Chi diavolo è Wilson?

 

Chi diavolo è Wilson? Un mezzo pazzo lunatico, instabile, verboso e rompiscatole o forse un mezzo saggio, buono, sempre ottimista e generoso alla ricerca della felicità?

Non si conosce bene il suo lavoro, probabilmente è un disoccupato, di cultura medio-alta, forse è un ex-insegnante, forse un giornalista, ma molto più probabilmente uno scrittore. Forse vive di rendita, non ha quasi amici, vive solo, in un appartamento con una cagnolina, sua moglie l’ha lasciato diversi anni prima e non sa di essere padre, visto che la sua ex, dopo averlo abbandonato, ha partorito una bimba, l’ha data in adozione e ha cominciato un’altra vita.

La sua esistenza la sta trascinando alla bell’e meglio, non sembra nutrire sogni di gloria né possedere ambizioni. Di una cosa è sicuro: che la vita non è che una favola, la nostra civiltà è una triste e inutile farsa costruita sulle menzogne. Dice di essere alla ricerca della felicità, ma sa anche che essa non si trova in quegli infernali congegni elettronici (smartphone, pc, facebook, google, ecc. “State lì a digitare mentre la vostra cazzo di vita vi passa accanto, idioti”) che stanno letteralmente sconvolgendo le nostre abitudini.

Il primo elemento di analisi è quindi il rifiuto che Wilson ha del mondo che lo circonda. Vive solo perché non sopporta quasi nulla di ciò che lo circonda. Non ha amici perché non condivide per nulla le loro ambizioni borghesi, i loro piccoli sogni di un lavoro prestigioso, tenore di vita alto, figli al college ecc. Anche la donna con cui ha convissuto, pur di idee simili alle sue, si è stufata e lo ha mandato al diavolo

Al tempo stesso, soffre la solitudine, è fondamentalmente un hippie che però, pur nella sua visione pessimista del mondo, possiede un’indole buona, socievole, ama la vita, le piccole cose che essa può elargire, come le passeggiate, l’amore di una donna, la compagnia di un cagnolino, il conforto di un amico. E’ un idealista che non sa affrontare il mondo in cui vive. Non è “cresciuto”, come spesso si dice di qualcuno che non accetta la realtà in cui vive, come se la crescita fosse l’omologazione socio-culturale, vivere e pensare come “fanno gli altri”.

 

Infine, è un perdigiorno che non fa nulla dalla mattina alla sera, immerso e forse perduto in elucubrazioni socio-filosofiche un tantino sterili, che passa il tempo sdraiato nel suo appartamento invaso dai libri e dalla polvere, senza tv, laptop, smartphone, tablet, oppure a spasso con il suo cane o a cena presso un amico che presto lo abbandonerà per trasferirsi altrove, cosa che per lui è vero e proprio egoismo. Non si cura di disturbare estranei per attaccar bottone, vive e vorrebbe che tutti vivessero come vive lui, convinto che il suo modo di vivere sia quello meno schifoso ed è insopportabilmente verboso, appiccicaticcio e rompiscatole.

Se da un lato insomma ha bisogno degli altri, dall’altro fa di tutto per allontanarli. Poco a poco si è situato su una lunghezza d’onda che non potrà mai coincidere con quella dei suoi simili.

La storia inizia con la pessima notizia che il suo amico (e sua moglie che odia Wilson) sta per trasferirsi altrove, che suo padre sta per morire, devastato da un cancro in fase terminale. Rimasto solo e consegnato temporaneamente il cagnolino ad una amica, non riuscendo a stabilire un contatto con le persone che incontra (la donna del supermercato, la cicciona che gli spiattella tutta la sua vita davanti a un gelato), decide di andare alla ricerca della sua ex-moglie. La ritrova e pensa davvero di riannodare con lei il filo che si era spezzato anni prima, senza rendersi conto che nulla ormai li può unire, tanto sono irrimediabilmente diversi e ormai lontani anni luce uno dall’altra.

Venuto a sapere da lei di essere padre di una figlia data in adozione a una coppia facoltosa, il suo equilibrio mentale subisce una scossa che lo rende ancora più instabile e imprevedibile. Vuole assolutamente conoscerla, conoscere i suoi genitori adottivi, vivere con lei, senza comprendere che il suo atteggiamento è solo un morboso e infantile tentativo di stabilire un impossibile contatto con una persona che non ha mai conosciuto, che vive una vita sua, che ha amici ed interessi agli antipodi dai suoi. Questo suo atteggiamento lo porta, com’è prevedibile, a un duro impatto con la realtà e alla scoperta amara del carcere. In prigione, vive con la speranza di rivedere, scontata la pena per un tentativo di rapimento che mai ha avuto luogo, la sua ex-moglie e la figlia: ennesima delusione, visto che la sua ex, che non si è degnata nemmeno di testimoniare in suo favore al processo, ha intenzione di andare a vivere con un amico e che la figlia gli confessa di aspettare un bimbo e di volere andare a vivere lontano.

Infine, viene informato che la sua cagnolina è morta. Dopo un momento di disperazione, si reca accanto alla sua amica che gli aveva tenuto il cane, nel luogo dove è sepolto e pronuncia una commovente e stupenda orazione funebre. Il film termina con loro due che, attraverso Skype, comunicano con Claire, la figlia, che mostra loro il bimbo nato da poco. Wilson appare emozionato e il suo sorriso sembra cancellare il dolore di una vita alla ricerca di una felicità mai raggiunta e irraggiungibile.

Il film, diretto dal giovane regista Craig Johnson, si basa su una sceneggiatura di Daniel Clowes tratta dalla sua omonima graphic novel. Trasferitosi a New York, dal nativo stato di Washington, dove si era laureato in teatro presso la locale università, si iscrive alla Tisch School of the Arts e scrive e dirige tre film di cui WILSON è del 2017, oltre a dirigere un episodio della serie TV “LOOKING”.

Tutto sommato, il film è godibile e, per certi aspetti, originale. Purtroppo, credo che la stranezza della trama, la lentezza e il ritmo praticamente assente oltre a una certa debolezza nella costruzione dei personaggi non abbiano giovato alla popolarità del film. Nemmeno la critica sembra avere apprezzato più di tanto. Resta comunque la straordinaria interpretazione del sempre magnifico Woody Harrelson, stralunato e accattivante come non mai.

Che il pubblico non abbia apprezzato più di tanto, lo ritengo plausibile, visto che la filosofia del film è quella di mettersi di traverso rispetto alla tendenza generale. C’è un rifiuto praticamente totale di tutto ciò che sa di moda, omologazione, di “feeling” dell’americano medio (quello che film come UN UOMO A NUDO, SALVATE LA TIGRE, AMERICAN BEAUTY hanno disperatamente cercato di comunicare a livelli decisamente più alti). Dietro le stranezze di un uomo scomodo che nessuno vuole vicino, si indovina l’urlo sgangherato ma sincero di chi non ne può più di questa cosiddetta civiltà, costruita sulla menzogna, sul nulla. Dispiace anche che la critica si sia lasciata trasportare forse eccessivamente dal giudizio di valore sul livello del film e non abbia colto del tutto la contrapposizione, la contraddizione che attanaglia il protagonista e che è motore di tutto l’assunto.

Consigliato.

Stoiki mugik!

 

 

STOIKI MUGIK!

Non è probabilmente solo una casualità che questo film sia uscito in questi ultimi tempi, quando la questione tedesco-orientale e la guerra fredda sono oggetti messi nel soffitto di una storia “superficiale”, dove tutto tende ad essere dimenticato, tutto viene inesorabilmente coperto dal “nuovo”, dalle “Breaking News”, vere o false che esse siano.

Fra le diverse angolature da cui analizzare questo film, in effetti, ce n’è una che, a mio avviso, emerge, cristallina, pura, durissima, come la punta di diamante. Ed è l’uomo vero. L’uomo tutto d’un pezzo, l’uomo che non baratterebbe la propria dignità per tutti i tesori del mondo. Questo è un film sulla dignità, che è poi l’unica vera cosa che distingue il “vero” uomo dai suoi simili.

Ad interpretare il personaggio dell’avvocato Jim Donovan è Tom Hanks, lo stesso che ha interpretato (magistralmente) il capitano John Miller, l’ufficiale dei Rangers che riesce a salvare il soldato Ryan. Due storie vere. Due storie maledettamente simili, perché il protagonista è uno “stoiki mugik”, un uomo tutto d’un pezzo, un uomo che merita il pieno rispetto del suo presunto “nemico”.

Perché proprio ora questo film? Perché mai, come in questo tempo, è difficile mantenere la barra dritta, mantenere intatta la propria fede nei propri ideali, dare testimonianza al prossimo, ai familiari e a se stesso della propria incrollabile dignità nonostante da ogni parte vi siano pressioni, seduzioni, minacce.

Al di là delle barriere costruite da “piccoli uomini”, dei nazionalismi beceri, delle sciocche mire espansionistiche, ci sono, fortunatamente, uomini veri di qua e di là dei confini, disposti a conoscersi, frequentarsi e rispettarsi, pur nelle diverse concezioni del mondo e della vita.

L’aspetto più curioso del film e che Spielberg ha inteso comunicare è che, ad esclusione dei due protagonisti, ne escono tutti con le ossa rotte e che risulta chiaro per tutti gli spettatori che le sorti del mondo troppo spesso sono in mano a gente senza alcuno scrupolo, che governa con l’uso indiscriminato delle false verità, di princìpi che, pur se antichi come il mondo, ancora dettano legge nelle maggiori cancellerie dei Paesi che, invece di spendersi per assicurare la distensione, la pace e la concordia mondiali, brigano per accrescere la propria potenza a rischio dell’estinzione del genere umano.

Le figure dei due protagonisti, invece, davanti a un simile scempio, ne escono ingigantite : da un lato, la spia russa Abel che, vive in modo dignitoso la propria prigionia non collaborando ed accettando di buon grado la propria sorte, quale essa sia, consapevole dei rischi a cui si è esposto e, al tempo stesso, convinto di essere nel giusto e quindi indisponibile a barattare la propria libertà con azioni che ne minino la sua coerenza. Dall’altro, un avvocato che sceglie di difendere una spia, un “traditore” che tutti vorrebbero fosse giustiziato, tanto è acuto il clima di tensione creata dalla guerra fredda e dalla “caccia alle streghe” che in quel periodo pervade l’America. Lo difende, nonostante abbia tutti contro, nonostante le sue più intime convinzioni che si arrendono di fronte al Diritto, inalienabile e pilastro di civiltà.

Conoscersi, per i due protagonisti, è un percorso virtuoso verso la reciproca comprensione e il rispetto, divenuto non più neutro atteggiamento verso l’altro, ma un‘apertura mentale sincera verso chi la pensa diversamente e agisce in un modo che, sulle prime, sembra condannabile senza appello e che poi si rivela essere coerente con i propri princìpi e la propria visione del mondo.

Alla fine, la guerra fredda, pur se continuerà, è virtualmente terminata fra i due: si sono conosciuti, si sono parlati e hanno cominciato a rispettarsi. Il regalo finale di Abel Donovan ha un significato molto più importante del ritratto. Il film inizia con un autoritratto, segno di convinzione delle proprie idee e di ciò che sta facendo. Il ritratto finale è segno di stima per chi lo ha liberato, ma anche “apertura” verso un mondo che forse troppo frettolosamente si è considerato come decadente, malato e corrotto. Per converso poi, il mondo che lo riaccoglie sembra non apprezzare affatto (vedi la scena finale , in cui Abel viene fatto sedere non accanto all’autista ma sul sedile posteriore, segno questo di guai in vista) lo svolgersi degli eventi, avvelenato dal sospetto che Abel possa aver detto qualcosa che non doveva dire.

Il successo della missione di Donovan, del resto, non può certo far dimenticare la campagna diffamatoria nei suoi confronti mossa da un Paese intero, ubriaco di pregiudizi, gonfio di odio e di un malsano sentimento di superiorità.

La vittoria di Donovan, quindi, non è affatto la vittoria di un intero Paese, così come il ritorno di Abel, per i russi, non è affatto un trionfo ma la nascita di un sospetto, così come oggi, nonostante la guerra fredda sia ufficialmente finita, c’è più che mai la sensazione della perdita, o almeno dell’affievolimento di principi che si ritenevano incrollabili, imperituri e che tutto è possibile. E’ ancora possibile che si ritorni alla barbarie, che si parli di nazionalismo, di razze, di “lezioni” da infliggere.

Come ricordava il vecchio sopravvissuto ebreo nel film DOSSIER ODESSA (1974) di Ronald Neame, non sono i popoli ad essere malvagi ma i singoli individui. Ma i singoli individui possono portare il mondo alla distruzione. Così come anche i singoli individui possono riscattare con la loro azione e il loro pensiero questo mondo. A volte singole azioni di questi individui possono ottenere risultati insperati e cambiare alcuni orientamenti che sembravano ormai definitivamente definiti.

Addio, Cabezón!

 

Risultato immagine per Omar Sivori Juve

L’ho visto giocare, Sivori. L’ho visto dal vivo allo stadio di Mantova un pomeriggio di primavera di tanti anni fa. Erano gli anni ’60. Prima della partita era solito tirare dei rigori: pare che quella domenica un rigore l’avesse sbagliato e mi pare che quello fosse un brutto segno per lui, che era abbastanza scaramantico. Infatti, se non ricordo male, quella volta la Juventus non vinse.

Ricordo anche che, all’entrata in campo, uno degli spettatori, gridò in dialetto mantovano: Fatti tosare. Tutta invidia. In effetti, era lui l’uomo più pericoloso e più geniale. Era l’uomo che gli avversari temevano di più. In ogni momento poteva inventare il goal: per questo motivo la gente sfotteva lui in prevalenza.

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Ma si faceva amare e odiare anche perché era particolarmente dotato nel palleggio e nel dribbling: egli usava questo suo talento anche dal punto di vista meno nobile, quello di irridere gli avversari, facendo passare la palla in mezzo alle loro gambe. Questa tecnica, allora semisconosciuta in Italia, la portò proprio lui, el cabezòn. Si avvicinava all’avversario caracollando, poi, d’improvviso faceva il “tunnel” e poi andava verso un altro avversario. Questo faceva impazzire di gioia gli juventini, ma faceva infuriare gli avversari.Risultato immagine per Omar Sivori Juve

In primo piano Gianni Rivera e Sivori. Dietro, seminascosti, Dino Sani e Salvadore. A destra, John Charles.

Sivori, di botte ne ha prese e tante ma non era il giocatore che le prendeva in silenzio, non era, tanto per fare un esempio, il suo compagno John Charles, gigante gallese, buono e nobile, leale e coraggioso. Sivori aveva un DNA latino, fatto di malizie, provocazioni, reazioni, folli scoppi d’ira eccetera. Quante ammonizioni e quante espulsioni! Una volta credo che si beccò sei giornate di squalifica. Quando poi arrivò in Nazionale (lui, argentino e orgoglioso di esserlo, ci pensate?) portò in maglia azzurra tutto il suo bagaglio fatto di talento e delizia ma anche di vigliaccate.

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Sivori temeva i randellatori, grossi il doppio di lui e stava ben attento a non provocarli troppo e se lo faceva, era solo per far loro subire un’espulsione. I calci agli stinchi a tradimento li sapeva appioppare e come.

Quando la Juve venne eliminata in Coppa dei Campioni nella “bella” che si giocò a Parigi, egli, che per tutta la partita era stato bersagliato dai rudi difensori madridisti, aspettò il fischio finale e, di soppiatto, si avvicinò a uno dei difensori che più lo avevano fatto soffrire, mi sembra Pachìn, e gli mollò un calcio da dietro così forte da obbligarlo ad uscire in barella.

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Ieri e oggi: Da sin.: Pippo Inzaghi, Omar Sivori, Sandro Del Piero e John Charles

Era umorale, bizzoso e impulsivo: difficile vederlo finire una partita senza ammonizioni o quantomeno falli cattivi. Un giocatore difficile da gestire: quando avvenne il suo divorzio dalla Juve, una delle cause fu soprattutto il suo pessimo rapporto con Heriberto Herrera, l’allenatore paraguayano mentore del “movimiento”, una parola che a Sivori piaceva poco. Iniziava il calcio atletico, cominciavano le sedute ginniche faticose e noiose. Herrera voleva atleti e non solo giocatori. Sivori era l’anti-atleta. Mentre gli altri si allenavano, lui passeggiava; quando i suoi compagni andavano a letto, lui giocava a carte nei locali di Torino fino a notte inoltrata.

Poi, la domenica, faceva sfracelli. In questo assomigliava ad un altro grande argentino, il più grande, e cioè Diego Armando Maradona

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Foto preziosa: Diego Armando Maradona e Omar Sivori.

Era un calcio che stava morendo quello fatto di geniali artisti innamorati della palla, delle belle donne e della bella vita. Il calcio fatto di ritmi forsennati, di ossessive lezioni tattiche, di dedizione totale al dio pallone, quello cioè di Helenio Herrera si stava imponendo. Quelli come Sivori, e cioè gli Antonio Valentìn Angelillo, capocannoniere mai uguagliato e amante della bella vita non avevano scampo.

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Una carezza a Mariolino Corso…prima della partita, ovviamente.

A me personalmente piaceva di più John Charles: sono sempre stato attratto dalla cultura sportiva britannica fatta di agonismo e di lealtà, ma devo dire che certe giocate di Enrique Omar Sivori mi mandavano in delirio. Certi pallonetti impossibili, certe sue invenzioni ed intuizioni sarebbero state riprese in seguito solo da un paio di giocatori e cioè Michel Platini e Maradona.

 

Come tutti i talenti egoisti ed impulsivi, Sivori non era e non poteva essere un vero leader: era un “maverick”, uno che si distingueva da tutti gli altri, che faceva storia a sé, che non si allineava, orgoglioso come un “gaucho”, permaloso ma capace di grandi e profonde amicizie come quella che lo tenne legato alla sua Juventus e ad alcune delle sue grandi figure come Boniperti, Charles e l’avvocato Agnelli.

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Un patto a tre per tre juventini doc: Sivori, Nestor Combin e Luis Del Sol.

Nella sua tenuta di San Nicolàs, campeggiava lo stemma della sua ex-squadra con la scritta La Juventus. Ogni tanto se ne veniva in Italia e sempre veniva invitato a commentare in televisione ed egli, diventato più maturo e riflessivo, dava i suoi giudizi che potevano o meno essere discutibili ma che mai, da quel che ricordo, sapevano di compiacenza, piaggeria o superficialità. Spesso i suoi giudizi sul nostro calcio erano severi, ma erano dettati da sincerità e da una notevole sapienza calcistica dove si indovinava sempre il vecchio amore per il calcio funambolico, fatto di estro, fantasia, gioia e creatività e la sua scarsa considerazione per il calcio atletico, pieno di podisti, atleti e portatori di palla.

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Una domenica d’inverno di tanti anni fa e Sivori segna. Che ricordi!

Egli soleva irriderli, quando poteva, intestardendosi su un tunnel di troppo, meritandosi magari un calcione. ma scatenando la passione di centinaia di migliaia di persone, nel bene e nel male. Vuoi mettere? Si discuteva per giorni su un suo dribbling e tanti nostri ragazzi lo imitavano ed alcuni perfino ci riuscivano. Allora non c’era la moviola: le possibilità di vedere ripetuta una sua giocata erano pochine. Allora si ricorreva ai ricordi e questi, si sa, spesso portano a magnificare, ampliare e mitizzare e così un suo golletto diventava pura antologia. Ma non faceva niente, perché il mito aiutava e spingeva migliaia di ragazzini a tentare di giocare come lui.

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L’addio del campione.

Caro Sivori, spero che tu riposi in pace e che lassù trovi la serenità che ti meriti.

 

John Charles se n’è andato

 

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Ieri, 21 febbraio 2004, è morto John Charles, ex-calciatore della Juventus e della Roma, venuto in Italia dal Leeds nel 1961.

Era gallese di Swansea, Charles, un metro e novantatre per 88 chili, una forza della natura, capace con la testa di sparare bordate micidiali ma anche di accarezzare il pallone per invitanti “assists” al cabezón Sivori o al capitano Boniperti.

Sono triste perché con big John se n’è andato un pezzo della mia vita ed un pRisultato immagine per John Charles Juventusezzo di cultura calcistica.

A parlarmi di Charles era mio zio Enzo, tifoso della Juve. Lo vidi durante una partita giocata dal Galles ai Mondiali, credo quelli del ’58, in Svezia. Mi sembra si fosse fatto male e lo ricordo con un cerottone sul sopracciglio. Il Galles non fece una gran figura. D’altro canto, in Svezia c’era il Brasile di Pelé (allora appena diciottenne), Garrincha, Didì e Vavà: una delle squadre più forti e più belle che abbia visto.

La mia Juve era Charles, Sivori e Boniperti ed era assolutamente da amare: la si amava perché giocava bene, perché era molto forte e poi la si amava perché aveva Sivori e Charles.

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Sivori era l’opposto esatto di Charles. L’argentino era piccolo, brutto e sgraziato ed in più era un gran figlio di buona donna: beffardo, strafottente, maligno e vigliacchetto. Faceva passare il pallone fra le gambe degli avversari non per sveltire l’azione ma per irriderli. Tratteneva il pallone e provocava l’avversario con tutto un repertorio di finte, giochetti che imbestialivano i difensori e ne scatenavano rabbia e impotenza. Spesso poi perdeva il controllo dei propri nervi e sfogava la sua rabbia con sceneggiate invereconde contro arbitri e avversari. Ricordo il calcio a freddo che appioppò da dietro a Pachín, appena finita la partita che si era risolta con la vittoria del Real Madrid in una Coppa dei Campioni dei primi anni sessanta, oppure la volta che se la prese con l’arbitro beccandosi sei o nove giornate di squalifica. Era da amare o da odiare. Gli juventini stravedevano per lui; gli avversari lo detestavano.Risultato immagine per John Charles Juventus

Charles era invece la cultura del calcio e dello sport. Prendeva tante di quelle botte da stroncare un bisonte e mai una reazione, mai un gesto scomposto. Non un’espulsione, non un’ammonizione in tutta la sua carriera. Neanche Facchetti, nerazzurro cuore d’angelo, c’è riuscito.

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A volte, ma raramente, si sfogava nello spogliatoio con Boniperti, lamentandosi come fa un bimbetto col papà o la mamma: “Lui fatto a me male, tanto male”.

E il capitano: “John, quando salti per colpire di testa, allarga le braccia, non c’è bisogno di sgomitare; solo allargando i gomiti farai spazio attorno a te” e John :”Sì, sì”.Poi, tornato in campo saltava come sempre faceva: diritto, maestoso, con le braccia lungo i fianchi e gli avversari che si dannavano per tirarlo giù, per sbilanciarlo, per trattenerlo.

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Caro John, mi manchi. Io non sono come te, ma vorrei esserlo perché il calcio deve essere come tu lo concepivi e cioè serietà, impegno, concentrazione, onestà, lealtà, rispetto degli avversari e mente libera: mente libera all’inglese e cioè, finita la partita, si va a bere una birra con amici ed avversari, quel che è capitato in campo è finito e, soprattutto, la partita è finita e basta.

Io non amo il popolo inglese per una serie di ragioni che sarebbe lungo ed inutile ricordare qui, ma lo rispetto profondamente. La cultura sportiva di questo paese deve essere di esempio per un paese come il nostro.

La cultura sportiva è in realtà riflesso di una cultura sociale e civile che agli inglesi certo non manca.

Noi, popolo appassionato, umano, pieno di slanci di generosità, non siamo nemmeno capaci di “pensare” un campo da calcio senza recinzioni, una polizia senz’armi, una rivalità politica senza scontri personali, un leader politico senza scorta, una manifestazione senza servizio d’ordine, un concorso senza raccomandazione, una politica senza interessi o carrierismo, un’ammirazione senza adulazione, una cultura del saper perdere, una partecipazione a qualsiasi evento senza prima calcolare quale sia il carro più promettente.

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Ecco quanto mi allontana da Charles e quanto, per paradosso, lo sento tanto simile a me.

Infine, sia detto per inciso, Charles mi riporta ai miei anni di infanzia: non andavo a vedere le partite allo stadio che molto di rado. Non ricordo di aver visto giocare Charles e nemmeno Sivori anche se devo averli visti perché quando la Juve arrivava a Mantova, mio zio mi accompagnava a vederla. Ma ero molto piccolo e i ricordi si fanno molto sbiaditi: mi ricordo di aver visto Suarez e Mazzola a Ferrara contro la Spal, ricordo di aver ammirato a Mantova il Milan di Rocco con Altafini, Rivera e Dino Sani che credo giocasse una delle sue prime partite in Italia quel giorno.

Risultato immagine per John Charles Juventus

Ricordo invece una sfida tremenda con il Real di Alfredo Di Stefano, la “Saeta rubia” del Real Madrid: un fenomeno autentico, all’altezza di Maradona e Pelé. Ma ricordo anche le botte che prendemmo. Perdemmo in casa, ma riuscimmo a vincere a Madrid. Si dovette giocare una “bella” in campo neutro e fummo sconfitti.

“Ciars” pronunciava mio zio e quando lo diceva gli si illuminavano gli occhi. A chi non poteva piacere un vero campione, un signore autentico, un gentleman fuori e dentro lo stadio?

Risultato immagine per John Charles Juventus

L’immagine di un calcio che non c’è più; un calcio cioè senza sponsor, senza le pay tv o le pay per view, senza i procuratori, senza le vagonate di miliardi che finiscono nelle tasche di baldi giovanotti contro ogni senso della misura, ogni regola di equilibrio, ogni limite.

Ogni tanto big John veniva a Torino per una rimpatriata con gli amici d’un tempo: il passo sempre più pesante, i chili in più, l’occhio lento e moscio per qualche bevuta di troppo; ma il sorriso era quello, l’italiano sempre stentato e l’amicizia vera, di quelle che resistono a tutto, anche alla prova del tempo.

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Mi ha fatto molto piacere sentire da Boniperti e da Umberto Agnelli le espressioni di ammirazione e di sincero rimpianto: vorrei che nella sede torinese dei bianconeri ci fosse una targa, un busto che lo ricordi e vorrei anche che quella targa fosse affissa nello spogliatoio, con la sua foto e una dedica: “A John Charles, gallese bianconero, con gratitudine e rimpianto la tua Juventus”.

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22/2/2004

Datemi

 

Mamma e Papà, che tenerezza nel vostro sguardo! In realtà, non vi ho mai perso: voi continuate ad essere dentro di me, sempre.

Datemi ancora per qualche ora quelle sere d’estate di quando avevo sedici anni, quel pomeriggio a Mantova accompagnato da mio padre a vedere i risultati scolastici e scoprire che ero stato promosso, quella terrazza aperta d’estate in città, quei pomeriggi estivi trascorsi con mio cugino Bruno, col povero zio Giancarlo e il mio povero papà.

Una delle ultime immagini di mamma e papà con Manu. E’ una domenica, appena usciti dalla Messa e davanti alla Chiesa.

   Ridatemi quelle sere passate in oratorio giocando a ping pong, costruendo un giornalino, quelle interminabili partite di calcio sul campetto.

Ridatemi, anche se per un giorno, la serenità di tornare a casa verso sera, sudato, stanco e trovare mia madre che mi chiedeva di lavarmi e sbrigarmi che la cena era quasi pronta.

Gael con mamma e papà.

 Ridatemi le sere trascorse al cinema estivo, le chiacchierate al bar con gli amici.

Ridatemi le prime emozioni nello scoprire l’universo femminile, il mio cuore pulsare all’impazzata, le pazzie per sperare di far breccia. I pomeriggi a Po, il ritorno in bicicletta fra la vegetazione alta, l’odore dell’acqua stagnante, il sole di luglio, la calma assonnata di un paesino della bassa mantovana, i negozi di barbiere da cui si sentiva la radio gracchiare le fasi conclusive del Tour de France, il profumo delle lozioni dopobarba e per capelli.

Gael e Manu a San Benedetto, aprile 2015.

 Datemi ancora una mezz’ora per ritrovarmi, ragazzino, un pomeriggio mentre ascoltavo la sigla di BALLATE CON NOI, “Delicado”, alla radio, con mia zia e mia madre vicine intente a cucire e rammendare. 

Datemi ancora per qualche momento la visione di un mondo sereno, dei miei genitori che cantavano assieme brani d’opera lirica, le speranze di una vita ancora da vivere, il domani, pieno di possibili piaceri e gioiose sorprese.

Tramonto sul Po, dalle mie parti. Le lunghe passeggiate accanto alla sua riva mi hanno aiutato a riflettere.

 Datemi l’energia vitale di quei giorni, a voglia instancabile di uscire, giocare con gli amici, parlare con loro di tutto. 

Datemi ancora una giornata da trascorrere assieme a mamma e papà; magari per fare una passeggiata assieme, sull’argine del Po. Mio papà, un po’ taciturno ma sempre pronto con una battuta a saldare una tenera unione fatta di rispetto ed amore. Mia mamma, con qualche sua domanda sulla mia fede, sulla mia situazione affettiva, sul mio lavoro, pronta a confortarmi e, all’occorrenza, ammonirmi sui pericoli di mancare la mia vita eterna.

Vista dall’argine del Po. Un paesino, una fuga di case.

 E pensare che ora sono loro ad essersela guadagnata con una vita di rinunce, fatta di semplicità e sobrietà, i valori che, poi, alla fine, contano e tutto il resto sono chiacchiere, vanità, piccole e grandi miserie.

Una processione di pini sotto un cielo chiazzato di nuvole, una stradina che scompare in lontananza. Non so dove siamo. Ma è una foto che è come una metafora della vita.

 Certo, lo so bene che ero pieno di ansie e paure, di complessi e fobie. Ancora non capisco come ho fatto a superare gli esami di maturità, data l’idiosincrasia per la matematica. Gioivo tanto, ma ero come prigioniero di complessi che mi impedivano di comportarmi come tanti amici miei. In loro notavo una sicurezza che io non avevo, una disinvoltura che invidiavo.

Non sopportavo i rimproveri, l’essere messo in secondo piano, il sentirmi inferiore intellettualmente agli altri. Mascheravo con una falsa modestia una rabbia impotente che facevo fatica a dominare. Non volevo propormi come leader per paura di essere contestato, deriso. Preferivo stare un passo indietro e bruciavo di rabbia impotente nel vedere che altri ottenevano quel che io avrei voluto.

Il Brenner Express. Venerdì alle 18 partenza da Roma. Arrivo a Ostiglia verso le 23. Papà ad attendermi. Poi a casa

 Spesso preferivo stare solo, nella mia camera, a leggere, che uscire e confrontarmi con gli altri. Spesso mi sentivo inadeguato, ingenuo e sentivo gli altri deridermi e allora mi chiudevo in me stesso e tenevo tutto dentro di me. Non avendo vissuto esperienze con l’altro sesso o relazioni mature con gli altri, quando scoprii l’amore, mi comportai da bambino, senza riflettere, accecato dal sentimento e obnubilato dalla passione. 

Malgrado queste mie debolezze, queste mancanze, questi limiti caratteriali, culturali ed intellettivi, la mia infanzia è stata, tutto sommato, felice. Felice perché sono stato amato e questo è stato il regalo più bello. Felice perché i valori autentici li ho vissuti così senza accorgermene e perché, conoscendoli, non mi è stato difficile praticarli né raggiungerli.

A Salamanca con il mio grande amico Santiago Blázquez. Un’amicizia cominciata nel 1970 a Madrid!

 La mia terra, ad un certo punto, mi stava stretta, è vero, come è logico che sia per un ragazzo che vuole scoprire il mondo. Ma sono contento perché, dopo aver scoperto gli spiragli del mondo, sono tornato alle nebbie, al grigiore atmosferico dei posti miei natali.  

Ricordo quando il venerdì pomeriggio, lasciato il lavoro, prendevo il mio treno, il Brenner Express che partiva alle 18. Quando arrivavo a Bologna, sentivo che l’aria era la mia, quella che conoscevo. Alla stazione di Ostiglia, ancora prima di scendere, vedevo un ometto, sotto la tettoia, in piedi, che mi aspettava, mio papà, il mio caro piccolo e immenso papà, di poche parole, di grande generosità, semplice, bonario, talvolta sanguigno, sempre leale e pronto ad accoglierti, da figliol prodigo ed offrirti il vitello grasso. 

Scendevo, lo abbracciavo, salivamo sulla piccola utilitaria ed arrivavamo a casa ormai a tarda ora, oltre le 23. Entravo in casa e sentivo l’odore tipico di casa mia. Ogni casa ha un suo odore. Ora che non ci sono più i miei, l’odore si sta a poco a poco perdendo ed è come se stessero per morire una seconda volta.

Laillé (Francia). 2015. William, al matrimonio di Manu e Peggy.

 

Ridatemeli quei momenti, per favore.