I bassifondi di San Francisco

 

 

Vedete, vi sono certi film che, a torto o a ragione, magari mediocri e non dei capolavori, che vi seguono, si affiancano a te per qualche mese e poi, magari, scompaiono per un po’ per poi riapparire, più smaglianti che mai. Sono i film della vita, quelli almeno della mia. Sono i film che, in un modo o nell’altro, ti segnano, ti colpiscono per qualche particolare e non ti lasciano più. Essi rimangono dentro di te e sono parte di te. Il film in questione, ormai introvabile da molto tempo (le tv e le home video lo avevano cancellato dai palinsesti o dai loro progetti), è stato pubblicato recentemente in dvd home video dalla Sinister film regalando ai suoi estimatori un dono preziosissimo.

Diciamo subito che non si tratta di un capolavoro. A mio avviso, però, è un film che non sfigura nella filmografia di Nicholas Ray. La vicenda narrata è quella di un caso giudiziario in cui un giovane viene accusato e condannato a morte per l’assassinio di un poliziotto dopo aver commesso una rapina. Il protagonista è un ottimo Humphrey Bogart e il giovane in questione è John Derek alla sua prima apparizione sullo schermo nei panni di Nick Romano.

Il valore del film sta soprattutto nel coinvolgimento sociale che è alla base dell’evoluzione delinquenziale di Romano. Una vita segnata dalla miseria, dalla frequentazione di ambienti degradati e cattive compagnie, porta Romano a delinquere in modo sempre più grave fino all’assassinio. Morton, l’avvocato, è nato pure lui nella stessa zona di San Francisco, nota come bassifondi. Egli però è riuscito a uscirne e diventare avvocato. Su Romano invece pare che la sfortuna si accanisca: il padre muore in carcere, accusato di un reato minore per il quale Morton non si è impegnato come doveva, delegando la difesa a un collega mediocre. Inizia qui una china senza fine che si conclude sulla sedia elettrica.

La conclusione sembra suggerire che se è vero che Romano è colpevole, come in effetti lo è, lo è altrettanto una società che nulla fa per migliorare le condizioni ambientali, educative e lavorative di fasce di popolazione lasciate a loro stesse. Ma la conclusione è anche un ammonimento che, fatte tutte le debite giustificazioni sociologiche, la responsabilità penale è sempre personale, pilastro, questo, di ogni costituzione appartenente a un Paese civile. Il tema sociale, elemento chiaro ed evidente, toccava un punto nevralgico nella società americana di quegli anni (del secondo dopoguerra), in cui si stava sviluppando un aspro dibattito sulle crescenti istanze sociali che, secondo le voci più reazionarie, erano fomentate a non precisate cellule comuniste che intendevano sovvertire le istituzioni democratiche americane.

Erano gli anni della famosa “caccia alle streghe”, scatenata dal senatore repubblicano McCarthy, il cui scopo era individuare, condannare ed emarginare i sobillatori comunisti da tutte i luoghi nevralgici e sensibili della nazione. Ray compie un lavoro onesto indirizzando correttamente lo spettatore verso il vero nodo del problema. La delinquenza., se non estirpata, potrebbe perlomeno essere drasticamente ridotta qualora le istituzioni prendessero coscienza del problema e attuassero politiche di risanamento sociale, sostegno alle classi meno abbienti e serio impegno educativo e professionale. Tutto questo però non sarebbe sufficiente per fare un buon film: un grande attore come Bogart potrebbe essere di aiuto, ma ciò che veramente rende questo film apprezzabile è la regia che si avvale di un un indovinatissimo e lungo flash back che non banalizza la storia e la rende anzi più avvincente e, non da ultimo, il grande lavoro di sceneggiatura di Daniel Taradash e Monks: i dialoghi sono agili, precisi e affilati come lame di coltello. davvero un ottimo lavoro che poi si esalta nell’arringa finale di Morton e nelle sconsolate parole che lo stesso pronuncia davanti ad un giudice che ha ormai deciso quale sentenza pronunciare. Un film che per me resta indimenticabile.


Su Nicholas Ray
Non è un Ray minore. In un’intervista, disse che se lo avesse potuto girare come avrebbe voluto lo avrebbe impostato in modo molto diverso e avrebbe sicuramente girato il film in esterni. Inoltre si lamentò del fatto che quando lo girò, non aveva ancora una buona esperienza in fatto di montaggio. In sostanza non rimase soddisfatto del film, nonostante il grande successo.

Risultati immagini per knock on any door 1949


Su Humphrey Bogart
Grandissimo. Ebbe a discutere con il regista su alcune scene. Quella in cui il giudice convoca i due avvocati nel suo studio era del tutto improvvisata e non figurava nello script eppur fu indovinatissima. Bogart non ne era del tutto convinto e minacciò di recitare secondo la sceneggiatura originale se Ray e Taradash non avessero concluso i dialoghi della scena entro il mattino seguente. Lavorarono tutta la notte e Bogart recitò come Ray voleva. La scena dell’arringa è un capolavoro daattore consumato. Bogart disse di non aver mai recitato più di tre righe senza un taglio in 15 annoi di attività Ray gli chiese di recitare tutta l’arringa in una sola ripresa. Bogey ci riuscì e quella rimane probabilmente la cosa più bella del film.

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(1)http://Knock on Any DoorI bassifondi di San Francisco

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“Knock on Any Door looks like a throwback to the socially conscious gangster movie of the 1930s… the resurrection of a dying genre.”– Bernard Eisenschitz (1)In some respects, Knock on Any Door conforms to a standard social-conscience drama format: Romano is the poor, misunderstood and impressionable teenager from the wrong side of the tracks. With his journey from wronged innocence to the electric chair, we are led to a simplistic conclusion: we, society, are guilty.”– Geoff Andrew (2)

These dismissals of Knock on Any Door, made after but released before Ray’s directorial debut and breakthrough They Live by Night (1949), overlooks its significance as a signpost marking Ray’s key abilities and limitations. Time and again, Ray is drawn into genre work – and he can’t stifle his irresistible impulse to subvert conventions.

Knock on Any Door belongs to a portmanteau of genres and forms – the message movie, the flashback biography, the courtroom drama. In each case, Ray conveys something completely different beneath the didactic surface layer the script provides. In doing so, he exposes the bankruptcies of the formulae – the message is meaningless, the bio doesn’t add up, and the drama is not redemptive.

In this misfire Ray midwifes the “wayward youth” genre and its more exploitative offshoots, and prophesies, 20 years before their peak, the Generation Gap and the youth-culture shift that would take over and dominate America in subsequent decades.

Every important Ray film has a martyr at its centre. From They Live by Night through King of Kings (1961), Ray’s most personal and successful films feature a protagonist who is tormented by society, hunted down and killed (or neutralised). Sometimes this figure is divided into two, as are Plato (Sal Mineo) and Jim Stark (James Dean) in Rebel Without a Cause (1955) (3), and Danny Malden (Sumner Williams) and Jim Wilson (Robert Ryan) in On Dangerous Ground (1952) – one dies and the other is redeemed. But there is no redemption in Knock on Any Door, and all the tragedy is drained out of it by virtue of the presence of the unrepentant, angry youth at its centre.

The film is adapted from the best-selling 1947 novel by Willard Motley, a sprawling, episodic work that catapulted its author to fame after a 25-year freelance writing career. It’s the story of Nick Romano (played by John Derek in Ray’s film) – a petty-criminal and full-time loser from the slums of Chicago, on trial for killing a cop. Like other writers of his time, such as John Steinbeck and James T. Farrell, Motley adapted his early journalistic training into a relaxed form of naturalism, mixing didactic and observational passages into a readable, if heavy-handed style – in this sense, it is advocacy fiction.

Throughout the novel, Motley builds his case against society just as surely as Nick’s attorney does. The latter part of the book is marred by several pages-long passages in which the author’s philosophy is piped through Morton (the defence attorney). But peer in – close beneath the surface of Knock on Any Door is pure, imported nihilism. Motley’s viewpoint indicts everyone and everything, and doesn’t admit any hope.

The popular book seemed tailor-made for Hollywood adaptation. The postwar boom in message movies was in full swing. The World War II period in America had codified the movies as a pleasant and inspiring vehicle for transmitting information, propaganda and affirmation of “American” values to the masses. Now, “problem” films such as The Lost Weekend (Billy Wilder, 1945), The Best Years of Our Lives (William Wyler, 1946), Crossfire (Edward Dmytryk, 1947), Gentleman’s Agreement (Elia Kazan, 1947), and Home of the Brave (Mark Robson, 1949) all sought to right wrong (and wrong-thinking) on celluloid.

Directors such as Robson, Joseph Losey, Abraham Polonsky, Stanley Kramer and Kazan specialised in this kind of hectoring, finger-pointing fare. Not surprisingly, they and Ray were all strongly influenced by the left-leaning idealism and government-sanctioned artistic revolts of the 1930s. Some of them would suffer for it later during the anti-communist witch-hunt of the early 1950s. The theory of art as social corrective was being pulled down by an undertow of existential pessimism, a return to adolescent angst.

Kazan took Ray under his wing and let him serve as an uncredited assistant on his first full-length film, A Tree Grows in Brooklyn, in 1945. Like Kazan, Ray’s theatrical training made him actor-centric and open to unconventional approaches to getting emotional truth on film.

As the already completed but still unreleased They Live by Night made its way around Hollywood in private industry screenings, its quality induced Humphrey Bogart to name Ray as the director of the first feature to be produced by his independent production company, Santana. Bogart was increasingly attracted to issues-oriented material as he aged; Knock on Any Door makes for a trilogy of late-period socially-conscious films along with The Enforcer (Bretaigne Windust [and Raoul Walsh], 1951) and Deadline – U.S.A. (Richard Brooks, 1952).

Ultimately, Knock on Any Door might have been a far more riveting and memorable film had its original casting stood:

There were plans for Bogart to star in… an adaptation of the new best-seller Knock on Any Door, the tale of a juvenile delinquent as victim of his childhood. Supposedly Marlon Brando was to play the young man, whose credo was “live fast, die young and leave a good-looking corpse”. (4)

Bogie! Brando! A tantalising, never realised onscreen pairing. But Brando dropped out early on, shortly after the film’s original producer, Mark Hellinger, died.

John Derek is a poor substitute. Although Derek fits his character’s nickname – “Pretty Boy” Romano – he can’t measure up to the demands of his first leading role. Almost impossibly handsome, Derek had a career of sorts in feature film roles of varying sizes. (Eventually, he was best remembered for marrying three of the most beautiful women in Christendom: Ursula Andress, Linda Evans and Bo Derek.) Here he rages, and even cries, to little effect (is his tear-stained face part of the inspiration for the 1958 Roger Corman-produced The Cry Baby Killer, Jack Nicholson’s first starring role?) “Nobody knows how anybody feels!” Derek shouts out bitterly early in the film. He storms off, and Bogart in character as his defence attorney Andrew Morton quietly observes, “When did he find that out?” For all the emoting Derek does, Bogart draws the eye whenever he is on screen, effortlessly – the essential gravitas of the iconic Bogie presence is palpable.

Even the veteran studio character actors that pepper the film’s background – Chester Conklin, Jimmy Conlin, Sid Melton and Vince Barnett – manage to upstage the putative protagonist. Derek’s lack of screen presence makes Romano a passive figure, a plaything of fate and not a very bright or charming or empathy-inspiring or redemption-deserving one at that.

The film opens vividly, as a montage of crime and punishment flashes past. The killer, face shrouded, shoots down a policeman, then stands over his body and empties his gun into him. It happens so briskly that it haunts the rest of the film as a gruesome after-image. As a police dragnet spreads across the city, the camera’s elevated perspective in the sequence turns the action into something like that seen from the box at the theatre – a bustle below.

It’s only when we get to Bogart as Morton, who fought his way out of the slums from which Romano himself has come, that the camera starts paying attention to the human face. Bogie is in his comfort-zone in this role, superior and assured. As film logic dictates, he grouses but agrees to take Nick’s case.

In the following passage, visually quite unlike anything in the rest of the film, Bogart’s character makes his way down a trash-strewn, boarded-over moonscape of a neighbourhood that seems caked in dust to boot. He searches among the derelict inhabitants for witnesses that will bolster Nick’s case. For a moment, we are in Roberto Rossellini’s Germania anno zero (Germany Year Zero, 1948).

This and the rest of the film, much of which is shot in harsh, flat light with lumpy, theatrical staging, is the work of two-time Oscar-winning cinematographer Burnett Guffey. He did not seem overly thrilled by this assignment: “I was kind of a captive. Whoever they assigned me to, if it was agreeable with the director, I went and I did the picture.” (5) But there are moments that stand out: Nick and his wife Emmy with heads briefly, blissfully together; Nick smashing a bottle against a door at a ritzy fishing cabin Morton takes him to in order to “improve” him; Morton overcoming Nick in a dark alley.

The bulk of the film takes place in flashback, as Morton presents Romano’s case to the jury (in voiceover, Morton cynically evaluates the capacity of its members to succumb to his rhetoric). The wonderfully villainous George Macready (Mundson in Gilda [Charles Vidor, 1944] and Gen. Mireau in Paths of Glory [Stanley Kubrick, 1957]) plays the District Attorney, Kerman. At one point Macready rubs at the prominent scar he sported on his right cheek and, with a pathological gleam in his eyes, asks “Pretty Boy” on the stand about his success with the ladies. The State is up to no good, and it’s staffed by maniacs.

We move through the Rake’s Progress of Nick Romano, from the early loss of his father to his first beating to his life of crime, which seems to be one of the more unsuccessful ones on the books. “Live fast, die young and leave a good-looking corpse”, he sneers periodically. Coming from Derek, it sounds merely dumb, not like a credo of desperation.

His one chance at redemption, his too-good-to-be-true wife Emma (Allene Roberts), is cloyingly cheerful, convinced of her man’s abilities – until she kills herself, of course, a move that comes without foreshadowing. Emmy just hits the limit of what she can take and turns on the gas. The chilling image of Nick’s pregnant wife, shot from the waist down, turning on the stopcocks of the gas stove that will asphyxiate her in despair, is particularly memorable. A rooftop shot of Nick peering down at the funeral, in hiding and in tears, is the stuff of pure melodrama.

Morton takes the case despite being warned by his partners that it will affect his professional future. The distinction between the helpless Nick and the self-made Morton couldn’t be clearer. Morton is wised-up. Morton is part of the system; he knows about its hypocrisies and dirty deals, but is mature (or compromised) enough to choose to dwell within its limitations. Nick can only lash out at it without comprehension.

The only real moment for Derek as Romano occurs near the end, when his character decides to take the stand in his own defence. “I want to live”, he says quietly and evenly, staring off into the middle-distance during his conference with Morton.

After a witness-box badgering from Kerman that we are given to believe has taken hours, a series of flash cuts from Kerman’s hydrophobic mien to Nick’s angry, tear-filled eyes presages the breakdown moment when Nick cracks and yells what then must not have been a clichéd phrase: “Yeah, I did it! And I’m GLAD I did it!”

Sheepishly changing his client’s plea to “Guilty”, Morton must make a grand speech to the judge for clemency. Morton indicts Society for the crime Nick has committed with a “J’Accuse” moment that echoes the book directly:

Morton stopped a full minute, looking round the courtroom, then at the jury, with angry eyes. When he spoke again, his voice was colder, more deliberate. ‘Society is you and I and all of us. We – Society – are hard and weak and stupid and selfish. We are full of brutality and hate. We reproach environment and call it crime. We reproach crime – or what we choose to label crime – without taking personal responsibility. We reproach the victims of our own making and whether they are innocent or not once we bring them before the court, the law, Society – once we try them, we try them without intelligence, without sympathy, without understanding! (6)

Society is a malevolent and powerful force that perpetuates itself and kills individuals.

The film space becomes flatter and flatter as Bogart orates, until finally he is oriented looking straight up at the camera, which has resumed the elevated perch it held at the film’s beginning, and is now the perspective of the judge at his bench. “If Nick Romano dies, we killed him”, Morton says. We are the judge and jury. Derek sits passive and dejected. The judge then congratulates Morton for the quality of his summation – then sentences Romano to the electric chair.

The film’s rushed coda, buried under the credits, is key. On Nick’s execution day, Morton visits him in his cell and swears to continue helping other boys like Nick (presumably, however, only if they are innocent). Nick doesn’t seem to care. He “goes to the electric chair in a strangely tranquil mood, there, perhaps, to rejoin her [his wife] in death” (7). This almost seems a direct steal from the end of The Postman Always Rings Twice (Tay Garnett, 1946), when John Garfield’s Frank Chambers expresses content at the prospect of execution reuniting him with his beloved partner in crime, Cora (Lana Turner).

Morton walks Nick into the foreground of the last shot. Nick walks away from the camera toward the harsh white light emanating from the Death House door, framed by guards. As he goes, he fingers a little bare patch at the top of his head – the one that is shorn to induce better contact between the electrodes that will kill him and his flesh. Nick pauses at the door, stops, turns to a guard. There is the momentary possibility that he will turn back to us one last time, say something that will make sense of his life. He beckons to a guard, who hands him a comb. One last time Nick grooms his tousled hairdo, then turns and exits.

In the book, this gesture is clearly a cover for his fear:

Turning his head slowly to the guard standing next to him in the cell, he said, “Lend me your comb”. Without answering the guard handed Nick a comb. Nick pulled it through his curly hair. He felt it scrape, with the little excited thrill of life, against his scalp. He combed his hair slowly and neatly, following up the comb with the palm of his other hand until every hair was perfectly in place and brilliant with highlights above the handsome, tortured face. Then his touched his fingers gently to where the hair covered the bald spot where death would strike him. He handed the comb back to the guard. His fingers shook; he was ashamed of their shaking. (8)

In the shot, though, Nick is too far away for his features to register – we can only see the shape of his actions. It looks a lot more like a final, vain act of defiance. The ending works only if the viewer really feels that Nick is an innocent wronged by society, a helpless victim from the word go. The abandonment of a sense of personal responsibility doesn’t make sense to adults, but it’s a vibe that would spread rapidly throughout the younger portion of the culture.

And that gestural germ would resonate for a long, long time. America’s wild youth of the ’50s were resolutely in the here and now, contemptuous of the establishment and the square lifestyle. “Live fast, die young and leave a good-looking corpse”, would become a statement of bravado. The can-do spirit of the ’30s crumbled into a more sophisticated, numbing buzz of existential despair.

In Ray’s cosmos, the adults are the inmates in the institution, and primarily attuned to working the system to their own advantage, not in subverting it. The young and the maladjusted (or as-yet unadjusted) in Ray’s films can’t make sense of this prosaic, corrupt world and perish, physically or spiritually, by their ends. Young people can’t imagine growing up, and Knock on Any Door tells them they shouldn’t, really. Nick himself gives up on the film, the audience’s scrutiny, as he walks away from the camera to the electric chair. Nick doesn’t care – why should we?

From now on, despair and defiance would be linked in a wave of films that would simultaneously delight in and condemn the ways of wayward youth. Just as gangster films in the ’30s lavishly illustrated the events they were supposed to be disdaining, these shameful but sexy, dangerous explorations, perfected in Rebel Without a Cause six years later, would take hold and breed a new film stereotype – the juvenile delinquent.

More mature, thoughtful and well-funded efforts such as Blackboard Jungle (Richard Brooks, 1955) were trailed and offset by low-budget fly-by-night flicks such as Teen-Age Crime Wave (Fred F. Sears, 1955), The Delinquents (Robert Altman, 1957), High School Hellcats (Edward Bernds, 1958) and Naked Youth (John F. Schreyer, 1961); all of which revelled in the debauchery of zip guns, cigarettes, black leather-jackets, heavy petting and switchblades, and then tacked on a grim moral at the end just to keep on the censors’ good side.

“The typical Ray hero is a loner, at once contemptuous of the complacent normal society world and tormented with a longing to be reaccepted into it.” (9) What Kemp observes about Ray’s protagonists is true of Ray himself and his relationship to filmmaking. Driven to present his unique vision, he took every opportunity to turn genre inside out and question it, while yearning for mainstream success at the same time. It’s this that made him “the first home-grown film-poet of American disillusionment” (10). By January 1958, Jean-Luc Godard had pronounced his name synonymous with cinema (11).

Endnotes

  1. Bernard Eisenschitz, Nicholas Ray: An American Journey, Faber and Faber, London, 1990, p. 116.
  2. Geoff Andrew, The Films of Nicholas Ray: The Poet of Nightfall, BFI, London, 2004, p. 36.
  3. John Francis Kreidl has argued that “[t]the film, in many ways, is a dry run for Rebel Without a Cause”. See Kreidl, Nicholas Ray, Twayne, Boston, 1977, p. 31.
  4. A. M. Sperber and Eric Lax, Bogart, William Morrow and Co., New York, 1997, p. 396.
  5. Eisenschitz, p. 113.
  6. Willard Motley, Knock on Any Door, Northern Illinois University Press, 1989, p. 442.
  7. Kreidl, p. 38.
  8. Motley, p. 495.
  9. Philip Kemp, “Nicholas Ray”, International Dictionary of Film and Filmmakers, Vol. 2, 4th ed., ed. Tom and Sara Pendergast, St. James Press, Detroit, 2000, p. 542.
  10. Andrew, p. 9.
  11. See Jean Luc Godard, “Bitter Victory”, Godard on Godard, trans. and ed. Tom Milne, Da Capo Press, New York and London, 1972, p. 64.

Knock on Any Door (1949 USA 100 mins)

Prod Co: Santana Pictures Corporation Prod: Robert Lord Dir: Nicholas Ray Scr: John Monks Jr., Daniel Taradash, based on the novel by Willard Motley Phot: Burnett Guffey Ed: Viola Lawrence Art Dir: Robert Peterson Mus: George Antheil

Cast: Humphrey Bogart, John Derek, George Macready, Allene Roberts, Candy Toxton, Mickey Knox, Barry Kelley,

da: Brad Weismann, Senses of Cinema, June 2011, Issue  59

 

I bassifondi di San Francisco (Knock on any Door) (1949) Nicholas Ray

 

Hollywood Homicide

 

Credo che i film vadano “letti” non per come si pensa che siano ma per come sono in realtà. Mi spiego: se volessimo leggere questo film come uno degli innumerevoli polizieschi che il cinema americano ci ha ammannito e continua a farlo, si dovrebbe liquidarlo come un prodotto di bassa qualità, con una coppia di attori scombinata e con una trama strampalata. Insomma un vero e proprio schifo.
Se invece lo “leggessimo” come una commedia che prende in giro il genere poliziesco, scopriremmo che questo film potrebbe iscriversi al genere demenziale, con risultati apprezzabili.


L’assunto è di per sé eloquente. Una coppia di poliziotti deve indagare su una strage compiuta in un rapper club. Uno di loro, il più vecchio, Joe Galivan (Harrison Ford), fa il poliziotto, ma sembra molto più interessato a svolgere un secondo lavoro, quello di agente immobiliare. L’altro, K.C.Calden (Josh Hartnett), è un aitante giovanotto che, oltre a fare il poliziotto, guadagna una discreta sommetta ad insegnare una strana commistione di esercizi ginnici, danza e yoga, ecc. frequentata solo da belle ragazze, ma sogna in realtà di diventare un attore. Per questo, anche durante il lavoro, studia e recita il ruolo di Kowalski in UN TRAM CHE SI CHIAMA DESIDERIO di Tennessee Williams, che dovrà interpretare presto in un teatro vero.


Un altro segnale che il film che stiamo vedendo non è un poliziesco classico, è l’insistita serie di scritte, insegne e cartelli col nome Hollywood. Ossia il luogo ideale per la “fiction”, un modo per annunciarci che stiamo assistendo a una messa in scena, a una sostanziale goliardata che, come si diceva, ironizza sul poliziesco serio per proporci in realtà una coppia di disadattati che si barcamena alla bell’e meglio.
L’intento ricorda un po’ l’operazione che è solito fare Altman con i generi classici: in effetti, il regista “denuncia” chiaramente il suo debito nei suoi confronti nella scena dell’interrogatorio, che si ispira liberamente, ma non
così tanto, a quella, ormai di culto, de IL LUNGO ADDIO con l’impareggiabile Elliott Gould. La cosa più divertente del film, sia detto.


Harrison Ford qui si cimenta in un ruolo a lui non molto congeniale. Ma questo fa proprio parte del gioco. Tutti si aspettano l’eroe senza macchia e senza paura di tanti suoi film e si trovano qui davanti a un uomo alla deriva, costretto a compromessi e inciuci per riuscire a pagare gli alimenti a tre mogli. L’esperimento non funziona a meraviglia, ma concorre a seminare confusione nello spettatore distratto. Josh Hartnett è il protagonista dell’altra scena indovinata del film, quella in cui, nel bel mezzo di una visita in casa di un sospetto, finisce per disinteressarsi completamente dell’indagine e trova molto più interessante mettersi a parlare di teatro con dei giovanotti artisti dilettanti.


La scena finale è, se mai ce ne fosse bisogno, l’ennesimo sberleffo al poliziesco classico: arrivati sulla scena di un crimine, la prima preoccupazione di Galivan è quella di procurarsi degli hamburger senza maionese e senza tutta quella roba buona per conigli.
Il risultato? Tenendo conto di queste premesse, si ride un po’, ci si sorprende un altro po’ e forse si finisce per dimenticare che stiamo assistendo a un poliziesco per trovarci invece davanti a uno dei film più strampalati e sgangherati che abbiamo visto.
Nonostante le intenzioni, il film non convince perché non riesce ad essere quello che vorrebbe. Non è un vero film poliziesco, per i motivi già detti; ma non riesce ad essere un film “demenziale” perché manca della necessaria “follia” e di unità stilistica. A volte sembra un film drammatico e altre una farsa. E’ in questa contraddizione di fondo che sta la sostanziale debolezza del film.

 

Hollywood Homicide (2003) Ron Shelton

 

Un certo Sinatra di Hoboken

 

Hoboken, Stato del New Jersey. 1915. Una brutta città industriale, sull’altra riva dell’Hudson. Cent’anni fa nasceva Frank Sinatra. Cos’è Hoboken? Una cittadina che, all’inizio del secolo scorso, era una specie di “refugium peccatorum” degli italiani (in prevalenza siciliani), che però, invece di (“do it better”), erano disprezzati, evitati, emarginati, come e più dei neri e al livello dei cani. Sinatra non rinunciò mai al suo cognome e si dichiarò disposto a mandare tutto in malora, pur di non rinunciare alle proprie origini (cosa che dovette imparare dalle vicissitudini e dall’orgoglio di italiano del padre, Martin).


Dov’è Hoboken? Non è il buco di culo del mondo, visto che è nell’area metropolitana di New York, ma certe città americane, se nasci nel posto sbagliato e nel momento sbagliato, ti vomitano tutta la loro arroganza WASP, ti prendono a calci e, al massimo ti permettono di avere successo là dove lo hanno anche i neri e cioè lo sport. Come Joe di Maggio. Ci vorranno due, tre generazioni per farti rispettare e per non essere più considerato, più o meno, come un mafioso. Basterebbe leggersi i resoconti del processo a Sacco e Vanzetti per comprendere come eravamo considerati noi italiani, e cioè una specie di sottorazza di straccioni ignoranti e propensi al crimine.
Per farsi largo, spesso servivano i pugni (o la persuasione forzata) dei compari di Al Capone o Lucky Luciano. Ma cominciavano anche a farsi conoscere uomini retti, onesti e capaci come Fiorello La Guardia o Joe Petrosino. Qualcosa stava cambiando, anche se molto lentamente, nei nostri confronti.


Non ho nessuna intenzione di fare qui la solita trita e ritrita biografia con annesso panegirico e quant’altro. Che lo facciano altri, che sanno farlo meglio di me. Il mio è solo desiderio di ricordarlo e di sottolinearne i meriti cinematografici. Se dovessi tracciarne gli oscuri contorni delle sue frequentazioni con elementi mafiosi, a quanto pare nati dopo il suo viaggio a Cuba nel 1947 [a quanto pare, invitato dal mafioso Joe Fischetti, per invitarlo ad una festa in onore di Lucky Luciano], e che gli costò la nomea di amico dei mafiosi appioppatagli dalla Commissione Kefauver, finirei per addentrarmi in un percorso che mi porterebbe lontano da quello che è il mio intendimento. Così come c’è, da parte mia, la condanna più ferma per queste “amicizie”, c’è anche assoluto interesse per un vero gigante dello swing e un ottimo interprete cinematografico.


Frank era già famoso quando Louis B. Mayer lo mette sotto contratto; siamo agli inizi degli anni Quaranta. Frank canta con l’orchestra di Tommy Dorsey, una delle più famose e applaudite. Ma il successo come attore non è neanche da paragonare ai successi come cantante (“I’ll never smile again” è il suo primo e vero successo). La MGM non rinnova il contratto e lui si trova a spasso. Qualcuno gli parla di un progetto che la Columbia sta preparando; si tratta di un adattamento del romanzo di James Jones, DA QUI ALL’ETERNITA’. Ci sarebbe una parte interessante per lui, quella di Angelo Maggio. Eli Wallach, cui era stato assegnato il ruolo, preferisce non abbandonare il teatro, con cui era impegnato in un lavoro per lui molto importante. La carriera cinematografica, quella vera, nasce qui, dal ruolo che gli fu assegnato da Harry Cohn, capo della Columbia. Chi convinse chi? Fu forse John Roselli a “convincere” Cohn? Chi era Roselli?


Parlare di Roselli, significa scoperchiare un vaso di Pandora da cui uscirebbero scheletri negli armadi, “veleni”, misteri tremendi che hanno fatto impallidire l’America. C’è l’ombra di Sam Giancana e Santo Trafficante, ad esempio, vale a dire due capimafia tra i più influenti; c’è l’ombra dei falliti attentati a Fidel Castro e della Baia dei Porci, c’è l’ombra dell’assassinio di Kennedy, c’è l’ombra di strani contatti con la CIA, c’è l’ombra di Marilyn Monroe. Per limitarci al cinema, c’è l’episodio della “proposta amichevole” fatta da Roselli a Harry Cohn, perché sottoponesse un contratto pluriennale favorevole all’attrice, cosa che Cohn fece senza discutere, fatto assai inusuale conoscendo la grinta e l’aggressività del boss. Pare che Cohn amasse molto i cavalli… C’è altro da dire?
Stavolta, invece, pare che Roselli non abbia convinto Cohn con una proposta che non si poteva rifiutare, ma che sia stato Cohn stesso a lasciarsi impressionare dalla personalità e semplicità con cui Sinatra perorò la sua causa. Ma fu soprattutto il regista, Zinnemann, a decidere. All’inizio, era convinto che Sinatra fosse soprattutto un cantante, ma poi dovette ricredersi dopo un provino. Sinatra desiderava così tanto quel ruolo che accettò la miseria di un contratto da 8.000 dollari. Più tardi ebbe a dire:”Io, Maggio l’ho conosciuto, sono cresciuto con lui a Hoboken”.


Abbiamo tutti ben presente l’interpretazione di Maggio, che gli valse l’Oscar come miglior attore non protagonista. Era il 1953.
Frank, allora, era un ometto smilzo, fisicamente insignificante. L’interprete ideale. Tra le grinfie di Trippa (Ernest Borgnine) dava proprio l’idea di un agnellino alle prese con un lupo famelico. Un film che è pura dinamite, forse il migliore di Zinnemann (assieme a MEZZOGIORNO DI FUOCO). Un’interpretazione, la sua, che lo lanciò nell’Olimpo delle stelle. Un ometto dal coraggio inversamente proporzionale al suo fisico da uccellino, un tipo tanto romantico quanto orgoglioso, fiero e temerario. Trippa lo spezza ma non lo piega.
A Frank piaceva un sacco quel personaggio: un po’ vedeva se stesso, le umiliazioni, le sconfitte patite. Potevano essere il suo epitaffio le parole di MY WAY (una sorta di testamento spirituale):“ I faced it all and I stood tall and did it my way”.
Ma il vero palcoscenico di Frank era quello musicale. La cosa curiosa è che il suo rilancio fu dovuto al successo cinematografico. La sua è una voce inconfondibile, un impasto di toni e di suoni, un prodigio che avviene una volta ogni cento anni. Platee strapiene, milioni e milioni di dischi (150, dicono), e questo in un mondo ancora agli albori del divismo esagerato, strafatto e stravolto odierno.


Canzoni come “I got you under my skin”, “Fly me to the Moon”, “Lonely Town”, “Stormy Weather”, “All the Way” “September in the Rain” che ancora oggi piacciono da morire e mille altre e arrangiatori e direttori sublimi come Nelson Ridde e Billy May proiettano Sinatra nell’Olimpo degli immortali.
Nel 1981, Peter Bogdanovich stava girando a New York E TUTTI RISERO: racconta che si era recato in un palazzetto del ghiaccio con la protagonista Dorothy Stratten (che poi morirà tragicamente): a un certo punto, dall’altoparlante si udì una canzone di Sinatra. La stragrande maggioranza dei presenti smise di pattinare e si fermò ad ascoltare, chiedendosi chi fosse il cantante. Sembrerebbe un assurdo, ma è proprio così. L’America, a volte, dimentica troppo in fretta.


Seguirono film importanti come L’UOMO DAL BRACCIO D’ORO, di Otto Preminger, PAL JOEY, di George Sidney, e soprattutto QUALCUNO VERRA’ di Vincente Mannelli che io ritengo uno dei migliori mélo mai realizzati. Ci sono film che ci perseguitano, che ci seguono, premono e ci possiedono, senza mai lasciarci. Il film di Minnelli è uno di questi. Questa figura di militare, scrittore anticonformista, che torna in pullman al suo paese natío, un villaggio avvolto nella nebbia del conformismo e dell’ipocrisia, dove anche le persone che dovrebbero “essere” diverse, non lo sono e diventano prigioniere di un’educazione perbenista e di una cultura incolta. Meglio allora la compagnia di giocatori e di donnine leggere, malviste dalla gente eppure autentiche e semplici.
Frank, che ormai alterna musica e cinema, canta “STRANGERS IN THE NIGHT” e lavora col regista Gordon Douglas in un paio di film incentrati sul detective Tony Rome, ma soprattutto IN INCHIESTA PERICOLOSA (1968), un altro dei miei film preferiti. Quando uscì nelle sale (1968), rimasi affascinato dalla figura dolente, dalla personalità forte ma quasi nichilista del protagonista, un detective che, dopo aver mandato per errore un uomo sulla sedia elettrica, perde ogni fiducia in se stesso e nel mondo in cui vive. Il verminaio in cui si trova ad investigare lo porterà a scoprire il colpevole, ma lungi dal ritrovare la fiducia, lo si indovina navigare ed annaspare in una società che ormai disprezza e in un lavoro che non sente più suo.


E’ un personaggio che ricorda da vicino una delle sue ultime interpretazioni : quella del sergente di polizia Edward Delaney, in DELITTI INUTILI (1980). E’ un poliziotto prossimo alla pensione, rimasto sergente perché abituato ad avere la schiena diritta, ma ha dovuto subire l’umiliazione di vedere sbarbatelli senza arte né parte scavalcarlo, di avere capi incapaci e corrotti e, soprattutto la disgrazia di avere l’amata moglie che si sta spegnendo per un cancro, dopo che il medico curante non l’ha curata come si conviene.
E’ un po’ il suo canto del cigno, il commiato decoroso di un uomo ormai anziano, ma ancora fiero, di un uomo che ha preso di petto la vita, magari con qualche scivolone, ma che ha pochi rimpianti (“Regrets I Have a Few”) e soprattutto la consapevolezza di avere lasciato il segno, sia nel cinema sia nella musica, un merito riservato a pochissimi.
Quanto ai legami con la mafia, cosa da lui sempre negata e mai provata in modo chiaro, penso tutto il male possibile, è ovvio. Ma non è il luogo qui per intentare processi o giudicare su vicende che non sono chiare.


Ciò che è chiaro, invece, è la grandezza di un artista inimitabile. Si potrà discutere sul valore artistico in campo cinematografico, per molti inferiore a quello musicale. Non lo so, veramente, e lo dico onestamente: per me, Sinatra, soprattutto a una certa età, ha disegnato un ruolo che ritengo fra i più indovinati come figura di poliziotto. E’ un personaggio che assomiglia, nel suo “understatement” a quello di Robert Mitchum, quando interpreta Philip Marlowe. Ma mentre Chandler crea un eroe pessimista di facciata, ma, in fondo, inguaribile ottimista, il detective di Sinatra è una maschera amarissima, che si trascina ormai, che si tiene a galla per puro istinto di conservazione, schifato da un ambiente con cui non ha più nulla in comune e che gli ha tarpato ali, sogni e ogni speranza.
Per me, un grande.

Il mio amico Eric

Oh, ah Cantona!

Il titolo originale è LOOKING FOR ERIC e cioè: In cerca di Eric. Chi è costui? E il protagonista, e cioè un postino di mezza età di Manchester. Ma è anche Eric Cantona, ex mito calcistico francese del Manchester United, la squadra per cui il protagonista (ma anche il regista) fa il tifo.
Che cosa cerca Eric, il postino? Forse cerca un po’ di serenità, un lusso che non si può permettere visti i guai che si ritrova. Pare che Eric, il calciatore, uomo e mito, sia in grado, come in una folgorazione, di dargli qualche consiglio utile per ritrovare se stesso e la forza di affrontare la vita con decisione e rinnovato entusiasmo.


Ken Loach da una vita prende le parti degli emarginati, degli umili, di coloro che la società in qualche modo lascia al margine, un po’ per colpa di loro stessi e molto per colpa di un politiche ed istituzioni che ipocritamente asseriscono di aiutarli, salvo poi ricacciarli sempre più nel buco da cui tentano disperatamente di uscire.
La forza di Loach sta nel fatto di non minimizzare le colpe dei suoi piccoli eroi quotidiani, fatte di piccoli furti, di scelte affettive sbagliate, di eccessi (alcol e droghe), di indebitamenti sconsiderati, di reazioni esagerate. Ma la sua grandezza sta nel confrontarle con la macchina del Potere e mostrare quanto le vite di questi piccoli protagonisti siano alla mercé di scelte politiche liberiste dissennate (il Thatcherismo ma anche certo Laburismo di Tony Blair).


Nel caso di Eric, il problema sta in un suo imperdonabile errore compiuto anni prima, quando, preso dall’ansia di non farcela, ha abbandonato la moglie e la figlia appena nata. Da allora, la sua vita è stata una china. Anche un successivo matrimonio è andato a rotoli e ora si trova in casa due figliastri con cui (uno in particolare) non va d’accordo. In più Sam, la figlia che egli ha abbandonato, ora gli chiede di tenerle la bimba per un’ora al giorno. Infine, per farla completa, suo figliastro si è messo con una banda di criminali spietati e dalla quale non riesce più a staccarsi.
La via d’uscita che Loach (e il suo sceneggiatore preferito, Paul Laverty) trovano è quantomeno bizzarra ma anche curiosa.


Il gioco del calcio, come si sa, è uno sport che in Inghilterra viene snobbato dalla upper e dalla middle class (salvo poi, ad ogni vittoria di squadre di club o della Nazionale, gioire scompostamente come gli altri). Resta il terreno favorito della classe meno avvantaggiata, e cioè (ma non solo) operai, piccoli artigiani e commercianti, proletari che cercano il proprio riscatto sociale identificandosi con i colori della squadra del cuore. Un po’ come avviene da noi e in tanta parte del mondo.
Questo film ha il merito di dare dignità al calcio e ai suoi tifosi coinvolgendoli in una comunità che, oltre ai soliti cori, sfottò e riti più o meno tribali, è capace di compattarsi anche per realizzare azioni di forte valore morale. Utilizzando il registro drammatico e quello leggero, mescolandoli assieme (con grande sapienza registica), Loach dignifica il calcio, sport per tanti aspetti proletario, per riscattare al tempo stesso un’intera classe sociale e realizzare un’azione di giustizia popolare: punire cioè dei criminali, là dove la legge non è riuscita ad arrivare.


Ora è più agevole capire il significato del titolo. In effetti, la ricerca di Eric è la ricerca di se stesso, quella che il suo amato mito omologo calcistico (Eric Cantona)gli suggerisce. Cercare ( e trovare) se stessi è la chiave per vivere in modo soddisfacente la nostra vita. Finora Eric ha vissuto nel desiderio di tornare dalla sua prima moglie, ma lo ha dissuaso l’imbarazzo, la vergogna. Il senso di colpa lo ha costretto ad annaspare, a vivere nell’incertezza, ad accettare compromessi che ne hanno leso la dignità.
La solidarietà dei suoi compagni tifosi, il tifo per la sua squadra del cuore, il bene che ancora gli vogliono i suoi familiari lo aiuteranno a ritrovare le risposte che da tempo cercava.


Contro l’atteggiamento schizzinoso e sdegnoso di molta critica saccente, Loach si prende il gusto di esaltare valori e virtù proletari che si riconoscono in manifestazioni sociali di massa da sempre guardate dall’alto in basso, come il calcio, la birra al pub e la tv.
Spesso, da questo “letame” (a sentire lorsignori) nascono fiori.

 

Il mio amico Eric (Looking for Eric) (2009) Ken Loach

 

The Hit List

 

 

Buona parte della cinematografia americana del genere action-thriller hanno in comune un’idea abbastanza interessante. Di solito, inoltre, la prima parte di questi film si lascia vedere con certo interesse a causa proprio dell’interesse insito nell’argomento.
Man mano che i film procedono, si sente, quasi invariabilmente, che qualcosa comincia a scricchiolare. Il racconto comincia a perdere colpi, ci si immette su un percorso iper-inflazionato di inseguimenti mozzafiato, di sparatorie infernali in cui il protagonista riesce miracolosamente a venirne fuori, nel solito intreccio con servizi segreti, CIA nel ruolo di cattivi, nell’ovvio happy end.


Il pubblico che ama questo tipo di cinema non chiede introspezione psicologica, agganci realistici e critici con la realtà, denuncia sociale, imprevedibilità intelligente ecc. A questi film si chiede azione, un protagonista “buono” e uno o tanti “cattivi”. Si chiede inoltre una buona dose di schizzi di sangue, di decine di morti, auto fracassate ecc.
Il film in esame non si discosta da questi cliché. Eppure l’assunto di base non sarebbe così banale. Un “executive” di una grossa società ha alcuni problemi: la moglie lo tradisce, il capo gli preferisce un collega per la promozione, infine, ha contratto un debito di gioco con i soliti loschi farabutti che lo pressano e lo minacciano.
Un bel quadro, non c’è che dire.


Come per incanto, la soluzione dei suoi problemi la trova in un bar dove si è recato per annegare le proprie pene. Un killer, arrivato lì per caso, prende a cuore i suoi problemi e decide di dargli una mano, alla sua maniera, ovvio. Il funzionario, che crede sia tutto uno scherzo, gli consegna su sua richiesta, una lista di cinque persone che vorrebbe far sparire: nell’ordine,il suo capo, quello che gli ha fatto le scarpe, il suo creditore-gangster, l’amico che lo ha tradito con sua moglie e, infine, la moglie stessa.


Il killer, un reduce dall’Iraq che è rimasto contaminato dall’uranio impoverito rilasciato dalle armi americane, è stato assunto dai servizi segreti per eseguire certi “lavoretti” illegali, omicidi, chiaro. Tuttavia, la consapevolezza di avere i giorni contati, lo spinge a ribellarsi agli ordini e decidere di finire quel che gli resta da vivere, facendo lavoretti di sua iniziativa e di suo gusto, come appunto eliminare quelle cinque persone sulla lista. La trama è molto debole nello spiegare i motivi per cui egli decida di uccidere cinque persone che uno sconosciuto gli ha appena indicato. Invece di dedicarsi (e avrebbe più senso) a far fuori chi lo ha mandato a fare la guerra e farsi avvelenare, decide di uccidere cinque nemici che uno sconosciuto che egli si ostina a chiamare amico gli ha chiesto di punire.


Fin qui la prima parte e potrebbe anche essere accettabile. Tutto quel che succede dopo diventa scontato come la pizza la domenica sera.
Sta proprio qui il punto debole di questo tipo di cinema, come si diceva prima. In un Paese in cui la potentissima lobby delle fabbriche di armi influenza anche l’elezione dei presidenti, è normale che l’uso scriteriato delle armi e dell’omicidio al cinema sia parte integrante di un costume nazionale che molti si dilettano a chiamare cultura di frontiera. Ma non è certo il caso qui di dilungarsi in inutili tirate sociologiche o moralistiche. Quel che interessa qui è constatare la bassa qualità di un’intera produzione nazionale, spinta unicamente dalle ovvie esigenze commerciali, ma priva di ogni seria riflessione sulle dinamiche che richiedono l’uso della violenza, in una sorta di cerimonia mediatica che, da un lato, la condanna e, dall’altro, la esalta.


Un attore come Cuba Gooding poi, non sembra neanche a suo agio nelle vesti del killer, mentre, per il resto, è piattezza e banalità.
Talvolta, abbiamo registi, che (oltre che per difendere il proprio prestigio), chiamati a dirigere questi film per pure questioni di sussistenza, trovano il modo di inserire, magari per pochi istanti, un motivo che dà una spiegazione sociale, morale, psicologica a quello che sta avvenendo, introducendo quindi una chiave di lettura meno scontata. Non è che improvvisamente, allora, tutto cambia: il film rimane pur sempre quello che è.
Qui, in questo caso, purtroppo, non avviene niente del genere.

 

The Hit List -Lista di morte (The Hit List) (2011) William Kaufman

 

Hereafter

 

Una società che non accetta la morte e nemmeno che se ne parli è fondata sull’inganno e sull’ipocrisia.
Se poi il tema diventa l’aldilà, colui che ne parla viene emarginato, così come avviene con chi parla di alieni e di UFO.
Una società che fonda tutto sulla razionalità e ciò che ne consegue non tollera che esista l’aldilà, perché la ragione non può accettare la frase “Credo quia absurdum” e non può accettare qualcosa di non certo, anche se dignificato dalla fede. Eppure, se c’è qualcosa di certo, questa è la morte. Per cui, fingere che non esista significa contraddire la propria identità di società razionale.


Il cinema americano ha talvolta (ma non spesso) affrontato il tema dell’aldilà, partendo dall’assioma che esso esista e concentrandosi soprattutto su raffigurazioni fantastiche, di facile presa sul pubblico. La vecchia Hollywood non vedeva di buon occhio temi come questo, nel timore di scontrarsi con gerarchie, gruppi di pressione e mentalità molto conservatori.
Si preferivano produzioni di serie B, senza grandi attori e senza budget consistenti, quasi a farle passare in sordina. I risultati furono deludenti, sia dal punto di vista commerciale sia artistico.


HEREAFTER è probabilmente il primo film che non parte da assiomi o da verità precostituite.
Esso presenta tre diversi modi di porsi di fronte al tema della morte e dell’aldilà. C’è chi (Cécile de France) la sfiora ma ne viene in qualche modo “toccata”, chi (Matt Demon) ha a che fare con coloro che la morte ha colpito da vicino portandosi via le persone amate e infine c’è chi (Frankie McLaren)non accetta la morte e cerca di mettersi in contatto in qualsiasi modo con il fratellino morto.


La loro vita è cambiata, cosa del resto banale, perché per qualsiasi essere dotato di senno, la morte che si porta via chi si ama, pianta una dolorosa bandierina nella nostra carne, la prima di una lunga o breve serie che si concluderà con la stoccata finale.
Nel film si apprezza la sobrietà, così difficile da ottenere in film del genere. Non ci sono scene strappalacrime, non ci sono fantasmi ed effettacci gratuiti. C’è una compostezza quasi classica che è un po’ il segno della cinematografia adulta di Clint Eastwood.
Non ci sono certezze acquisite, ma il messaggio che passa è quello della probabilità che al di là della morte ci sia qualcosa. La psichiatra (Marthe Keller), prima agnostica, ora spiega con convinzione che qualcosa c’è, basandosi sulle numerose esperienze pre-morte di molti suoi pazienti.


Il regista non affronta quel “qualcosa”, ma descrive le dinamiche dei tre personaggi principali che hanno a che fare con quel “qualcosa”: operazione intelligente che usa un percorso sicuro, quello cioè della rappresentazione della vita vissuta e non si azzarda ad interpretare o inventare l’altra vita.
Uno dei meriti di questo film è quello di lasciarci con gli stessi dubbi che avevamo prima di vederlo. Il regista lascia allo spettatore trarre delle conclusioni; egli si limita a proporre delle esperienze.
Così facendo, Eastwood lascia la libertà di credere o di non credere. Non forza il nostro libero arbitrio (e libertà di scelta) sbattendoci in faccia scene costruite sulla fantasia fatte passare per verità.


Evidentemente, la produzione e lo stesso Eastwood hanno giudicato che un tema difficile come questo potesse oggi essere accettato di buon grado e con forti probabilità di fortuna al botteghino. Se cioè la casa di produzione investe parecchio e punta su un regista “sicuro” come Eastwood e su un attore superstar come Matt Damon, significa che i sondaggi pre-produzione erano buoni.
Ma questo non cambia l’assunto che si diceva all’inizio: la morte è un argomento quasi tabù. A renderlo accettabile è la particolare struttura narrativa del film, capace di scivolare via sugli aspetti “deprimenti” e insistendo sull’aspetto misterioso e in certo modo affascinante dell’aldilà, concedendo qualcosa alla curiosità di un pubblico più smaliziato ma ancora desideroso di essere stupito.


Il film è sicuramente un altro tassello pregevole della filmografia di questo sorprendente regista, di cui è sempre più evidente la matura evoluzione ideologica ed artistica.

 

Hereafter  (2010) Clint Eastwood

 

Gran Torino

 

Qual’ è la chiave per interpretare questo film? Non lo so. So solo che ci sono diversi temi che si rincorrono, si sovrappongono e forse si combattono. Il primo tema è quello della redenzione. E cioè il processo graduale che va dalla a-socialità all’immolazione. Un uomo come Kowalski, toccato duramente dalla guerra in Corea, ritorna a casa con qualcosa che gli è rimasto appiccicato e che gli impedisce di vivere una vita sociale normale. Ha ucciso 13 uomini, alcuni a sangue freddo e a colpi di badile. Ha ucciso uomini che gli chiedevano di essere risparmiati. Egli sa cos’è la morte, forse perchè non sa cos’è la vita. Non lo sa più, almeno. Sa cos’è la morte perchè egli stesso è un uomo morto. La sua morte la vive rifiutando ogni rapporto con l’esterno. La morte della moglie è il colpo finale. Passa ore seduto nella penombra bevendo birra e mangiando porcherie. Una malattia lo sta lentamente avvicinando alla tomba. Nulla da chiedere alla vita. Gli altri non esistono, anzi sono elementi ostili che vanno tenuti alla larga.
Il secondo tema si combina con il primo ed è l’intrusione nella sua vita di una etnia asiatica che egli ha combattuto. Brutti ricordi. Non vuole avere nulla a che fare con loro ma queste persone si avvicinano a lui (anche se il primo episodio è un tentativo di furto) e poco a poco lo aiutano ad uscire dalla tomba che è la sua casa.

Quello che in Corea era stato lo scontro fra musi gialli nemici e lui, americano di origine polacca, ora diventa motivo di incontro. Sono loro che lo aiutano e questo, per il suo cuore di pietra, ha un valore catartico. Il peso che ha dentro, il peccato che ha commesso (“Padre, mi perdoni, perchè ho peccato” dice in confessionale al prete irlandese) lo morde dentro, lo distrugge lentamente e lo precipita sempre più nella tomba. Lo sciamano che incontra a casa della famiglia Mhong ha capito tutto. “C’è qualcosa in te che ti fa stare male, qualcosa di cui non riesci a liberarti”.


C’è infine il tema dell’educazione. una educazione dura, all’antica, fatta di rimbrotti, insulti ma anche di consigli ed aiuto. Proprio quel che ci vuole per il ragazzino imbranato che non riesce a scrollarsi di dosso la propria apatia, la propria timidezza. La scena finale è il suggello coerente di un percorso morale che riguadagna Kowalski al consesso umano e al tempo stesso ne richiede l’auto-sacrificio come compensazione di un debito di sangue che da sessant’anni lo tormentava. Kowalski è rientrato nella Chiesa (la confessione ne è il segno), è rientrato nella comunità umana, è uscito dalla sua tomba e vi ci rientra da uomo in pace, la pace che per 60 anni ha invano cercato e che solo ora ha ritrovato. I tre temi si combinano perfettamente nella scena finale degna di un grande regista. Quasi non si vede: è immerso nell’oscurità.

Un’ombra minacciosa si erge davanti alla casa in cui si riuniscono i teppisti. Umbra mortis. La morte che chiama a sè la morte. La morte che può finalmente riposare in pace. Un ottimo film.

Gran Torino (2008) Clint Eastwood

 

Gli stagisti

Un film che si fa in parte apprezzare e per l’altra odiare.
Due giovanotti un po’ mattacchioni, un po’ stupidotti ma con l’importante dote di non essere cyber-schiavi, rimasti senza lavoro, si iscrivono, in modo assai azzardato, ad una sorta di concorso per gruppi indetto da GOOGLE che intende assumere una manciata di semi-adolescenti cybermaniaci creativi.
Il film non è particolarmente memorabile per quel che riguarda la trama. In effetti, si tratta di una commediola alquanto insipida e banale. In effetti, la gara vinta, come era da aspettarsi, dalla nostra coppia di protagonisti, sembra quasi risaltare quello che all’inizio del film era visto come una sorta di azienda composta da svitati genialoidi del computer ma totalmente avulsi dalla realtà.
La parte più indovinata del film, a mio avviso, è la rappresentazione del contrasto fra la realtà quotidiana, fatta di lavoro normale d’ufficio, di fabbrica o altro, di affitti e bollette da pagare, di figli da crescere e mantenere, di mogli, di suocere, di rate dell’auto e quella dove tutta l’attività umana è concentrata nel rendere il più appetibile possibile diavolerie tecnologiche d’avanguardia, dispositivi sempre più piccoli. sempre più leggeri e più potenti.


All’interno di quell’azienda si muovono febbrilmente e si agitano tanti ragazzini tanto genietti nell’immaginare virtù virtuali, link, applicazioni possibili alle immense potenzialità del mezzo tecnologico, quanto lontani dalla vita reale.
Un esercito di mostriciattoli superpagati ma anche a forte rischio di impazzimento.
Il mondo raffigurato dal film è una sorta di metafora di quello del lavoro quotidiano, in cui però vengono estremizzate le caratteristiche negative molto più di quelle positive.

 

Gli stagisti (The Internship)(2013) Shawn Levy

 

Gli spietati

 

Ci sono western che si ricordano per i duelli, finali, altri per le scaramucce tra indiani e soldati a cavallo, altri ancora per i paesaggi e così via. Se si dovesse ricordare qualcosa di questo film, sarei tentato di dire : sgradevolezza.
La sgradevolezza è rappresentata dal letame suino con cui Munny giornalmente ha a che fare per accudire ai suoi maiali. Sgradevolezza è il lerciume delle strade fangose della cittadina di Whisky City, l’assassinio di cui è vittima un cow boy mentre sta defecando, la vecchiaia incipiente che logora Munny e quasi lo porta alla tomba dopo una severa punizione ad opera di Little Joe.
A ben guardare, è tutto sgradevole il mondo in cui si muovono attori e comparse: balordi, sceriffi sadici, puttane da quattro soldi, pioggia che tutto bagna, infradicia e infanga: un Ovest duro, senza abbellimenti od orpelli, un mondo spietato che non lascia speranza.
La storia è quanto mai semplice, come si conviene al Western; una prostituta, sfregiata da un paio di balordi, non trovando nello sceriffo un’adeguata reazione, offre una taglia per la cattura dei colpevoli.


La ricompensa stuzzica l’interesse di un giovanotto miope, un cow boy di colore avanti con gli anni e un vecchio e imbolsito ex-criminale ormai in disarmo, diventato piccolo allevatore, rimasto vedovo con due figlioletti da crescere.


I tre si uniscono per andare a Whisky City, eliminare gli sfregiatori ed intascare la taglia.
Il giovane si dimostra una nullità: si vanta di essere un duro, di avere ucciso cinque persone, poi, quando ammazza un uomo disarmato intento a defecare, viene preso dal rimorso e decide di abbandonare l’impresa. Il cow boy di colore decide anch’egli di abbandonare tutto, una volta resosi conto delle implicazioni etiche e dei pericoli.
L’unico che decide di continuare è Munny, la cui scorza è ben diversa da quella dei suoi compari. Egli è un vero assassino. Pur avendo smesso di delinquere e avere iniziato un’altra attività, egli è rimasto il criminale duro, spietato che ha seminato, diversi anni prima, morte e terrore.
Ha accettato di imbarcarsi in questa avventura per una questione economica, ma non per un nostalgico rientro nella sfera criminale. Invecchiato, con la vista indebolita, abbattuto da lutti famigliari e un duro lunario da sbarcare, non medita certo di compiere stragi. Il suo è un lavoro abbastanza sicuro e tranquillo: eliminare un paio di vaccai per intascare un gruzzoletto che gli permetta di risollevare un pochino la sua situazione e permettergli, chissà, di tentare qualcosa di più redditizio. Solo la selvaggia punizione propinatagli dallo sceriffo e la morte del suo amico cow boy nero lo scuote e ne risveglia l’antico furore.

 

Gli spietati (Unforgiven) (1992) Clint Eastwood

 

 

Gli equilibristi

 

Un film amaro e duro che ti prende come un pugno allo stomaco. E’ uno dei pochi film onesti nella non vasta cinematografia italiana che raccontino la difficoltà dell’esistenza quotidiana.
Il pregio principale è quello di non cadere nelle trappole che storie come queste spesso frappongono. La trappola della leggerezza, ad esempio. Noi italiani siamo maestri nel combinare, in tanti film di impegno sociale, dramma e commedia, e specialisti nel gettare alle ortiche occasioni che avrebbero potuto essere importanti per il nostro cinema, utilizzando strumenti ben noti come l’irruzione di localismi facili, concessioni dialettali scontate, gags varie ecc.
Il timore di realizzare film “troppo seri” spaventava e spaventa tanti produttori nostrani, preoccupati del possibile flop al botteghino.
Un altro trappolone poteva essere il facile sentimentalismo e il conseguente lieto fine consolatorio. In una storia così, era facile indulgere a scene lacrimevoli, a facili discese moralistiche, a dubbie riconciliazioni teatralmente “forti” ed italianamente melodrammatiche.
Ci troviamo di fronte, invece, ad un film maturo che traccia una storia realistica, credibile, senza orpelli retorici e senza concessioni allo spettacolo.
E’ una storia comune, ordinaria, una delle centinaia di storie che avvengono ormai a cadenza quotidiana. Un matrimonio che si sfascia (non importano i motivi), un marito che lascia la casa, moglie e figli e se ne va a vivere da solo.
Vivere da soli, dopo un divorzio o una separazione, in una società come la nostra, è molto spesso una discesa all’inferno.


“Il divorzio è cosa da ricchi” dice un personaggio al protagonista. Ma il nucleo del film non è la denuncia dei problemi sociali e delle difficoltà che i divorziati incontrano. Il film narra soprattutto la parabola esistenziale di un uomo qualunque, noi stessi, quindi, quando scatta la separazione(e il divorzio).
Il protagonista, mirabilmente interpretato da Valerio Mastandrea (uno dei nostri migliori attori), è un uomo come tanti, un lavoro sicuro (al Comune di Roma), una casa, due figli che ama e da cui è amato e una moglie.
Un’avventuretta con una collega manda tutto all’aria. La moglie Elena(un’algida Barbora Bobulova) non riesce più a vivere sotto lo stesso tetto con lui. Non ci sono scenate, c’è solo un confronto schietto da cui emerge l’impossibilità di proseguire il rapporto coniuga
Giulio intraprende così una graduale discesa verso la povertà, l’umiliazione, la vergogna, la frustrazione. L’inferno, insomma.
Lo fa con dignità, lottando con tutte le sue forze per assicurare alla moglie e ai figli il sostentamento che loro spetta per legge. Ma la sua vita si fa sempre più difficile; in poco tempo passa dall’alberghetto alla pensione e infine alla sua automobile come dimora. In lui cresce sempre di più la frustrazione per l’impossibilità di vivere una vita degna di questo nome e poco a poco la sfiducia, il pessimismo e la depressione lo spingono sempre più verso la solitudine fino al gesto estremo del tentativo di suicidio (evidente l’influenza di UMBERTO D).
La telefonata finale sembra ridargli un alito di vita, ma non è dato sapere se ci sarà un seguito più sereno.


Interessante è la progressiva afasia del protagonista: più sprofonda nel tunnel della povertà e della vergogna, più aumenta il suo silenzio. Il linguaggio è essenzialmente comunicazione. Questa serve a relazionarsi con il prossimo. Se però la realtà esterna diventa ostile, non ha più senso comunicare con essa. C’è chi reagisce alle avversità moltiplicando la quantità verbale, supplicando. mentendo, piagnucolando, imprecando, a volte finendo nella logorrea. C’è chi invece, come Giulio, con una dignità che gli fa onore, sceglie di non comunicare più, di tenere esclusivamente per sé la propria umiliazione, la propria vergogna, convinto ormai che sia tutto inutile. Il passo successivo è spesso il suicidio. Il suo tentativo è quasi goffo, visto che c’è ancora, in fondo, voglia di vita. I veri suicidi, si sa, non sbagliano: accadono e basta.


La discesa all’inferno è un’ottima occasione per un affresco della sotto-realtà che convive con quella che si mostra. Qui emerge tutta la fragilità del nostro esistere, la precarietà del nostro apparente benessere, troppo spesso non dipendente da noi ma da variabili esterne impazzite, capaci di precipitarci, come in un brutto sogno, in quell’inferno che credevamo non appartenerci, sgradevole, ma estremamente reale, opprimente e incombente.
Il film non è esente da qualche difetto, come il frettoloso sbocco della crisi coniugale, lo scialbo ruolo della moglie, la poca incisività o, se vogliamo, cattiveria nel descrivere lo squallore e la crudeltà dei rapporti umani quando ci si trova in cattive acque. Questo toglie quel pizzico di sgradevolezza ulteriore che avrebbe reso il film ancora più credibile, ma gli evita di cadere nella possibile trappola del grottesco e cioè caricare troppo i personaggi della corte dei miracoli che gravitano nel sotto-mondo quotidiano.
Un film onesto e valido.

 

Gli equilibristi (2012) Ivano De Matteo