Addio, Cabezón!

 

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L’ho visto giocare, Sivori. L’ho visto dal vivo allo stadio di Mantova un pomeriggio di primavera di tanti anni fa. Erano gli anni ’60. Prima della partita era solito tirare dei rigori: pare che quella domenica un rigore l’avesse sbagliato e mi pare che quello fosse un brutto segno per lui, che era abbastanza scaramantico. Infatti, se non ricordo male, quella volta la Juventus non vinse.

Ricordo anche che, all’entrata in campo, uno degli spettatori, gridò in dialetto mantovano: Fatti tosare. Tutta invidia. In effetti, era lui l’uomo più pericoloso e più geniale. Era l’uomo che gli avversari temevano di più. In ogni momento poteva inventare il goal: per questo motivo la gente sfotteva lui in prevalenza.

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Ma si faceva amare e odiare anche perché era particolarmente dotato nel palleggio e nel dribbling: egli usava questo suo talento anche dal punto di vista meno nobile, quello di irridere gli avversari, facendo passare la palla in mezzo alle loro gambe. Questa tecnica, allora semisconosciuta in Italia, la portò proprio lui, el cabezòn. Si avvicinava all’avversario caracollando, poi, d’improvviso faceva il “tunnel” e poi andava verso un altro avversario. Questo faceva impazzire di gioia gli juventini, ma faceva infuriare gli avversari.Risultato immagine per Omar Sivori Juve

In primo piano Gianni Rivera e Sivori. Dietro, seminascosti, Dino Sani e Salvadore. A destra, John Charles.

Sivori, di botte ne ha prese e tante ma non era il giocatore che le prendeva in silenzio, non era, tanto per fare un esempio, il suo compagno John Charles, gigante gallese, buono e nobile, leale e coraggioso. Sivori aveva un DNA latino, fatto di malizie, provocazioni, reazioni, folli scoppi d’ira eccetera. Quante ammonizioni e quante espulsioni! Una volta credo che si beccò sei giornate di squalifica. Quando poi arrivò in Nazionale (lui, argentino e orgoglioso di esserlo, ci pensate?) portò in maglia azzurra tutto il suo bagaglio fatto di talento e delizia ma anche di vigliaccate.

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Sivori temeva i randellatori, grossi il doppio di lui e stava ben attento a non provocarli troppo e se lo faceva, era solo per far loro subire un’espulsione. I calci agli stinchi a tradimento li sapeva appioppare e come.

Quando la Juve venne eliminata in Coppa dei Campioni nella “bella” che si giocò a Parigi, egli, che per tutta la partita era stato bersagliato dai rudi difensori madridisti, aspettò il fischio finale e, di soppiatto, si avvicinò a uno dei difensori che più lo avevano fatto soffrire, mi sembra Pachìn, e gli mollò un calcio da dietro così forte da obbligarlo ad uscire in barella.

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Ieri e oggi: Da sin.: Pippo Inzaghi, Omar Sivori, Sandro Del Piero e John Charles

Era umorale, bizzoso e impulsivo: difficile vederlo finire una partita senza ammonizioni o quantomeno falli cattivi. Un giocatore difficile da gestire: quando avvenne il suo divorzio dalla Juve, una delle cause fu soprattutto il suo pessimo rapporto con Heriberto Herrera, l’allenatore paraguayano mentore del “movimiento”, una parola che a Sivori piaceva poco. Iniziava il calcio atletico, cominciavano le sedute ginniche faticose e noiose. Herrera voleva atleti e non solo giocatori. Sivori era l’anti-atleta. Mentre gli altri si allenavano, lui passeggiava; quando i suoi compagni andavano a letto, lui giocava a carte nei locali di Torino fino a notte inoltrata.

Poi, la domenica, faceva sfracelli. In questo assomigliava ad un altro grande argentino, il più grande, e cioè Diego Armando Maradona

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Foto preziosa: Diego Armando Maradona e Omar Sivori.

Era un calcio che stava morendo quello fatto di geniali artisti innamorati della palla, delle belle donne e della bella vita. Il calcio fatto di ritmi forsennati, di ossessive lezioni tattiche, di dedizione totale al dio pallone, quello cioè di Helenio Herrera si stava imponendo. Quelli come Sivori, e cioè gli Antonio Valentìn Angelillo, capocannoniere mai uguagliato e amante della bella vita non avevano scampo.

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Una carezza a Mariolino Corso…prima della partita, ovviamente.

A me personalmente piaceva di più John Charles: sono sempre stato attratto dalla cultura sportiva britannica fatta di agonismo e di lealtà, ma devo dire che certe giocate di Enrique Omar Sivori mi mandavano in delirio. Certi pallonetti impossibili, certe sue invenzioni ed intuizioni sarebbero state riprese in seguito solo da un paio di giocatori e cioè Michel Platini e Maradona.

 

Come tutti i talenti egoisti ed impulsivi, Sivori non era e non poteva essere un vero leader: era un “maverick”, uno che si distingueva da tutti gli altri, che faceva storia a sé, che non si allineava, orgoglioso come un “gaucho”, permaloso ma capace di grandi e profonde amicizie come quella che lo tenne legato alla sua Juventus e ad alcune delle sue grandi figure come Boniperti, Charles e l’avvocato Agnelli.

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Un patto a tre per tre juventini doc: Sivori, Nestor Combin e Luis Del Sol.

Nella sua tenuta di San Nicolàs, campeggiava lo stemma della sua ex-squadra con la scritta La Juventus. Ogni tanto se ne veniva in Italia e sempre veniva invitato a commentare in televisione ed egli, diventato più maturo e riflessivo, dava i suoi giudizi che potevano o meno essere discutibili ma che mai, da quel che ricordo, sapevano di compiacenza, piaggeria o superficialità. Spesso i suoi giudizi sul nostro calcio erano severi, ma erano dettati da sincerità e da una notevole sapienza calcistica dove si indovinava sempre il vecchio amore per il calcio funambolico, fatto di estro, fantasia, gioia e creatività e la sua scarsa considerazione per il calcio atletico, pieno di podisti, atleti e portatori di palla.

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Una domenica d’inverno di tanti anni fa e Sivori segna. Che ricordi!

Egli soleva irriderli, quando poteva, intestardendosi su un tunnel di troppo, meritandosi magari un calcione. ma scatenando la passione di centinaia di migliaia di persone, nel bene e nel male. Vuoi mettere? Si discuteva per giorni su un suo dribbling e tanti nostri ragazzi lo imitavano ed alcuni perfino ci riuscivano. Allora non c’era la moviola: le possibilità di vedere ripetuta una sua giocata erano pochine. Allora si ricorreva ai ricordi e questi, si sa, spesso portano a magnificare, ampliare e mitizzare e così un suo golletto diventava pura antologia. Ma non faceva niente, perché il mito aiutava e spingeva migliaia di ragazzini a tentare di giocare come lui.

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L’addio del campione.

Caro Sivori, spero che tu riposi in pace e che lassù trovi la serenità che ti meriti.

 

John Charles se n’è andato

 

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Ieri, 21 febbraio 2004, è morto John Charles, ex-calciatore della Juventus e della Roma, venuto in Italia dal Leeds nel 1961.

Era gallese di Swansea, Charles, un metro e novantatre per 88 chili, una forza della natura, capace con la testa di sparare bordate micidiali ma anche di accarezzare il pallone per invitanti “assists” al cabezón Sivori o al capitano Boniperti.

Sono triste perché con big John se n’è andato un pezzo della mia vita ed un pRisultato immagine per John Charles Juventusezzo di cultura calcistica.

A parlarmi di Charles era mio zio Enzo, tifoso della Juve. Lo vidi durante una partita giocata dal Galles ai Mondiali, credo quelli del ’58, in Svezia. Mi sembra si fosse fatto male e lo ricordo con un cerottone sul sopracciglio. Il Galles non fece una gran figura. D’altro canto, in Svezia c’era il Brasile di Pelé (allora appena diciottenne), Garrincha, Didì e Vavà: una delle squadre più forti e più belle che abbia visto.

La mia Juve era Charles, Sivori e Boniperti ed era assolutamente da amare: la si amava perché giocava bene, perché era molto forte e poi la si amava perché aveva Sivori e Charles.

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Sivori era l’opposto esatto di Charles. L’argentino era piccolo, brutto e sgraziato ed in più era un gran figlio di buona donna: beffardo, strafottente, maligno e vigliacchetto. Faceva passare il pallone fra le gambe degli avversari non per sveltire l’azione ma per irriderli. Tratteneva il pallone e provocava l’avversario con tutto un repertorio di finte, giochetti che imbestialivano i difensori e ne scatenavano rabbia e impotenza. Spesso poi perdeva il controllo dei propri nervi e sfogava la sua rabbia con sceneggiate invereconde contro arbitri e avversari. Ricordo il calcio a freddo che appioppò da dietro a Pachín, appena finita la partita che si era risolta con la vittoria del Real Madrid in una Coppa dei Campioni dei primi anni sessanta, oppure la volta che se la prese con l’arbitro beccandosi sei o nove giornate di squalifica. Era da amare o da odiare. Gli juventini stravedevano per lui; gli avversari lo detestavano.Risultato immagine per John Charles Juventus

Charles era invece la cultura del calcio e dello sport. Prendeva tante di quelle botte da stroncare un bisonte e mai una reazione, mai un gesto scomposto. Non un’espulsione, non un’ammonizione in tutta la sua carriera. Neanche Facchetti, nerazzurro cuore d’angelo, c’è riuscito.

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A volte, ma raramente, si sfogava nello spogliatoio con Boniperti, lamentandosi come fa un bimbetto col papà o la mamma: “Lui fatto a me male, tanto male”.

E il capitano: “John, quando salti per colpire di testa, allarga le braccia, non c’è bisogno di sgomitare; solo allargando i gomiti farai spazio attorno a te” e John :”Sì, sì”.Poi, tornato in campo saltava come sempre faceva: diritto, maestoso, con le braccia lungo i fianchi e gli avversari che si dannavano per tirarlo giù, per sbilanciarlo, per trattenerlo.

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Caro John, mi manchi. Io non sono come te, ma vorrei esserlo perché il calcio deve essere come tu lo concepivi e cioè serietà, impegno, concentrazione, onestà, lealtà, rispetto degli avversari e mente libera: mente libera all’inglese e cioè, finita la partita, si va a bere una birra con amici ed avversari, quel che è capitato in campo è finito e, soprattutto, la partita è finita e basta.

Io non amo il popolo inglese per una serie di ragioni che sarebbe lungo ed inutile ricordare qui, ma lo rispetto profondamente. La cultura sportiva di questo paese deve essere di esempio per un paese come il nostro.

La cultura sportiva è in realtà riflesso di una cultura sociale e civile che agli inglesi certo non manca.

Noi, popolo appassionato, umano, pieno di slanci di generosità, non siamo nemmeno capaci di “pensare” un campo da calcio senza recinzioni, una polizia senz’armi, una rivalità politica senza scontri personali, un leader politico senza scorta, una manifestazione senza servizio d’ordine, un concorso senza raccomandazione, una politica senza interessi o carrierismo, un’ammirazione senza adulazione, una cultura del saper perdere, una partecipazione a qualsiasi evento senza prima calcolare quale sia il carro più promettente.

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Ecco quanto mi allontana da Charles e quanto, per paradosso, lo sento tanto simile a me.

Infine, sia detto per inciso, Charles mi riporta ai miei anni di infanzia: non andavo a vedere le partite allo stadio che molto di rado. Non ricordo di aver visto giocare Charles e nemmeno Sivori anche se devo averli visti perché quando la Juve arrivava a Mantova, mio zio mi accompagnava a vederla. Ma ero molto piccolo e i ricordi si fanno molto sbiaditi: mi ricordo di aver visto Suarez e Mazzola a Ferrara contro la Spal, ricordo di aver ammirato a Mantova il Milan di Rocco con Altafini, Rivera e Dino Sani che credo giocasse una delle sue prime partite in Italia quel giorno.

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Ricordo invece una sfida tremenda con il Real di Alfredo Di Stefano, la “Saeta rubia” del Real Madrid: un fenomeno autentico, all’altezza di Maradona e Pelé. Ma ricordo anche le botte che prendemmo. Perdemmo in casa, ma riuscimmo a vincere a Madrid. Si dovette giocare una “bella” in campo neutro e fummo sconfitti.

“Ciars” pronunciava mio zio e quando lo diceva gli si illuminavano gli occhi. A chi non poteva piacere un vero campione, un signore autentico, un gentleman fuori e dentro lo stadio?

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L’immagine di un calcio che non c’è più; un calcio cioè senza sponsor, senza le pay tv o le pay per view, senza i procuratori, senza le vagonate di miliardi che finiscono nelle tasche di baldi giovanotti contro ogni senso della misura, ogni regola di equilibrio, ogni limite.

Ogni tanto big John veniva a Torino per una rimpatriata con gli amici d’un tempo: il passo sempre più pesante, i chili in più, l’occhio lento e moscio per qualche bevuta di troppo; ma il sorriso era quello, l’italiano sempre stentato e l’amicizia vera, di quelle che resistono a tutto, anche alla prova del tempo.

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Mi ha fatto molto piacere sentire da Boniperti e da Umberto Agnelli le espressioni di ammirazione e di sincero rimpianto: vorrei che nella sede torinese dei bianconeri ci fosse una targa, un busto che lo ricordi e vorrei anche che quella targa fosse affissa nello spogliatoio, con la sua foto e una dedica: “A John Charles, gallese bianconero, con gratitudine e rimpianto la tua Juventus”.

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22/2/2004