La mia terra

La mia terra è piatta come un biliardo. Nei pochi giorni in cui l’aria è tersa e non sporcata dall’umidità e dallo smog, è possibile scorgere a nord le prime montagne veronesi (il monte Baldo, ad esempio), ma tutto il resto è piatto, piano e la vista si perde verso l’infinito. Tuttavia, a differenza del paesaggio della Castiglia, così come scrive Unamuno, il cielo non è così terso ed azzurro e, soprattutto il paesaggio nostro non è arido e secco. La nostra è una terra grassa, fertile, e le tentazioni “terrene” qui si mescolano con la sanguignità della gente. E’ una terra piatta che non è quasi mai banale. Il nostro Po è come una linfa vitale che irrora i nostri campi e dona loro un’energia che, sopita durante i lunghi inverni freddi, si sprigiona poderosa ed innerva sapientemente le nostre zolle che lentamente sciolgono la loro durezza e diventano poco a poco ora tenere e sabbiose, ora riluttanti, svelano la loro intima essenza argillosa.

Non è mai banale, perché qui secoli di storia hanno visto interminabili file di instancabili braccianti modellare intere aree, erigere argini maestosi, scavare canali irrigui, dissodare ettari di terre vergini, drenare immense distese paludose rendendo alla fine questa terra una delle più fertili al mondo e un autentico Eden di “nourritures terrestres” i cui frutti sono vanto per l’intero orbe.

Qui era terra di teste matte, originali e geniali, di passatori cortesi, di capipopolo ardenti, di corridori, piloti, scrittori, poeti, meccanici intraprendenti, gaudenti prigionieri delle loro passioni, schiavi del lavoro, eccetera eccetera.

Da qui partirono i miei avi, conterranei, per recarsi a Roma: Virgilio, in primis e poi tanti altri.

In una terra divenuta troppo stretta, Roma diventava l’emblema del mondo. Florestano Vancini, quando gira “Le stagioni del nostro amore”,immagina il ritorno alla propria terra come un ritorno all’autenticità, alle proprie radici, quelle che non possono tradire, quelle che rimangono i punti di riferimento del nostro essere, così come accade con Bevilacqua quando immagina il ritorno del protagonista di “Questa specie d’amore” nella terra parmense, e così come, ma solo per certi aspetti, Bertolucci ne “La Strategia del ragno”.

L’autenticità è un po’ la faccia nobile della dignità. Io sono fiero di essere nato qui, in un paesino della bassa padana mantovana e sono quello che sono grazie a quel che ho ricevuto e vissuto qui.

Le nostre estati sono ricordi di un’età dell’oro. Nei nostri ricordi, il cielo è sempre stato azzurro, i colori vivaci, le case pulite, le persone amabili. Abbiamo scacciato i brutti ricordi e le dolorose esperienze e i nostri genitori sono qui davanti a noi e ci sorridono.

I nostri inverni sono grigi, freddissimi, colmi di neve e nebbia, ma all’interno delle case, il tepore della stufa, l’odore del cibo, il profumo del bucato appena lavato ed asciugato, la fragranza del pane fresco e caldo, il rosso rutilante della salsiccia umida e trasudante grasso e il giallo corposo della polenta appena rovesciata sull’asse di legno accanto al camino o alla stufa. In camera da letto, il freddo intenso veniva mitigato dal benessere che invadeva il nostro corpo appena sotto le coperte, entro cui era stato sistemato uno scaldino che accoglieva le braci.

Ricordo le case coloniche d’estate, con le aie assolate e lucenti, i muri con le finestre socchiuse per impedire l’assalto del sole. Tutto mi è familiare e tutto mi dà una sensazione di benessere e di pace. Quelle case le ho visitate, ho bevuto il vino forte di quelle viti, ho stretto le mani grosse e poderose dei loro abitanti, ho mangiato il pane e salame offertimi, ho scambiato impressioni e pareri con loro.

A questo proposito, sento l’impulso di ricordare quegli straordinari versi di Antonio Machado:

[…]Y no conocen la prisa /ni aun en los dias de fiesta/Donde hay vino beben vino/donde no hay vino agua fresca/Son buenas gentes que viven/laboran, pasan y sueñan/y en un dia como tantos/ descansan bajo la tierra.

Rivedo gli attrezzi agricoli, sento il muggito di file ordinate di mucche scandito dallo sferragliare delle catene, i vecchi intabarrati nelle sere d’inverno avvolti in una nuvola di fumo del loro toscano. Sento il freddo umido e pungente della nebbia di gennaio, l’incenso della chiesa durante il vespro domenicale, il fumo acre e fastidioso delle osterie, il crepitio dei ciocchi nel camino, l’odore pulito della notte, il profumo pesante dei calendarietti del barbiere sotto Natale, le budella dei maiali lavate da mio zio dentro una bacinella che ammorbavano la cucina per tutta la sera, il tepore del letto che mi accoglieva bambino nella mia stanza gelida.

 

Rieccomi bambino che, durante la piena del 1951, accompagnato da alcuni familiari sull’argine, metto la manina nell’acqua, una distesa immensa, minacciosa e terribile che in me risvegliava solo curiosità.

Rieccomi chierichetto che, alle 6 di mattino, percorre i campi nel mese di maggio assieme al parroco e a due file di fedeli per recitare le “rogazioni” (A peste, fame et bello, libera nos Domine. Ut fructus terrae dare et conservare digneris, te rogamus audi nos).E alla fine, uno spuntino presso una casa in piena campagna, a base di pane, salame e vino rosso di quello buono.

I campi, la campagna, “li cavdagni”, le bestie nella stalla, il foraggio, l’irrigazione, l’aratura, la semina e il raccolto. Cos’è cambiato dai tempi di Virgilio? Tanto, certo. In termini materiali, forse. Della mentalità contadina antica molto è invece rimasto: l’accumulo, l’acquisto di altra terra, il lavoro duro, continuo. In termini sociali, molto è cambiato: ora gli agricoltori possiedono la propria terra, anche se la vecchia mentalità impedisce in buona parte di usufruire degli agi e delle comodità cosiddette superflue. Il vecchio contadino può essere anche giovane, ma i vecchi vizi, le vecchie tradizioni e spesso superstizioni e pregiudizi, sono duri a morire.

 

Ora, la mia terra è una specie di oasi pacifica che cammina in un mondo che corre. I giovani trovano lavoro in città, oppure a Milano, oppure ancora molto più lontano. Portano la loro mentalità là dove vanno a vivere ma più spesso assorbono quella di fuori e, tornando nella loro terra, sempre meno sopportano il nostro vecchio stile di vita. Forse hanno ragione loro. Forse non siamo più all’altezza dei tempi. Forse puzziamo troppo di campagna, di superato, di vecchio. Tuttavia, quando mi trovo sull’argine che costeggia il Po e vedo, da lontano, il nostro campanile e i tetti, penso all’immane fatica di chi ha eretto quegli argini, rendendo più abitabile il nostro paese, ai sacrifici, alle privazioni di coloro che, generazione dopo generazione, hanno edificato Sustinente e tutti i villaggi della Bassa, di chi, senza poter ricevere un’istruzione adeguata, senza risorse, spesso umiliati e offesi, sono riusciti a vivere onestamente, dignitosamente, decorosamente, dando a noi tutti la possibilità di vivere in prosperità e nel pieno dei nostri diritti di cittadini liberi.

 

E, a volte, quando mi trovo tra estranei, o addirittura all’estero, non esito a rispondere, quando mi viene chiesto di dove sono, “Sono italiano, nato in un piccolo paese della provincia di Mantova, Nord Italia, di nome Sustinente” e ne vado fiero.