con la testa di sparare bordate micidiali ma anche di accarezzare il pallone per invitanti “assists” al cabezón Sivori o al capitano Boniperti.

Sono triste perché con big John se n’è andato un pezzo della mia vita ed un pRisultato immagine per John Charles Juventusezzo di cultura calcistica.

A parlarmi di Charles era mio zio Enzo, tifoso della Juve. Lo vidi durante una partita giocata dal Galles ai Mondiali, credo quelli del ’58, in Svezia. Mi sembra si fosse fatto male e lo ricordo con un cerottone sul sopracciglio. Il Galles non fece una gran figura. D’altro canto, in Svezia c’era il Brasile di Pelé (allora appena diciottenne), Garrincha, Didì e Vavà: una delle squadre più forti e più belle che abbia visto.

La mia Juve era Charles, Sivori e Boniperti ed era assolutamente da amare: la si amava perché giocava bene, perché era molto forte e poi la si amava perché aveva Sivori e Charles.

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Sivori era l’opposto esatto di Charles. L’argentino era piccolo, brutto e sgraziato ed in più era un gran figlio di buona donna: beffardo, strafottente, maligno e vigliacchetto. Faceva passare il pallone fra le gambe degli avversari non per sveltire l’azione ma per irriderli. Tratteneva il pallone e provocava l’avversario con tutto un repertorio di finte, giochetti che imbestialivano i difensori e ne scatenavano rabbia e impotenza. Spesso poi perdeva il controllo dei propri nervi e sfogava la sua rabbia con sceneggiate invereconde contro arbitri e avversari. Ricordo il calcio a freddo che appioppò da dietro a Pachín, appena finita la partita che si era risolta con la vittoria del Real Madrid in una Coppa dei Campioni dei primi anni sessanta, oppure la volta che se la prese con l’arbitro beccandosi sei o nove giornate di squalifica. Era da amare o da odiare. Gli juventini stravedevano per lui; gli avversari lo detestavano.Risultato immagine per John Charles Juventus

Charles era invece la cultura del calcio e dello sport. Prendeva tante di quelle botte da stroncare un bisonte e mai una reazione, mai un gesto scomposto. Non un’espulsione, non un’ammonizione in tutta la sua carriera. Neanche Facchetti, nerazzurro cuore d’angelo, c’è riuscito.

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A volte, ma raramente, si sfogava nello spogliatoio con Boniperti, lamentandosi come fa un bimbetto col papà o la mamma: “Lui fatto a me male, tanto male”.

E il capitano: “John, quando salti per colpire di testa, allarga le braccia, non c’è bisogno di sgomitare; solo allargando i gomiti farai spazio attorno a te” e John :”Sì, sì”.Poi, tornato in campo saltava come sempre faceva: diritto, maestoso, con le braccia lungo i fianchi e gli avversari che si dannavano per tirarlo giù, per sbilanciarlo, per trattenerlo.

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Caro John, mi manchi. Io non sono come te, ma vorrei esserlo perché il calcio deve essere come tu lo concepivi e cioè serietà, impegno, concentrazione, onestà, lealtà, rispetto degli avversari e mente libera: mente libera all’inglese e cioè, finita la partita, si va a bere una birra con amici ed avversari, quel che è capitato in campo è finito e, soprattutto, la partita è finita e basta.

Io non amo il popolo inglese per una serie di ragioni che sarebbe lungo ed inutile ricordare qui, ma lo rispetto profondamente. La cultura sportiva di questo paese deve essere di esempio per un paese come il nostro.

La cultura sportiva è in realtà riflesso di una cultura sociale e civile che agli inglesi certo non manca.

Noi, popolo appassionato, umano, pieno di slanci di generosità, non siamo nemmeno capaci di “pensare” un campo da calcio senza recinzioni, una polizia senz’armi, una rivalità politica senza scontri personali, un leader politico senza scorta, una manifestazione senza servizio d’ordine, un concorso senza raccomandazione, una politica senza interessi o carrierismo, un’ammirazione senza adulazione, una cultura del saper perdere, una partecipazione a qualsiasi evento senza prima calcolare quale sia il carro più promettente.

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Ecco quanto mi allontana da Charles e quanto, per paradosso, lo sento tanto simile a me.

Infine, sia detto per inciso, Charles mi riporta ai miei anni di infanzia: non andavo a vedere le partite allo stadio che molto di rado. Non ricordo di aver visto giocare Charles e nemmeno Sivori anche se devo averli visti perché quando la Juve arrivava a Mantova, mio zio mi accompagnava a vederla. Ma ero molto piccolo e i ricordi si fanno molto sbiaditi: mi ricordo di aver visto Suarez e Mazzola a Ferrara contro la Spal, ricordo di aver ammirato a Mantova il Milan di Rocco con Altafini, Rivera e Dino Sani che credo giocasse una delle sue prime partite in Italia quel giorno.

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Ricordo invece una sfida tremenda con il Real di Alfredo Di Stefano, la “Saeta rubia” del Real Madrid: un fenomeno autentico, all’altezza di Maradona e Pelé. Ma ricordo anche le botte che prendemmo. Perdemmo in casa, ma riuscimmo a vincere a Madrid. Si dovette giocare una “bella” in campo neutro e fummo sconfitti.

“Ciars” pronunciava mio zio e quando lo diceva gli si illuminavano gli occhi. A chi non poteva piacere un vero campione, un signore autentico, un gentleman fuori e dentro lo stadio?

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L’immagine di un calcio che non c’è più; un calcio cioè senza sponsor, senza le pay tv o le pay per view, senza i procuratori, senza le vagonate di miliardi che finiscono nelle tasche di baldi giovanotti contro ogni senso della misura, ogni regola di equilibrio, ogni limite.

Ogni tanto big John veniva a Torino per una rimpatriata con gli amici d’un tempo: il passo sempre più pesante, i chili in più, l’occhio lento e moscio per qualche bevuta di troppo; ma il sorriso era quello, l’italiano sempre stentato e l’amicizia vera, di quelle che resistono a tutto, anche alla prova del tempo.

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Mi ha fatto molto piacere sentire da Boniperti e da Umberto Agnelli le espressioni di ammirazione e di sincero rimpianto: vorrei che nella sede torinese dei bianconeri ci fosse una targa, un busto che lo ricordi e vorrei anche che quella targa fosse affissa nello spogliatoio, con la sua foto e una dedica: “A John Charles, gallese bianconero, con gratitudine e rimpianto la tua Juventus”.

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22/2/2004