Spleen d’autunno

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L’arrivo dell’autunno induce a coltivare pensieri e situazioni di raccoglimento, di riflessioni sulla fine di una torrida estate e sul bisogno di tornare in se stessi, a casa propria, di chiudere le porte e apprestarsi a vivere un lungo inverno. Spesso, il ritorno a casa non è il semplice rincasare, ma il vero e proprio ritorno, per chi si è trasferito altrove, ai luoghi della propria infanzia.

Perché, ad un certo punto della vita, da parte di molti si ritorna a casa? Che cosa ci spinge tornare sui nostri passi, rinnegando, per certi versi, una fase della nostra vita? E’ forse la constatazione della nostra insoddisfazione del presente, oppure è quello strano malessere che ci prende quando ricordiamo la nostra giovinezza, le nostre speranze, i ricordi, i momenti, i paesaggi, i nostri cari, gli amici ecc.?

Ricordate Michael Sheen, nel ruolo del “pedante” Paul, in MIDNIGHT IN PARIS? All’inizio del film, riferendosi al desiderio di Gil, il protagonista, di vivere, se potesse, nella Parigi degli anni ‘20, dice :”La nostalgia è negazione, negazione di un presente infelice”.

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Gil è uno sceneggiatore che vorrebbe scrivere un romanzo. Per sbarcare il lunario, gestisce un negozio-nostalgia (dove di vendono vecchi oggetti, cimeli, merce il cui solo valore è quello di riferirsi a un’epoca ormai trascorsa). Il giovane è scontento della società e del mondo in cui vive. Vorrebbe vivere in un’altra epoca, come ad esempio, nella Parigi degli anni ’20. In effetti, succede che la scontentezza del presente spinga certe persone a sognare un passato trascorso nella (falsa) illusione che in quel passato, tutto fosse migliore.

E’ insomma l’insoddisfazione del “qui e ora” e l’esaltazione di un tempo che fu.

L’uomo, essere razionale, cerca la propria felicità, ma le convenzioni sociali, le regole del vivere civile, i tabù socio-religiosi e i vincoli della propria coscienza lo obbligano a compiere delle scelte che rarissimamente gli consentono di raggiungerla. L’incapacità di raggiungerla genera uno stato di perenne disagio che, spesso, lo spinge a rompere determinati schemi, a compiere certe trasgressioni che il più delle volte lo precipitano in Risultato immagine per Midnight in Parisuna situazione ancora peggiore.

 

In altre persone invece, come si diceva, il disagio del presente spinge molte persone a cercare altrove il luogo della possibile felicità. Si sopravvaluta allora la propria gioventù, esaltandone i momenti felici e tacendone (alla propria coscienza) gli inevitabili aspetti negativi. Oppure ci si rifugia in una presupposta “età dell’oro”, un’epoca cioè in cui le condizioni dell’umanità erano molto migliori, pur sapendo, a mente fredda, che la realtà è molto diversa.

Sono atteggiamenti, questi, presenti da sempre, anche in personalità artistiche di rilievo e che, descritti in modo letterariamente assai accattivante, hanno dato luogo a grandi opere ed hanno pure influito sulle nostre menti e sulle nostre fantasie. Quando non è inquinato da sciocca esaltazione del passato e da un rifiuto irrazionale del presente, il tema del ritorno al passato è seducente e spesso porta a riscoprire valori autentici che con l’andare del tempo si sono diluiti oppure sono del tutto svaniti.

A questo proposito andrebbero riscoperti alcuni film fra gli anni ‘60 e ’70 cRisultato immagine per Le stagioni del nostro amorehe ripropongono, sotto diverse angolature, il tema del ritorno a casa.

 

Prendiamo LE STAGIONI DEL NOSTRO AMORE(1966). Florestano Vancini, regista diseguale ma capace di ottime prove come ad esempio LA LUNGA NOTTE DEL 43, disegna il profilo di un ex-partigiano, Vittorio Borghi, intellettuale di sinistra, che, trasferitosi a Roma,scosso dal fallimento del suo matrimonio e dall’insoddisfacente relazione con una ragazza molto più giovane, si ritrova a ripercorrere criticamente la sua vita. Decide così di ritornare nel luogo dov’è nato e cioè Mantova.

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Ricordi lontani, alcuni dei quali nitidi e altri più sfocati, si affollano e si ripropongono. Ma, come qualcuno ha scritto, non si dovrebbe mai ritornare nei luoghi dove si è stati felici. La delusione è sempre dietro l’angolo, poiché quei momenti di felicità hanno lasciato il posto a un presente banale, dove tutto è cambiato e nulla è e mai sarà come prima. Morandini scrive che “il film spinge fino al grottesco la critica ai cedimenti morali e politici della sinistra, in una chiave viziata da auto-indulgenti concessioni ai tormenti interiori”. E’ una posizione, a parer mio, ingenerosa e alquanto discutibile. Per una certa critica “allineata”, un ex-partigiano e uomo di sinistra, deve essere per forza condannato a vivere una militanza che prescinda dalle ragioni dei sentimenti, come una gabbia che lo renda insensibile ai tormenti Risultato immagine per Le stagioni del nostro amoreinteriori e totalmente dedito all’idea e alla causa.

 

In quegli anni, cominciava in effetti ad affacciarsi una certa deriva piccolo-borghese nella sinistra, là dove per piccolo-borghese si intendevano appunto “i cedimenti morali e politici” che vanno intesi i primi come comportamenti sessuali non in linea con la rigida ortodossia e i secondi come apertura verso ambienti politici di centro (certi ambienti della Democrazia Cristiana e del PSDI (ricordiamo che appunto in quegli anni si parla di “svolta a sinistra” da parte della DC, che sfocerà poi nel “compromesso storico”.

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Va ricordato che la fine degli anni’60 segna il raggiungimento della piena maturità per coloro che, nati negli anni’20, hanno combattuto nel movimento partigiano e ora ricoprono posti più o meno importanti nella società. La Resistenza diventa, in registi come Vancini, ma non solo, come vedremo, elemento fondamentale discriminante tra chi l’ha fatta e chi l’ha combattuta. La Resistenza va intesa quindi non solo come ricordo di gioventù (per evitare appunto di cadere nel pericolo dei tormenti interiori così piccolo-borghesi), ma come spunto per rivitalizzare le proprie convinzioni politiche e sociali e ritornare alla lotta.

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Quando Borghi, deluso anche dai luoghi della sua gioventù(che invece di rinfocolare in lui il fuoco sacro dell’impegno sociale lo prostrano ancora di più), perde il controllo e urla scompostamente tutta la sua disperazione, non è più l’intellettuale militante di sinistra, ma un piccolo borghese che sfoga il suo tormento per banali questioni sentimentali.

Visto da altra angolatura, Borghi è un uomo che sta vivendo una difficile crisi esistenziale e di identità. Nella speranza di ritrovare entusiasmo ed energia, ritorna nei luoghi della propria gioventù, con il risultato di bruciare anche quel piccolo lembo della propria vita ritenuto intoccabile e puro.

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Il finale di LA LUNGA NOTTE DEL ’43 sembra essere una conferma. Il ritorno di Franco Villani a Ferrara, dove è nato e da cui è fuggito durante la guerra, si rivela quanto mai deludente. La guerra è ormai finita da quasi quindici anni; Franco si è nel frattempo sposato, abita all’estero e ritorna a Ferrara per visitare i luoghi che lo hanno visto crescere e rivedere magari qualche conoscente. Chi lo riconosce è invece proprio colui che si è reso responsabile di un atroce delitto. Era infatti un caporione del fascio di Ferrara che, in epoca repubblichina, scontento per la piega moderata che stanno prendendo le cose, decide di eliminare il federale Bolognesi (nella realtà si chiamava Ghisellini)e addossare la colpa ai partigiani. Quest’atto criminale provocherà la reazione bestiale dei fascisti che fucileranno, per rappresaglia, alcuni noti oppositori del regime, tra cui anche il padre di FRisultato immagine per La lunga notte del '43ranco.

 

La vita sembra prendersi quindi gioco di Franco, proponendogli un’Italia ormai lontana anche mentalmente da quegli anni ed interessata più che altro all’esito di una partita di calcio trasmessa alla tv.

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Il ritorno a casa quindi, per Vancini, rappresenta il luogo della delusione, del tradimento del ricordo, della fine delle illusioni.

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Un discorso apparentemente simile sembra essere quello di Alberto Bevilacqua nel film QUESTA SPECIE D’AMORE (1972). Anche qui il protagonista, Federico, ha lasciato la sua terra (Parma) per recarsi a Roma, dove sposa la figlia di un ricco uomo d’affari romano e va a vivere con lei nella di lui sontuosa villa. Un discreto successo personale non gli evita di muovere una cruda analisi della propria vita coniugale e sociale. Il rapporto con Giovanna, sua moglie, è ormai stanca routine; ha accettato compromessi di varia natura che poco a poco hanno eroso la fiducia in se stesso, la sua dignità. Suo padre viene un giorno a trovarlo. La sua presenza lo mette in piena crisi. In effetti, la sua integrità morale (ex-partigiano, incarcerato e messo al confino, comunista “duro e puro”, mette a nudo le Risultato immagine per questa specie d'amoremanchevolezze del figlio.

 

Il ritorno di Federico a Parma diventa la ricerca delle radici solide, genuine che sono state alla base della sua formazione e che ora vorrebbe ritrovare per rifondarsi, per rifondare la sua vita.

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A differenza del deludente esito del ritorno a Mantova di Borghi, Federico sembra ritrovare il senso da dare alla sua vita, riscoprire i valori che poco a poco si erano persi. Sua moglie, contro ogni aspettativa, sembra sinceramente conquistata dalla nuova figura che suo marito sta poco a poco riacquistando. Abituata alla vanità, all’effimero, alla vacuità sostanziale della sua vita, constata che il senso della vita lo danno i valori elementari ma al tempo stesso autentici: l’incontro con la madre di Federico la convince definitivamente. Quanto a Federico, dopo aver reagito a una vigliaccata compiuta da alcuni giovinastri nei confronti di suo padre, riceve da lui il regalo più bello: la sua commossa gratitudine, segno di una riconquistata dignità.

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Al di là del valore del film, forse un tantino sbilanciato sul piano retorico, il tema del ritorno a casa assume quindi i connotati positivi della ritrovata dignità.

Questi due film rappresentano un punto di riferimento fondamentale per interpretare il senso del ritorno.

Il ritorno a casa va insomma interpretato non come banale e sterile desiderio di ritrovare i propri cari, i vecchi amici, i paesaggi, gli usi e costumi. Il ritorno a casa vale come riscoperta dei veri valori fondanti. E nel nostro Paese i veri valori fondanti sono, per la nostra cinematografia, quelli legati alla lotta anti-fascista, alla riconquista della libertà e della propria dignità personale e nazionale.

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Se in Vancini quei valori si sono ormai perduti, in Bevilacqua essi ancora rappresentano la possibilità del riscatto morale.

Il “riflusso”, e cioè quella particolare temperie che prende il sopravvento sulla realtà socio-politica del nostro Paese soprattutto a partire dagli anni ’80, con l’arrivo del craxismo, spegnerà le speranze (o illusioni?) di un’intera generazione, chiudendo definitivamente la partita con l’eredità della Resistenza. Oggi, il ritorno a casa dei nostri giovani è sempre più spesso il mesto ricorso al patrimonio familiare, intaccato da politiche dissennate e lascito materiale di una generazione che ha costruito con fatica e speranza risorse importanti, favorite da un clima di ritrovata libertà e di conseguente euforia.

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Speranze che ora sembrano foglie d’autunno.

 

Attualità di Dino Risi

 

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Parlare di Dino Risi oggi, con la crisi che il nostro Paese sta attraversando, si finisce spesso per parlare del presente, più che del passato, tale è l’attualità del suo cinema e indovinata l’analisi che egli faceva degli italiani. Scrittori e giornalisti come Longanesi, Montanelli e Prezzolini hanno espresso molto efficacemente per iscritto quello che Risi ha magistralmente mostrato per immagini. Non c’è bisogno di scomodare trattati di sociologia, acute analisi di politologi, politici e sociologi. Forse è sufficiente analizzare la produzione cinematografica di Dino Risi (soprattutto quella che va a metà degli anni ’60 che personalmente ritengo la migliore) per capire di che pasta sono fatti gli iRisultato immagine per Dino Risitaliani.

 

La dote straordinaria di Risi è quella di raccontare vizi, virtù e difetti dell’italiano medio utilizzando l’arma sottile dell’ironia, il registro popolare, l’apparente analisi di grana grossa per esprimere opinioni che potrebbero suonare come superficiali, ma che rischiano invece seriamente di essere molto vicine al vero.

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Il difetto maggiore e il rischio, in tanti registi della commedia all’italiana, è di semplificare troppo le cose, riducendo le analisi a pura farsa e quindi a una sostanziale mistificazione della realtà. Spesso si assiste al gusto per la comicità di bassa lega, per la banalizzazione dei veri problemi sociali. I protagonisti rappresentano tipologie eccessivamente caratterizzate e tendenti al grottesco. Questo mortifica l’acutezza e la serietà dell’analisi ma, probabilmente, risponde alla logica di mercato per cui certi messaggi “sociali” vengono digeriti meglio se propinati con il trucco della comicità crassa, di bassa lega, capace di dilettare le masse ignoranti, bacino formidabile per il botteghino.

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Risi riesce a situarsi efficacemente in una zona di precario equilibrio fra il serio e il faceto, fra dramma e avanspettacolo, fra satira graffiante e farsa pecoreccia, fra ritratto psicologico e trite chiacchiere da bar sport.

Equilibrio precario perché anch’egli, a volte, e soprattutto a partire dagli anni’70, sembra aver smarrito la vena e il talento ed essersi arreso al disimpegno e al “mestiere”.

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Errore grave sarebbe quello di studiare Risi come severo e austero analista sociale e politico. Risi resta, essenzialmente, regista di temi importanti ma trattati in modo “leggero”. Il tema dell’adulterio diventa quello delle “corna”, l’ambizione nobile diventa misero sotterfugio, la rispettabilità è troppo spesso ipocrisia, i valori spesso sono contenitori vuoti sostituiti da vanità, spirito truffaldino, miseria morale ecc.

L’attualità di Risi sta nel mettere a nudo i difetti di sempre dell’italiano e nel costruire ritratti psicologici plausibili, verosimili (anche se un po’ sbilanciati verso il tratto grottesco).

Rifuggendo dalla seriosità paludata (che lascia volentieri ai “professori”), trova il suo ambiente congeniale nella satira popolare e “cattiva”, dove si sottolineano volentieri i tic, le manchevolezze, le debolezze degli italiani. Quello che la carità cristiana imporrebbe di nascondere o sottacere, egli te lo sbatte in faccia, quasi oscenamente, condendolo con la fine ironia o l’acre sapore della verità nuda e cruda.

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Davanti alla processione quotidiana di squallidi personaggi corruttori, corrotti, truffatori, che oggi affollano le nostre tv, capaci di mentire spudoratamente davanti all’evidenza, viene spontaneo pensare ai ritratti di Risi e domandarsi quale possa essere una base più adeguata di questa per un soggetto dei suoi.

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Risi, come si è detto, non fa critica sociale e men che meno politica, almeno in modo diretto. Però i suoi personaggi sono inseriti in un contesto sociale ben definito con cui interagiscono continuamente (pensiamo a IL SORPASSO). A volte, tale contesto sembra apparentemente e/o volutamente sfuocato, ma i comportamenti dei personaggi rimandano a una società di cui tali comportamenti sono netta conseguenza, chiara derivazione (è il caso, tra gli altri, di L’OMBRELLONE). Il film che intendo trattare qui è forse quello più lontano da digressioni o accenni sociali, tanto è caratterizzato il suo protagonista, Walter Chiari.

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Il fatto che soggetto e sceneggiatura siano opera di Castellano e Pipolo, notoriamente avulsi da un cinema d’impegno, potrebbe essere una risposta. Ma credo che a Risi interessasse il personaggio in sé, senza altre implicazioni che quelle propriamente legate alla sua sfera di relazioni.

La scelta di Walter Chiari, attore debordante, logorroico e vitalmente esplosivo, risponde ad un desiderio di tratteggiare un personaggio che non fa parte di un universo sociale preciso, ma è presente sotto ogni latitudine o periodo temporale. E’ un uomo psicologicamente immaturo, incapace di assumere impegni duraturi e responsabilità di qualsiasi genere. E’ insomma un “bambino” mai cresciuto. Ma, al tempo stesso, è dotato di grande generosità, di forte umanità e simpatia contagiosa. E’ uomo che seduce all’inizio per poi deludere immancabilmente.

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Risi lo ricorda con parole di grande affetto: “Un caro ragazzo, anche quando era quasi vecchio. Amico di tutti, e amico veramente. Sempre innamorato di donne bellissime, le seduceva (uno dei segreti dei grandi seduttori) facendole ridere. Capace di lasciare un film per raggiungere la donna amata all’altro capo del mondo. Generoso (morì povero). Voleva che fosse scritto sulla sua tomba “Non preoccupatevi. E’ solo sonno arretrato”.Caro Walter. Parlava, parlava, parlava. Nella vita e sulla scena. E, a differenza di tanti che parlano, parlano, parlano, diceva anche delle cose intelligenti. Adesso sta lassù (o laggiù) nel girone dei comici (…).

Le caratteristiche dell’uomo Chiari si combinano alla perfezione con il suo personaggio. Forse per questo motivo, questa è la sua migliore interpretazione cinematografica (assieme a quella del simpatico truffaldino in BELLISSIMA).

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UNA STORIA SEMPLICE E TRISTE

Il titolo è dato dalla giornata in cui Dino Versini (Walter Chari)potrà trascorrere col suo figlioletto Robertino, nato dall’unione con Elsa (Michèle Mercier) da cui è separato.

Da anni Dino e Robertino non si vedono. La madre ora vive più all’estero che in Italia e si è assicurata una posizione agiata. E’ fredda, scostante con il suo ex-marito e il modo in cui educa Robertino, affidandolo ad un’istitutrice oltremodo glaciale e severa, fa pensare che si tratti di donna calcolatrice, poco espansiva e amorevole.

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Dino, nel frattempo, vive la sua vita nel solito modo, attraverso espedienti, impicci vari, senza mai decidersi a cercare un posto fisso né a stabilire una relazione affettiva seria con la sua ragazza.

L’entusiasmo però con cui si prepara a trascorrere con suo figlio la giornata fa intendere che il suo sentimento filiale è quanto mai autentico. Egli però affronta questo avvenimento come sempre ha fatto, atteggiandosi a ciò che non è, facendo credere di essere un’altra persona, millantando una posizione agiata, conoscenze in alto loco, un passato bellico eroico. Al tempo stesso, non riesce a contenere la sua irrefrenabile voglia di sentirsi protagonista, anche a dispetto delle regole impostegli riguardo agli orari e alla dieta che Robertino deve seguire.

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Dopo una prima fase di diffidenza, Robertino è conquistato, sedotto (non è questa la dote principale di Dino/Walter?) dalla prorompente vitalità del padre che gli apre terreni inesplorati di vita quotidiana spensierata, di gioia di vivere, di entusiasmo ed energia vitali.

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Poco a poco, avviene che Dino, cosciente di avere raccontato un sacco di bugie al figlio e consapevole dell’amore filiale sincero verso di lui, comprende che, anche al rischio di deluderlo, deve confessargli la verità e cioè quella, triste, della propria precarietà economica e psicologica. Questo passo è un primo gradino verso la maturità. D’altro canto, l’abitudine a vivere una vita grigia, fatta di divieti, regole e studio viene in qualche modo squarciata dall’esperienza breve ma intensa vissuta col padre. Da ragazzino divenuto anzitempo uomo, compie qualche passo all’indietro, scoprendo un mondo diverso, fino ad allora sconosciuto e pieno di colori.

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Mentre la giornata volge alla fine, Dino si intristisce comprendendo che quei momenti gioiosi stanno per volgere al termine, che sta per perdere ancora una volta il suo figlioletto, che deve affrontare per l’ennesima volta la dura realtà, fatta di umiliazioni e fallimenti.

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La serata però si conclude anche con una piccola (o grande) vittoria: è riuscito a conquistare, malgrado tutto, l’affetto del figlio. Il fischio con cui Robertino risponde a quello del padre è segnale che oggi suo padre, per una volta, ha vinto.Risultato immagine per Dino Risi

Il finale è quanto mai struggente: Elsa, la sua ragazza, con cui ha avuto in giornata, un alterco (dovuto all’indecisione sua di accettare un posto fisso e di conseguenza risposarsi)lo invita a cena a casa, disposta a perdonarlo. Mentre cala la sera, Dino si avvia verso la casa di Elsa salendo per una lunga scalinata, non disdegnando di far scoppiare dei mortaretti che ha comprato per giocarci col figlio. Le tristi note di SE LE COSE STANNO COSI’ cantate da Sergio Endrigo fanno da contrappunto alla scena. Dino, forse, comincia solo ora la dura scalata della vita (resa simbolicamente dalla gradinata), ma non rinuncia del tutto al suo animo ludico-infantile (il lancio dei mortaretti). Tutto però è reso un pochino meno insopportabile dal fatto che, questa sera, anch’egli qualcosa ha vinto.

 

UN FILM MINORE?

Questo film è considerato, in genere, un film minore, per il fatto forse di trattare in modo leggero un tema, per quei tempi, non molto sentito (Non esisteva ancora il divorzio e il fatto che per stare insieme, Dino ed Elsa si riferiscano all’annullamento del precedente matrimonio è elemento forzato). La relazione tra padre e figlio rifugge poi da qualsiasi compiacimento emotivo strappalacrime e la rende invece più vera e meno costruita. Ricordo che, un film tematicamente vicino, e cioè INCOMPRESO, di Luigi Comencini, uscito tre anni dopo, non riscosse un grande successo, mentre LOVE STORY, uscito sette anni più tardi, fu un record d’incassi. Il pubblico dimostrò di gradire le sensazioni forti (spinto anche dal battage pubblicitario) e di restare tiepido di fronte a film nostrani, diretti bene, ma privi di richiami divistici e scene “forti” (Chiari e la Mercier non erano stelle di prima grandezza).

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In realtà credo che IL GIOVEDI’ non sia affatto un film minore, ma che si inserisca a pieno diritto nel novero dei migliori film di Risi per diversi motivi, del resto già segnalati.

Il primo è senza dubbio il taglio volutamente dimesso e sommesso, lontano tanto dalla roboante chiassosità spesso volgare della commedia italiana, quanto dalla moralistica descrizione di relazioni improprie, italianamente infarcita di luoghi comuni ed emozioni scontate.

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Il secondo è la capacità di Risi, aiutato dalla prestazione tanto sopra le righe quanto indovinata di Walter, di trarre da una sceneggiatura non particolarmente brillante, un prodotto degno, decoroso e intelligente.

Il film è pervaso infine da un’aria malinconica che dà il giusto spessore emotivo a una storia semplice e triste.

 

 

Ricomincio da capo

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Ovvero come trarre da un soggetto bizzarro e cervellotico un film piacevole.

Ci sono due idee pazze alla base del film: la prima è parlare della giornata della marmotta : in una cittadina americana, il 2 febbraio di ogni anno, una marmotta esce dalla sua tana: se è nuvoloso, la primavera arriverà presto; se c’è il sole, ci saranno ancora sei settimane di freddo (un po’ come la nostra candelora).

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La seconda pazza idea è quella di immaginare che a un tizio succeda la cosa più inverosimile che ci sia: svegliarsi sempre lo stesso giorno e ricordarsi del giorno prima, mentre altrettanto non succede agli altri.

Due argomenti bislacchi che non potevano non essere inseriti nel genere commedia. Aver scelto come protagonista Bill Murray è stata la scelta più indovinata. La sua compostezza, lontano dalla chiassosità e dalla banalità di tanti altri interpreti, e la sua fine ironia rendono gradevole il film al punto da indurre il National Film Registry della Biblioteca del Congresso ad inserirlo fra i film da conservare. A ragione.

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Il cinema americano ha una lunga tradizione nel riuscire a realizzare ottimi film partendo dalle idee più strampalate o fantasiose. Il segreto sta tutto nella sceneggiatura. Si tratta cioè di rendere credibile e piacevole ciò che è incredibile. Non potendolo fare (e cioè rendere credibile) nel merito, lo si fa nel metodo. Inutile ricordare qui la lunga ( ma non così tanto) serie di ottimi film tratti da premesse “impossibili”, come certe opere di Hawks ed altri, per non parlare di tante, più recenti, commedie basate sull’impossibile.

La chiave che regge il film e ne permette una lettura fluida, che non cade mai nella noia, è la parabola morale del protagonista.

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Il personaggio di Bill Murray è infatti un borioso meteorologo tv, egoista e pieno di sé, cui viene ordinato di recarsi in una cittadina per la cerimonia del “giorno della marmotta”.

Inutile qui raccontare la trama; è sufficiente ricordare che, una volta ripresosi dallo stupore per vedersi condannato a rivivere continuamente il suo primo giorno di soggiorno nella cittadina, comincia a “gestire” questa sua condanna proprio come ci si aspetterebbe, e cioè trarre profitto materiale dalle stesse esperienze che è obbligato a rivivere ogni volta.

La seconda fase è quella dell’auto-dissoluzione. Resosi conto che qualsiasi cosa realizzi, nel bene o nel male e qualsiasi cosa costruisca, sentimentale o materiale, svanirà il mattino successivo, decide di farla finita, senza tener conto che nonostante la sua morte cercata in vari modi, si troverà il mattino dopo vivo e vegeto a vivere ancora un altro e medesimo giorno della marmotta.

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La terza fase è quella morale. Vista l’inutilità di ogni sforzo, e grazie all’interesse nei confronti della sua collega di troupe, decide di dedicarsi a migliorare se stesso mettendo a frutto le sue prerogative. Si dedicherà, oltre a imparare a suonare il pianoforte e scolpire pupazzi di ghiaccio, a rendere felici gli abitanti della cittadina, impedendo eventi luttuosi e aiutando il prossimo nei modi più diversi, guadagnandosi così il favore della collega, prima risentita nei suoi confronti a causa del suo egoismo.

La commedia più folle diventa così un’operetta morale senza mai cadere nel moralismo, neanche quando tutto finisce nel più ovvio finale disneyano. In effetti, credo che il film voglia dire qualcosa di meno banale e scontato. La parabola morale del personaggio di Murray è quella dell’uomo medio di oggi, immerso nel proprio lavoro, proteso a trarre il massimo profitto, sempre e comunque, incurante di coloro che vivono attorno a lui, in guerra con se stesso e con gli altri, pervaso dall’egoismo e dall’indifferenza che sono la cifra della nostra esistenza quotidiana.

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Il tema della ripetitività dello stesso giorno simbolizza un richiamo continuo e ostinato ad un uomo che non vuole ascoltare, come un continuo bussare alla porta di qualcuno che dorme e che non intende svegliarsi. Il sonno di quest’uomo è l’incapacità di “vedere” gli altri sotto una luce diversa da quella della semplice “consumazione”. Nonostante questi richiami, l’uomo, abituato a servirsi degli altri, li usa a suo piacimento, così come all’inizio, cerca di usare la sua collega e, abituato com’è a non tener conto di altri che se stesso, non riesce a imboccare la via dell’altruismo.

Poco a poco, questi continui appelli cominciano a sgretolare la corazza che lo ricopre, a protezione della sua privacy (cattiva coscienza del suo rifiuto di aprirsi agli altri) ma anche barriera che lo divide dal mondo esterno.

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L’incubo finirà quando, indotto anche dalla semplicità ( e dal fascino)della sua collega, capirà di avere sbagliato tutto e inizierà a vedere il mondo con occhi diversi.

Come per la marmotta, si prevede un vicino arrivo della primavera.

 

Ricomincio da capo (Groundhog Day) (1993) Harold Ramis

 

 

Qualcuno verrà

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Le argomentazioni critiche più profonde, le tesi più razionali, i ragionamenti più convincenti non riusciranno a togliere la sensazione chiara, ferma e assoluta di trovarci di fronte a un film indimenticabile. Cos’è che lo rende così seducente? Come è possibile rendere straordinario un melodramma? Perché il melodramma non scada nel sentimentalismo e nel lacrimevole bisogna avere i nervi saldi, il cuore freddo e il talento di un Minnelli o di un Sirk (e,talvolta,di Negulesco), capaci cioè di coniugare perfettamente il giusto dosaggio di abilità narrativa (fluidità, assenza di tempi morti o cadute di ritmo),impatto emotivo, uso del colore e della tecnica di ripresa, talento interpretativo ecc.). Tutte cose facili da dire e difficili da realizzare.

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Il racconto fila liscio come l’olio, non ci sono intoppi, non ci assale la noia e le storie dei vari personaggi sono ben scritte e interpretate e il film sembra aver tratto giovamento dalla sceneggiatura incisiva di John Patrick e Arthur Sheekman rispetto al romanzo omonimo di James Jones.

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Il titolo del film mi pare sia tratto, ma è solo un forse, da un passo del Vangelo di San Marco, in particolare all’episodio in cui gli apostoli, tornati dalle loro predicazioni, si recano da Gesù, il quale li informa che si ritirerà, assieme a loro, in un posto solitario (altro riferimento cinematografico: il film di Nicholas Ray. Forse varrebbe la pena studiarne eventuali implicazioni) per riposare. Ma le popolazioni limitrofe e non, saputo della loro presenza accorrono e addirittura li precedono. Dopo un po’, Gesù terrà il discorso della Montagna. Questo accorrere della gente a udire il discorso e la successiva incapacità o non volontà di seguire le parole del Maestro con i fatti, sembra essere un riferimento all’attualità e, in particolare, ai comportamenti ipocriti della grande maggioranza della gente che, nei fatti, non sembra seguire per nulla gli insegnamenti che, a parole, asserisce di condividere.

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Il titolo originale, tradotto letteralmente, recita “Alcuni arrivarono di corsa” e non ha nulla a che vedere con il titolo italiano che si riferisce a un imprecisato “qualcuno  verrà”. Il titolo originale è intrinsecamente legato al senso del racconto di Jones: all’udire che il Maestro era nelle vicinanze, molti si recarono a vederlo, alcuni invece, lo fecero di corsa. Questi “alcuni”, attratti probabilmente più dai racconti di mirabolanti miracoli che dalla figura morale e religiosa del Cristo, dopo averlo ascoltato (e si tratta di una delle più grandi predicazioni di Gesù) tornarono alle loro occupazioni e la loro vita non cambiò. E’ la mentalità ottusa e ipocrita (nel film impersonata soprattutto dal fratello di Dave) di tanta parte della società anche contemporanea, più attenta alle cose materiali che ai veri valori.

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Il racconto è ambientato in una cittadina (Parkman)dell’Indiana nel 1948. Il protagonista, Dave Hirsh è un reduce che arriva in autobus in città. Non è dato sapere da dove viene ma presto si capisce perché si ferma lì. Nel libro si racconta che è uno scrittore fallito e disilluso e che a Chicago, città in cui si trovava, è stato protagonista di una rissa in preda ai fumi dell’alcol e da lì messo su una corriera. Si racconta anche che manca da Parkman, suo luogo natale, da 16 anni, che è stato in guerra e che suo fratello maggiore, Frank, lo ha fatto studiare in un convitto per studenti bisognosi, cosa che non gli ha mai perdonato.

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Dave torna a Parkman perché non sa più dove andare, anche se è l’ultimo posto dove vorrebbe abitare. Presto si capisce di che pasta è fatto suo fratello e quale ipocrisia si cela dietro la sua falsa bonomia e cordialità.

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Stringe amicizia con un giocatore d’azzardo e, tramite Frank, conosce anche sua nipote che presto prende in simpatia. Conosce anche un professore e sua figlia Gwen, insegnante, che presto si interessa a lui e non solo dal punto di vista professionale. Dave è colpito dalla maestra, ma il suo tipo di vita e di amicizie non sono gradite a Gwen, la quale, pur se manifestamente attratta da lui, lo respinge. Chi è follemente innamorata di lui è invece Ginny, una ragazza di facili costumi, ma di animo sensibile e generoso. All’inizio, Dave non pare degnarla della pur minima attenzione. Poi, colpito dall’ingenuità e dalla assoluta ed intrinseca bontà d’animo della ragazza, decide di sposarla. Un suo ex-amante e “protettore”, che ella ha lasciato, arriva in città deciso a riprendersela. Dave si trova in pericolo, ma all’ultimo istante, la pallottola destinata a lui finisce nel corpo di Ginny che muore. Dave è di nuovo solo e sempre più disilluso.

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Il film, pur se si classificò al decimo posto fra i maggiori incassi del 1958 in America, non sembrava avere le premesse per diventare uno dei film di culto della storia del cinema.

Le ragioni di questo successo non sono del tutto evidenti, ma sembra ragionevole pensare che si tratti di un film che sa muoversi a meraviglia sull’equilibrio quanto mai instabile tra il melodramma zuccheroso e superficiale e la storia tragica di personaggi credibili in perenne conflitto tra speranza e disillusione, tra illusione e fallimento.

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Potremmo pensare anche che molta parte del successo si debba alla stupenda fotografia di William Daniels ma, per quanto importante e significativa, essa è probabilmente solo un corollario.

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Forse è più accettabile la ragione della presenza di Sinatra, Martin e della McLaine. Ma ritengo più plausibile che il film abbia avuto il successo che sappiamo per l’accattivante anche se poco credibile storia d’amore fra Dave (Sinatra) e Ginny (McLaine). E’ un pò, “mutatis mutandis”, la storia di PRETTY WOMAN di Gary Marshall o UN AMORE A CINQUE STELLE di Wayne Wang: storie cioè di personaggi famosi che si invaghiscono di figure femminili socialmente “impresentabili”. Un Paese in cui ancora si racconta (e in parte si crede) la favoletta (per molti il “sogno” americano)secondo cui anche un fattorino può diventare Presidente degli Stati Uniti, è facilmente suggestionabile. “Amor omnia vincit” è un adagio per contrabbandare storielle che sembrano più suggestive che credibili: un Paese che rappresenta un modello di ineguaglianza sociale e di forte classismo, ha bisogno di credere a certe favole, se non altro per illudere ed illudersi che tutto sia possibile.

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La chiave melodrammatica si presta in modo particolare a questo tipo di messaggio: l’amore può fare miracoli e anche l’ultimo degli uomini ha diritto a sperare che la Fortuna possa dare una mano.

In realtà, la forza e il fascino di questo Paese, più che per ragioni sentimentali, è che sono il talento e una spietata determinazione, uniti troppo spesso alla mancanza assoluta di scrupoli, a proiettare personaggi venuti dal nulla nel Gotha della ricchezza e della notorietà.

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Su questa chiave di lettura, l’obiettivo (raggiunto) del film è di riuscire a far credere (attraverso gli strumenti della seduzione degli attori, del colore, del ritmo, della solidità del racconto ecc.) che l’impossibile sia reso possibile grazie alla forza dell’amore.

Ma c’è di più.

E’ chiaro che se Ginny è conquistata, nella sua ignoranza e semplicità, dal fascino della cultura e dal carattere forte ma tenero di Dave, è altrettanto chiaro che egli, ancorato alla terra da una forte zavorra di cinismo e pessimismo, è attratto da qualcuno che sembra sconvolgere tutte le sue convinzioni, frutto di decenni di fallimenti, delusioni ed umiliazioni.

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Ancora depresso per l’ennesima delusione della sua vita (il rifiuto della sua dichiarazione d’amore da parte di Gwen), trova in quest’offerta d’amore, totale, incondizionata, assoluta, una risposta sorprendente. Ciò che lo colpisce è una sfaccettatura della realtà, che improvvisamente sconvolge le sue teorie, costruite negli anni e che riteneva, da osservatore delle cose, come lo può e deve essere uno scrittore, immodificabili e definitivamente acquisite.

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Gwen è bella, intelligente e colta: ma la sua mentalità non è aperta. E’ condizionata come quegli “alcuni che arrivarono correndo” a vedere Gesù, pronti ad udirlo ma non ad ascoltarlo. Ella è imprigionata in una sfera fatta di convenzioni, pregiudizi, paure ed è incapace, per questo, di “vedere” il nuovo, di capirlo.

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Ginny, al contrario, è ignorante ed ha la semplicità dei poveri di spirito, che non conoscono e non hanno barriere culturali e ostacoli sociali da abbattere. Essi sono come i fanciulli che, essendo in qualche modo “puri”, arrivano “correndo” alla verità.

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Sposare Gwen non è un atto d’amore, ma una chiave per entrare in una sfera di conoscenza sconosciuta. E’ questo il senso ultimo dell’intera storia: la capacità di aderire a una visione “nuova” della vita, a una diversa interpretazione della realtà, contro ogni regola sociale, ogni convenzione (ecco il punto in comune con l’elemento evangelico presente nel titolo e nel libro di Jones), ogni personale tornaconto. Essere scrittori è anche e soprattutto questo.

 

Qualcuno verrà (Some Came Running) (1959) Vincente Minnelli

 

 

Pelham 123 Ostaggi in metropolitana

L’aspetto più interessante di questo film peraltro mediocre è, a mio avviso, la relazione che si instaura fra Garber (Denzel Washington), ex-dirigente della metropolitana di New York e Ryder (John Travolta), nickname di un ex operatore di Wall Street, criminale uscito da poco di galera. Anzitutto i due protagonisti: Garber qui rappresenta il buono. Il suo essere buono è in qualche modo “sporcato” dall’accusa di corruzione (ha intascato una mazzetta dai giapponesi).

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E’ stato, in attesa del processo, declassato e ora svolge funzioni di dirigente del traffico della metropolitana. Il rapporto che si stabilisce fra i due non è il normale negoziato che abitualmente si sviluppa fra un criminale che ha degli ostaggi e il negoziatore, persona avvezza a trattare in queste situazioni. Ryder è un criminale che ha deciso di non tornare più in galera ed è quindi disposto a tutto, anche ad uccidere tutto e tutti pur di ottenere il suo scopo: prendere il malloppo e lucrare l’investimento in Borsa in vista della sua azione.

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Garber è un uomo giusto che ha sbagliato, ma è deciso a riscattarsi. Ma al di là di queste considerazioni, vale la pena soffermarsi sulle ragioni di fondo dei comportamenti. Perché  Garber ha intascato la mazzetta? Per iscrivere i suoi figli alla scuola e pagare i loro studi. Questo significa che la crisi che ha investito l’America ha spezzato l’asse o uno degli assi portanti del sistema americano. Se un dirigente di impresa non è in grado di pagare gli studi ai propri figli, significa che vengono meno le strutture portanti del sistema. E se un dirigente arriva a compiere un reato pur di assicurare quello che anni fa era considerato un punto fermo della classe media americana, significa che l’imperativo morale, pilastro del comportamento del buon americano, vacilla.

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Una società opulenta, travolta da una devastante crisi economica, non si adatta al declassamento (c’è un evidente collegamento nel film tra abbassamento delle mansioni lavorative e discesa della fascia sociale) e, pur esitando, varca il solco tra lecito ed illecito. Dal canto suo, Ryder, che è un ex-trader di Wall Street e, come tale, conosce bene le distorsioni, le pecche di un sistema che permette vere e proprie nefandezze a carico di centinaia di migliaia di risparmiatori ed azionisti, “usa” quel sistema che, impunemente, toglie ricchezza a tanti e la concentra su pochi. Ryder, quindi, usa la sua competenza, il suo fiuto e, privo di ogni scrupolo morale, non esita ad uccidere pur di ottenere quel che vuole: diventare immensamente ricco, così come aveva visto diventarlo anni prima certi pescecani della finanza e dei sub-primes. In un rapporto fra due persone come Ryder e Garber serve cercare il terreno su cui confrontarsi. Ryder sceglie il terreno della verità. Abituato a vivere in una società dove si mente, dove cioè ci si arricchisce mentendo spudoratamente (eloquente è il modo con cui Ryder liquida il sindaco di New York, tipico rappresentante della politica corrotta) pretende la verità, conscio che solo la verità può aiutare a portare in porto il suo progetto.

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Garber si trova costretto a dire la verità per salvare la vita di un ostaggio, consapevole di auto-accusarsi e di andare incontro a guai giudiziari. Ryder lo ha capito e usa questo strumento per obbligare Garber a mettersi a nudo. Ora egli è assolutamente scoperto e Ryder può trattare con lui con un vantaggio. La lezione che se ne potrebbe trarre è quella secondo cui in una società dove trionfa l’illegalità spesso impunita, serve usare la legalità per stabilire rapporti affidabili. Esattamente il contrario di ciò che dovrebbe essere, dove cioè un sistema che si regge sulla legalità instaura rapporti che sconfinano nell’illecito (in politica, negli affari internazionali, nell’ordine pubblico) pur di confermare la bontà, la giustezza del sistema.

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Su Tony Scott

E’ il solito Tony Scott, buon mestierante, capace di banalizzare storie che, in mano ad altri registi più capaci (vedi il suo fratellino Ridley), sarebbero potuto diventare importanti.

 

Pelham 123 Ostaggi in metropolitana (The Taking of Pelham 123) (2009) Tony Scott

 

 

Paura senza perché

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Negli anni ’70, ci fu una rivalutazione generale della filmografia di Nicholas Ray, grazie anche all’entusiasmo della (solita) critica giovane francese. Si arrivò perfino a clamorose sconfessioni, come quella di Time Magazine che aveva bocciato il film in esame al momento della sua uscita. Oggi, Ray è un regista noto e amato dai cinefili ma poco conosciuto dai giovani. Il titolo originale IN A LONELY PLACE (Trad.:In un posto solitario), tratto da una frase del film, come al solito sostituito da uno molto stupido:PAURA SENZA PERCHE’ e rimediato poi con un altro ancora più sciocco:IL DIRITTO DI UCCIDERE, è tratto dall’omonimo romanzo di Dorothy Hughes, pubblicato tre anni prima.

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E’ la storia di uno sceneggiatore in crisi, incapace di controllare i suoi accessi di collera. Questo problema gli causa guai, gli aliena amicizie e opportunità di lavoro, gli attira i sospetti della polizia, e soprattutto gli impedisce di realizzare una relazione amorosa con una vicina cui tiene molto.

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In realtà si tratta di due storie, una è appunto la relazione con la vicina, la seconda è l’inchiesta su un omicidio di una ragazza che aveva trascorso qualche ora a casa del protagonista, Dixon Steele. Questo fatto e la sua incapacità di controllarsi sono indizi che la polizia ritiene gravi e lo mettono nella lista dei sospetti. Il film stesso, del resto, contribuisce a seminare dubbi sulla sua innocenza. Anche coloro che lo conoscono hanno dei dubbi e la stessa vicina, dopo un episodio in cui Dixon quasi stava per uccidere un automobilista accecato dalla rabbia per futili motivi, comincia ad avere paura di lui. Quando Dixon le chiede di sposarlo, ella accetta, ma solo per paura di scatenare la sua collera. Prepara la fuga, ma, quando Dixon se ne accorge, la aggredisce e sembra stia per strangolarla quando una telefonata avverte che l’omicida della ragazza è stato catturato. Ma ormai fra i due si è creato un solco incolmabile di paura e diffidenza e tutto finisce.

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Per la verità, il finale doveva andare altrimenti e cioè Steele strangolava la vicina e la polizia, discolpandolo dell’accusa della ragazza lo accusava ora di omicidio della vicina. La sceneggiatura era stata scritta anche da Ray ma non lo convinceva. Ad un certo punto, cacciò fuori tutti dal set e provò un finale con Bogart e Gloria Grahame (la vicina). Il nuovo finale (quello che tutti conosciamo) gli pareva più indovinato e così fu cambiato (non va dimenticato che Bogart era anche produttore del film, cosa che impedì a Lauren Bacall, sotto contratto alla Warner Brothers, di avere la parte di Laurel (la vicina), visto che le Majors temevano che i produttori indipendenti creassero una pericolosa concorrenza). La Bacall era da tempo unita a Bogart, mentre la Grahame, sposata con Ray, stava per separarsi e la rottura avvenne proprio durante le riprese del film e malgrado Ray l’avesse scelta per la parte di Laurel (la vicina).

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Ma, a ben vedere, il film altro non è che la storia triste di un uomo di talento incapace di controllare la sua aggressività. La sua è una vera e propria malattia di cui egli è cosciente, ma la tragedia è che non riesce a vincersi. Non si sa se questo problema sia effetto di esperienze passate in guerra, non è dato saperlo. Ciò che è evidente è che quest’uomo crea ostilità e solitudine attorno a sé. La gente gli sta alla larga, il suo lavoro ne risente. Durante i momenti di serenità, Dixon è un uomo generoso, colto e piacevole. Il suo agente è forse la sola persona che lo sopporta. Laurel, la vicina, lo conosce in uno di questi momenti di serenità e poco a poco se ne innamora. Ma al di fuori di queste persone c’è il vuoto.

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Louise Brooks, in un breve saggio apparso su SIGHT AND SOUND “Humphrey and Bogey”, vede nel carattere di Dixon molti punti in comune con l’uomo Bogart: la solitudine e l’isolarsi dal mondo esterno, il suo egoismo, l’alcolismo, una certa pigrizia squarciata qua e là da improvvisi lampi di violenza. Bogart quindi interpreta a meraviglia un ruolo che lo tocca nelle sue corde più intime e gli permette di interpretare uno dei ruoli più convincenti della sua carriera. Il film, a mio avviso, uno dei più belli di Ray, ha un ritmo coinvolgente ed è scritto magnificamente. Questo personaggio, d’animo gentile ma posseduto da un demone che scatena un’aggressività patologica, estrema, capace di distruggere ciò che più ama, è uno dei ritratti più inquietanti di questo grande attore che è Bogart. Personalità disturbata, cosciente della propria autodistruzione e sempre meno capace di impedirgli di scivolare nell’abisso, è un ruolo difficile e atipico interpretato magistralmente.

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Negli anni ’70, ci fu una rivalutazione generale della filmografia di Nicholas Ray, grazie anche all’entusiasmo della (solita) critica giovane francese. Si arrivò perfino a clamorose sconfessioni, come quella di Time Magazine che aveva bocciato il film in esame al momento della sua uscita. Oggi, Ray è un regista noto e amato dai cinefili ma poco conosciuto dai giovani. Il titolo originale IN A LONELY PLACE (Trad.:In un posto solitario), tratto da una frase del film, come al solito sostituito da uno molto stupido:PAURA SENZA PERCHE’ e rimediato poi con un altro ancora più sciocco:IL DIRITTO DI UCCIDERE, è tratto dall’omonimo romanzo di Dorothy Hughes, pubblicato tre anni prima.

E’ la storia di uno sceneggiatore in crisi, incapace di controllare i suoi accessi di collera. Questo problema gli causa guai, gli aliena amicizie e opportunità di lavoro, gli attira i sospetti della polizia, e soprattutto gli impedisce di realizzare una relazione amorosa con una vicina cui tiene molto.

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In realtà si tratta di due storie, una è appunto la relazione con la vicina, la seconda è l’inchiesta su un omicidio di una ragazza che aveva trascorso qualche ora a casa del protagonista, Dixon Steele. Questo fatto e la sua incapacità di controllarsi sono indizi che la polizia ritiene gravi e lo mettono nella lista dei sospetti. Il film stesso, del resto, contribuisce a seminare dubbi sulla sua innocenza. Anche coloro che lo conoscono hanno dei dubbi e la stessa vicina, dopo un episodio in cui Dixon quasi stava per uccidere un automobilista accecato dalla rabbia per futili motivi, comincia ad avere paura di lui. Quando Dixon le chiede di sposarlo, ella accetta, ma solo per paura di scatenare la sua collera. Prepara la fuga, ma, quando Dixon se ne accorge, la aggredisce e sembra stia per strangolarla quando una telefonata avverte che l’omicida della ragazza è stato catturato. Ma ormai fra i due si è creato un solco incolmabile di paura e diffidenza e tutto finisce.

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Per la verità, il finale doveva andare altrimenti e cioè Steele strangolava la vicina e la polizia, discolpandolo dell’accusa della ragazza lo accusava ora di omicidio della vicina. La sceneggiatura era stata scritta anche da Ray ma non lo convinceva. Ad un certo punto, cacciò fuori tutti dal set e provò un finale con Bogart e Gloria Grahame (la vicina). Il nuovo finale (quello che tutti conosciamo) gli pareva più indovinato e così fu cambiato (non va dimenticato che Bogart era anche produttore del film, cosa che impedì a Lauren Bacall, sotto contratto alla Warner Brothers, di avere la parte di Laurel (la vicina), visto che le Majors temevano che i produttori indipendenti creassero una pericolosa concorrenza). La Bacall era da tempo unita a Bogart, mentre la Grahame, sposata con Ray, stava per separarsi e la rottura avvenne proprio durante le riprese del film e malgrado Ray l’avesse scelta per la parte di Laurel (la vicina).

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Ma, a ben vedere, il film altro non è che la storia triste di un uomo di talento incapace di controllare la sua aggressività. La sua è una vera e propria malattia di cui egli è cosciente, ma la tragedia è che non riesce a vincersi. Non si sa se questo problema sia effetto di esperienze passate in guerra, non è dato saperlo. Ciò che è evidente è che quest’uomo crea ostilità e solitudine attorno a sé. La gente gli sta alla larga, il suo lavoro ne risente. Durante i momenti di serenità, Dixon è un uomo generoso, colto e piacevole. Il suo agente è forse la sola persona che lo sopporta. Laurel, la vicina, lo conosce in uno di questi momenti di serenità e poco a poco se ne innamora. Ma al di fuori di queste persone c’è il vuoto.

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Louise Brooks, in un breve saggio apparso su SIGHT AND SOUND “Humphrey and Bogey”, vede nel carattere di Dixon molti punti in comune con l’uomo Bogart: la solitudine e l’isolarsi dal mondo esterno, il suo egoismo, l’alcolismo, una certa pigrizia squarciata qua e là da improvvisi lampi di violenza. Bogart quindi interpreta a meraviglia un ruolo che lo tocca nelle sue corde più intime e gli permette di interpretare uno dei ruoli più convincenti della sua carriera. Il film, a mio avviso, uno dei più belli di Ray, ha un ritmo coinvolgente ed è scritto magnificamente. Questo personaggio, d’animo gentile ma posseduto da un demone che scatena un’aggressività patologica, estrema, capace di distruggere ciò che più ama, è uno dei ritratti più inquietanti di questo grande attore che è Bogart. Personalità disturbata, cosciente della propria autodistruzione e sempre meno capace di impedirgli di scivolare nell’abisso, è un ruolo difficile e atipico interpretato magistralmente.

https://www.bing.com/videos/search?q=youtube+in+in+a+lonely+place&&view=detail&mid=CDB996BA9FC36B8D333DCDB996BA9FC36B8D333D&&FORM=VDRVRV

http://www.bfi.org.uk/news-opinion/sight-sound-magazine/video/in-her-eyes-notes-gloria-grahame

 

 

Articoli esterni suggeriti:

 

Paura senza perché (o Il diritto di uccidere) (In a Lonely Place) (1950) Nicholas Ray

 

Paolo Villaggio o sociologia della risata tragica

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 VILLAGGIO E LA CRITICA

La critica italiana ha quasi sempre affrontato il fenomeno Villaggio-Fantozzi-Fracchia con il sussiego e l’alterigia solitamente riservati al cinema comico popolare di quart’ordine.

Solo in alcuni casi ci si è resi conto di trovarsi di fronte ad un tipo di comicità totalmente diversa da quella di bassa lega, volgare, pecoreccia che ha contraddistinto questo genere cinematografico che, in tempi meno recenti, ha nobilitato il nostro cinema al punto da imporsi all’attenzione del mondo intero.

La”commedia all’italiana”, in effetti, usa il registro comico per veicolare una critica particolarmente attenta alle contraddizioni e ai difetti del nostro Paese e, grazie alla felice combinazione di autentici talenti nella regia (in primis Dino Risi, Comencini e Monicelli), sceneggiatori (Scola, Sonego, Suso Cecchi d’Amico, Maccari, Age e Scarpelli e tanti altri ancora) e un grRisultato immagine per Fantozziuppetto di attori straordinari come Sordi, Gassman, Manfredi, Tognazzi e lo stesso Mastroianni, riesce a descrivere con il tocco lieve della commedia, un linguaggio semplice e un notevole talento, la società italiana del “boom” con tutte le sue storture, le sue false certezze, la roboante superficialità.

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Paolo Villaggio riprende, in certo modo, il testimone della “commedia all’italiana” ma la”rompe” e ne crea un genere diverso, più orientato al grottesco, al farsesco però, rispetto ad altri registi, inserisce elementi assolutamente nuovi, come la crudeltà insita nell’uomo, il grigiore dell’esistenza, un sostanziale pessimismo che riesce a fare abilmente passare in secondo piano mascherandolo con gag, con la risata, in fondo amara, che accompagna sistematicamente la sconfitta dell’uomo medio, del travet vessato, spossessato di ogni residuo di dignità, sconfitto inesorabilmente da mode trionfanti cui egli non riesce a sottrarsi e verso le quali è perennemente inadeguato.

Per creare Fantozzi, serve ovviamente una notevole vis comica, ma soprattutto grande intelligenza, impegno civile e una solida cultura.

 

TRAGICITA’

La tragedia nasce dall’impossibilità di raggiungere i propri obbiettivi e dal conseguente senso di fallimento della propria vita. Il fallimento è la morte morale dell’uomo moderno, è il licenziamento dopo decine di anni di lavoro e l’incapacità di reinserimento nel mondo produttivo e di mantenere con decoro la propria famiglia.Risultato immagine per Fantozzi

Ma è anche l’inadeguatezza rispetto alla società in cui si vive, lo iato irresolvibile tra il desiderio di sentirsi come e al pari degli altri, di quelli che hanno successo, sempre belli, profumati e fortunati e l’incapacità di realizzarlo. Fantozzi è l’uomo frustrato, lo specchio dell’italiano medio, infelice, confinato a rincorrere i sogni piccolo-borghesi di terza classe, a praticare i riti stanchi falsamente consolatori come la battuta di caccia, la corsa ciclistica, la partita di calcio fra scapoli e ammogliati e quella di tennis avvolta nella nebbia, proprio perché si risolvono nell’ennesima frustrazione, l’incapacità di vincere che si trasformerebbe in riscatto sociale.

La maschera fantozziana è quella dell’eroe moderno alla rovescia, fatta di sconfitte continue e quindi inesorabilmente, invariabilmente, tragica.

 

IMPEGNO CIVILE

Villaggio ha conosciuto e vissuto personalmente, avendo lavorato in una grande società assicurativa, le contraddizioni, le magagne, le piccole e grandi miserie, le porcherie dell’ambiente di lavoro. Ha toccato con mano l’ingiustizia di un sistema che vessa i deboli e liscia il pelo ai potenti e ha poco a poco costruito, modellato, affinato una sua visione del mondo in cui sono ben chiare le linee guida della sua ideologia ma alle quali aggiunge, con il tocco dell’artista, alcuni elementi che arricchiscono i tratti dei suoi personaggi, altrimenti ascrivibili con certo semplicismo, a una visione di sinistra della realtà .

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Tra gli elementi che arricchiscono la sua visione della realtà c’è, come si è detto, la crudeltà umana, Questa crudeltà va molto al di là della classica visione della realtà tipica della sinistra, anzi, in certo modo, si oppone al senso di “fratellanza” che accomuna gli sfruttati.

Essi si comportano fra di loro esattamente come lo fanno i potenti, all’insegna del più sfrenato egocentrismo, della corsa all’accumulo, al prestigio sociale nella totale indifferenza.verso il prossimo.

Il desiderio di assomigliare ai potenti fa adottare dei comportamenti “cannibaleschi”. Pur di farsi belli davanti a loro, si è disposti a tutto, a danneggiare, calunniare, tradire i propri colleghi.

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Ne consegue quindi un sostanziale pessimismo che finisce per non rendere più credibile o possibile la rivolta di classe, la lotta sindacale, un diverso sistema economico dove la classe lavoratrice abbia voce in capitolo e sia in grado di condizionare le scelte socio-economiche.

Se quest’impostazione, a livello teorico, corre il rischio di essere definita qualunquista, nel cinema di Villaggio acquisisce una sua legittimità, coerentemente con il registro comico. La comicità insomma permette di affrontare tematiche di un certo peso con una certa leggerezza, cospargendo il terreno popolato dalla risata e dal grottesco, di un sottile velo che inquieta lo spettore più avveduto, introducendo semi inaspettati di critica sociale.

 

L’IMPRONTA DELL’ARTISTA

C’è una scena, in uno dei suoi film più apprezzati, in cui la figlia di Fantozzi, non certo una Venere, viene derisa per la sua bruttezza dai dirigenti della ditta per cui lavora suo padre. Questi “signori” la sbeffeggiano, la chiamano scimmia, le lanciano delle noccioline e la povera bimba, umiliata, piange sconsolatamente. Arriva finalmente Fantozzi che, senza dire una parola, sRisultato immagine per Fantozzitranamente pieno di dignità, prende per mano la figlia e la porta via.

 

E’ una scena che ha il potere di scuotere lo spettatore e di insinuargli il dubbio se il film che sta vedendo sia veramente e solamente il solito film comico.

E’ stata questa scena che ha cambiato radicalmente la mia opinione su Villaggio. Questa scena è una chiave per analizzare il lato apparentemente oscuro della sua opera. Ed è quindi un’occasione per andare al di là della risata falsamente liberatoria, decifrare la critica sociale che ne è alla base e, ancor più, un’amara consapevolezza delle umane miserie, dell’abdicazione alla dignità, della stupida corsa verso gli effimeri miti della civiltà dei consumi, e la constatazione che l’uomo, nonostante secoli di pretesa civiltà, lotte e conquiste sociali, guerre e disgrazie, non ha imparato le lezioni etiche più importanti.

 

 

Oscar insanguinato

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Vincent Price ha avuto un solo torto nella sua carriera d’attore e cioè quella di aver accettato ruoli in film secondari in cui non era umanamente possibile mettere in risalto il suo indubbio talento.

Uomo di cultura, raffinato, nato a St.Louis in Louisiana,laureato a Yale, insegnante, iscritto all’Università di Londra presso la scuola di Belle Arti per ottenere un Master Degree, viene attratto dal teatro, in cui comincia la sua carriera professionale.

Vincent Price, Ian Hendry, Robert Morley, and Dennis Price in Theater of Blood (1973)

A parte i suoi ruoli nei film horror (pur se diretti in buona parte dall’ottimo Roger Corman), non manca di interpretare ruoli diversi in produzioni di qualità es.: VERTIGINE, di Otto Preminger, oppure FEMMINA FOLLE, di John Stahl). Nonostante sia universalmente noto per gli horror-films, riesce comunque a infondere nei suoi personaggi una sottile vena ironica che lo distingue per qualità dai classici caratteristi di quel genere (Bela Lugosi, Boris Karloff, Peter Cushing ecc.).

Vincent Price in Theater of Blood (1973)

In questo film, diretto da un regista di seconda classe come Douglas Hickock, Price ha l’opportunità di recitare, anche se per brevi frammenti, nei ruoli shakespeariani ambiti da ogni attore di questo nome.

Vincent Price, Diana Rigg, Harry Andrews, and Dennis Price in Theater of Blood (1973)

La trama è perlomeno curiosa. Un attore di teatro inglese non viene nominato dal Circolo dei critici come attore dell’anno, titolo cui teneva molto essendo la sua l’ultima stagione teatrale. Non solo non riceve l’onorificenza , ma viene addirittura sbeffeggiato per la sua insopportabile gigioneria (o, come si dice da noi, per i suoi birignao). Furioso, finge il suicidio e decide, sostenuto dalla figlia, di uccidere uno a uno i critici che lo hanno stroncato. Lo fa usando gli strumenti che i drammi shakespeariani prevedono per l’uccisione dei vari personaggi.

Vincent Price in The Abominable Dr. Phibes (1971)

La trama è evidentemente poco credibile, anche se l’ingegno nel realizzare gli omicidi aiuta a vincere la noia.

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Non ho visto il film nell’edizione originale, cosa che mi avrebbe permesso di apprezzare la recitazione di Price. Di una cosa però sono sicuro: il doppiaggio della sua voce, ad opera di Emilio Cigoli, è assolutamente da non perdere.

Harry Andrews, Renée Asherson, Coral Browne, Robert Coote, Jack Hawkins, Ian Hendry, Arthur Lowe, Robert Morley, Charles Sinnickson, and Madeline Smith in Theater of Blood (1973)

A mio avviso, il film si regge molto sul lavoro magistrale che il doppiatore riesce a compiere. La follia che si cela dietro la vendetta perpetrata da Edward Lionheart (Price) è un elemento che Cigoli riesce a esprimere infiltrando delle tonalità che percepiamo come disturbate in una recitazione piena di pathos e di intensità drammatica. Uno spettacolo nello spettacolo.

Vincent Price in Theater of Blood (1973)

Il cinema italiano deve a doppiatori come lui e ad altri (come Tina Lattanzi, Ferruccio Amendola, Oreste Lionello ecc.) una capacità ed un talento straordinari, tali da venire molto apprezzati dagli stessi attori da loro doppiati. Da ascoltare e riascoltare più volte l’inizio del celeberrimo discorso pronunciato da Marco Antonio in GIULIO CESARE.

Robert Morley in Theater of Blood (1973)

A volte, come questa, vale più il doppiaggio del film stesso.

 

Oscar insanguinato (Theatre of Blood)(1974) Douglas Hickox

 

 

Operazione Walchiria

 

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L’Operazione Valchiria è stato l’ultimo tentativo, da parte di un gruppo di militari, di restituire onore e dignità a un Paese militarmente in sfacelo e moralmente dannato per secoli a venire,
Il tentativo fallì e la Germania precipitò ancora di più verso un baratro difficimente colmabile. Occorreranno secoli perchè, nel mondo, si pensi alla Germania in modo neutro. Ma la storia non si cancella e l’onta dell’Olocausto, del Terrore e della vergogna resta pressochè indelebile, così come per l’Italia l’onta delle leggi razziali resterà per sempre marchio d’infamia a futura memoria. Tutto questo preambolo serve per introdurre il film e per salvarne la parte finale, che va di pari passo con il destino tragico che sta per abbattersi su quel Paese. A Tom Cruise non si addice la parte del conte Von Stauffenberg: non ne ha il senso del tragico, non ne ha il carisma.

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Hollywood lo ha imposto e Hollywood ha sbagliato. Il cinema che tratta argomenti storici richiede verità, credibilità, atmosfera, ambienti e ri-creazione profonda. Il film scivola via e non penetra. A volte, qualche lampo rischiara la narrazione e sono questi i momenti migliori. Per un film di questo genere andava approfondito l’aspetto psicologico, il terribile dilemma della fedeltà (s)comoda o del tradimento giusto. Di questo c’è poca traccia. Un dilemma di quel genere era sufficiente per riempire un film intero. Come decidere in così poco tempo per una così terribile scelta? I lampi che squarciano la notte sono pochi, come quello ad esempio delle parole dell’ufficiale che si regge i calzoni e che “condanna” il giudice che lo manderà a morte. Oppure certe occhiate, certi silenzi pieni di tormento.

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Qui il film sembra spiccare il volo, ma è solo un’impressione fugace.

Un consiglio: andarsi a rivedere Accadde il 20 luglio di George Pabst: tutta un’altra cosa…

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Su Bryan Singer

Mmm…Un regista americano che trova il successo con X-Men, chiamato a dirigere un film così? MMM…

Su Tom Cruise

Ce la mette tutta. Ma non è abbastanza.

Su Kenneth Branagh

Grigio. Anonimo. Asettico. Sprecato.

 

Operazione Valchiria (Valkyrie) (2008) Bryan Singer

 

 

 

L’ombrellone

https://www.bing.com/videos/search?q=l%27ombrellone+youtube&view=detail&mid=107F20A47AC748665690107F20A47AC748665690&FORM=VIRE

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 Film emblema di tutto uno stile, un modo di vedere la realtà quotidiana italiana. La commedia italiana difficilmente è cinema di denuncia: non si mette sotto accusa un sistema, non si analizzano le radici dei problemi, non si va a fondo nella ricerca dei motivi dei vari comportamenti, usando strumenti propri di indagine come la descrizione semi-documentaristica, il rigore filologico e sociologico, la ricerca scientifica. C’è però una commedia all’italiana, e quella di Risi in particolare, nei migliori casi, che riesce con tratti sapienti e spesso geniali, a fotografare una Nazione, a mostrarne vizi, manie, debolezze con tocchi leggeri usando lo strumento del cinismo, dell’ironia e della comicità. Nei casi meno riusciti, mancando l’ispirazione, la comicità scade a farsa e a stanca rappresentazione di realtà fittizie infarcita di luoghi comuni e volgarità.

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Nel film in questione, ci troviamo di fronte a un’opera riuscita in parte, ma interessante per il modo in cui si affrontano i soliti vizi e difetti della società italiana negli anni del “boom” (metà anni ’60). Come scenario, viene scelta una località balneare adriatica d’estate. La spiaggia è un po’ il concentrato o il crogiolo dei vari comportamenti degli italiani in vacanza. Vengono perciò create diverse tipologie che riassumono, grosso modo, l’atteggiamento dell’italiano medio : il buontempone, il play boy, l’intellettuale fasullo, la pettegola insopportabile col marito ormai vittima rassegnata, la moglie che ama essere corteggiata e il marito geloso. Il tutto condito da una miscellanea delle canzonette più in voga in quel periodo. E’ il classico film estivo senza particolari pretese.

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Il punto è che un film “disimpegnato” di Dino Risi di metà anni ’60 non è un prodotto usa e getta come certi film-panettoni o balneari attuali. C’è una dignità e un rispetto per il mestiere di regista che finiscono per dare spessore artistico anche ai film meno impegnati. Ad esempio, la figura del protagonista, l’ingegner Marletti (interpretato da un buon Enrico Maria Salerno) non è ascrivibile al gusto macchiettistico e superficiale, riservato invece agli altri personaggi. Marletti è un uomo serio, colto ed innamorato della moglie: non possiede insomma le caratteristiche dell’italiano medio bersaglio dei lazzi e delle beffe di tanto cinema italiano. Ama divertirsi ma non mescolarsi né partecipare ai vacui riti balneari, ai pettegolezzi, agli scherzi stupidi. E’ geloso della moglie ma non si comporta in modo ridicolo. Intende verificare la fedeltà della propria moglie, ma lo fa con intelligenza e con tatto. In un microcosmo essenzialmente frivolo come quello della spiaggia affollata adriatica, Marletti è l’eccezione (non fa parte del gruppo, se non episodicamente). Viene quindi da chiedersi la ragione d’esistere nel film di questo personaggio. La ragione sta forse nel richiamo che gli sceneggiatori e il regista fanno alla dignità artistica. La società italiana non è solo spiaggia, ombrelloni, mare, sole, canzonette, piadine e amorazzi svelti quanto sterili. “Vi sto dando un film per farvi divertire-sembra dire Risi- ma l’Italia non è solo questa. Ci sono persone serie che lavorano in modo serio, si sposano, amano i figli e continuano ad amare le mogli”.

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L’Italia del “boom” non è solo frutto di una fortunata coincidenza di circostanze favorevoli, ma c’è alla base una società che lavora e sacrifica. Verranno poi gli anni dello “sboom”, delle tangenti, della corruzione, dell’edonismo sfrenato e totalmente disimpegnato, intervallati da quelli di piombo. Tutto materiale adatto per un’efficace satira di costume alla Dino Risi appunto. Ma questa è un’altra storia.

 L’ombrellone (1965) Dino Risi