La gente che sta bene

Film riuscito a metà. Buone le intenzioni, ma altalenanti, discontinui e, in qualche caso, discutibili i risultati.
Sono le stesse considerazioni che sono portato a fare del protagonista, Claudio Bisio. Per certi aspetti, straordinariamente tagliato per il ruolo, ma, ahimè, portato a strafare e insufficientemente tenuto a freno nei suoi troppi tic inutili, nelle sue gigionerie fin troppo note e quindi leziose. Per contro Margherita Buy, la moglie, in un ruolo fin troppo dimesso e mortificato. Per contro, Abatantuono interpreta alla perfezione il suo ruolo, denotando una personalità e una padronanza della propria parte notevoli.
I dialoghi non sono abbastanza incisivi. Spesso ripetono cliché banali e contribuiscono a mantenere il film più su un livello da commedia che da dramma sociale, come forse gli autori avrebbero voluto.


Forse per non appesantire il racconto o per intrinseca incapacità di affrontare una tematica così seria, il film oscilla fra la commedia, in certi momenti la farsa e in alcuni, ma sono pochi, la denuncia e il dramma sociale.
Il problema è che l’impianto narrativo poco si adatta alla commedia, cui il solo Bisio sembra credere (e per fare questo, utilizza a dismisura, ben assistito dai primi piani, le sue tipiche espressioni facciali, il suo “vitalismo” esagerato).


Gli altri personaggi sono invece funzionali a un approccio drammatico proprio per l’oggettiva dimensione di denuncia in cui sono chiamati a muoversi. Denuncia di un sistema economico popolato da personaggi normali che vengono inesorabilmente espulsi a favore di veri e propri mascalzoni che interpretano a meraviglia le leggi spietate del mercato.
Le “vittime” sono quindi coloro che non sono ben inserite nella scacchiera sociale. Sono le mogli, sono i figli, sono gli stessi uomini del sistema, colpevoli di non essere abbastanza spietati, abbastanza cinici e abbastanza vigliacchi.
Il film quindi ne esce affetto da zoppìa evidente: da un lato Bisio che annacqua con la sua interpretazione la dimensione drammatica del film, dall’altra una storiaccia di miserie umane, infedeltà, ipocrisie, cinismo e vigliaccheria che nulla hanno a che vedere con i toni leggeri della commedia di costume.


Alla fine, il ravvedimento del protagonista suona falso e posticcio e contribuisce a svilire il messaggio di denuncia che parrebbe e dovrebbe percorrere il film. Così come francamente di bassa lega è la scena alla caserma dei carabinieri: un intermezzo farsesco che non aiuta a elevare la qualità di una storia forse troppo frettolosamente scritta e non ben meditata.

La gente che sta bene (2014) Francesco Patierno

Il generale Della Rovere

Spesso, per capire la situazione attuale o, più in generale, di che pasta siamo fatti noi italiani, è più utile vedere un film che studiare certi trattati sociologici ponderosissimi ma spesso troppo astrusi ed avulsi dalla realtà quotidiana. Indro Montanelli, uno dei maggiori giornalisti del nostro tempo recente, conosceva bene gli italiani. Li aveva conosciuti prima della guerra, durante e poi. E i suoi giudizi non erano certo benevoli.

Per avere un’idea di come fosse messa l’Italia e gli italiani a metà degli anni ’40, potrebbe essere illuminante vedere questo film, basato su un racconto dello stesso Indro e diretto da uno dei nostri migliori registi di sempre e cioè Roberto Rossellini. Il fatto è frutto di finzione, (anche se ci sono elementi riconducibili a fatti veri)ma, spesso, la finzione è più credibile della realtà. Un volgare truffatore diventa ad un certo punto un eroe. Nulla di particolarmente nuovo, si potrebbe dire. Ma la cosa si fa decisamente intrigante quando, man mano che il film avanza, scopriamo che questo cialtrone potrebbe simboleggiare, udite, udite, l’italiano in generale. Ce lo rivelano le ultime parole dell’ufficiale tedesco che, deluso e sorpreso dall’esito imprevisto del suo disegno, si lascia sfuggire una frase che svela il vero punto nodale dell’intero film. “Ho sbagliato io nel giudicarlo”.
Qualcosa di simile accade alla fine de LA GRANDE GUERRA, quando i due protagonisti (Sordi e Gassman), due veri scansafatiche e lavativi, messi di fronte a una scelta suprema, rifiutano di collaborare col nemico e preferiscono essere fucilati. Monicelli e Rossellini (e ovviamente Montanelli) sono concordi nel denunciare tutti i vizi e le debolezze degli italiani, i quali poi, davanti a una scelta decisiva per i loro destini, sono capaci di riscattare, con una morte nobile, tutte le furberie, le bassezze e le figuracce di una vita intera.


Noi italiani siamo abbonati alle figuracce; basterebbe leggere quanto scrive Montanelli partendo dall’Unità d’Italia: il nostro Paese ne esce malissimo. Molto peggio di quanto scrivono eminenti storici stranieri, stranamente più indulgenti. Conoscendo bene noi stessi, rifuggiamo dall’indulgenza e laceriamo le nostre carni quasi con voluttà, ebbri di compiaciuto piacere nel dimostrarci più realisti del re e nel mettere a nudo i nostri peggiori difetti.

Bertone (Vittorio De Sica) è uno che si arrabatta per campare in un Paese ormai in sfacelo. Per farlo, non disdegna di vantare amicizie (fasulle) nel comando tedesco e carpire la buona fede di familiari di persone arrestate dagli occupanti al solo scopo di spillare loro denaro, cercare di appioppare patacche a sprovveduti, vivere dei più miserevoli espedienti, sempre pronto a gabbare il prossimo (fossero pure amici, amanti) pur di racimolare qualche soldo per perderlo magari subito dopo al gioco. In breve, è un miserabile mascalzone. I tedeschi lo arrestano perché lo ha denunciato una povera donna il cui marito è stato fucilato dai nazisti, furiosa per essere stata presa in giro da Bertone che invece le assicurava che presto sarebbe stato liberato. Il comandante tedesco, che lo conosce, escogita un piano per scoprire i capi della Resistenza. Facendogli assumere l’identità di un generale badogliano, Della Rovere, lo fa imprigionare nel carcere in cui si trova il capo della resistenza a Milano, di cui però non si conosce la vera identità. Egli dovrà scoprirlo e denunciarlo al comandante. Il finale è del tutto imprevisto. Bertone si immolerà, interpretando, stavolta in modo eroico, l’ennesimo atto di cialtroneria stavolta contro il proprio tornaconto.

Bertone insomma rappresenta l’italiano “furbo”, inaffidabile, cialtrone e superficiale pronto a tutto pur di trarre vantaggi. Salvo poi, davanti al disprezzo del mondo intero, essere capace, in uno scatto d’orgoglio e dignità, riscattare una vita miseranda con un atto eroico sublime. Pensavo a Bertone quando, recentemente, a Bruxelles, Sarkozy e la Merkel si permettevano sorrisini tra l’ilarità dei presenti, nei confronti del nostro Paese. Salvo poi, di fronte a una manovra disperata, a una leadership seria ed autorevole, assumere un atteggiamento di rispetto quale si conviene verso una Nazione fondatrice dell’Europa.


Rossellini durò molta fatica a convincere De Sica ad interpretare un ruolo drammatico: ma il risultato gli diede ragione. E’ una delle sue migliori interpretazioni. E’ memorabile il suo discorso improvvisato davanti al plotone di esecuzione, quando approfittando del falso ruolo affidatogli dai nazisti, lo capovolge riappropriandosi, in un batter d’occhio, della propria dignità e del proprio orgoglio di italiano. Così come è straordinariamente “vero”, “autentico” il momento in cui, mentre i detenuti attendono, ignari, il plotone d’esecuzione, il rabbino chiama a raccolta i suoi, consapevole di ciò che sta per accadere. E non è retorico il modo in cui Bertone apostrofa il comandante Muller (un grande Hannes Messemer) che gli ordina di denunciare i capi della Resistenza. “Che ne sa lei di cosa può accadere in notti così?”.
Rossellini realizza un film magistrale perché riesce come nessuno a unire il dramma alla commedia, a interpretare in modo così autentico lo spirito, l’animo italiano, pronto a farsi sbeffeggiare, deridere, umiliare ma capace anche, arrivato il momento decisivo, di riscattarsi in un estremo e sublime atto di dignità.

Il generale Della Rovere (1959) Roberto Rossellini

 

Cose nostre – Malavita

Questa non è e non vorrebbe essere una recensione, ma solo qualche riflessione su quanto mi ha suggerito la visione del film di Besson, appunto COSE NOSTRE -MALAVITA.
Quante volte la critica si è scagliata su questo regista? Tante, certo. Ma non è mia intenzione rispolverare ancora il “gap” o “spread” come volete voi, tra critica e pubblico. Tema impegnativo, che richiederebbe molto spazio.
Nel film in questione, però, mai come stavolta (forse) appare chiaro il connubio fra Besson e certo cinema americano. Mi riferisco, in particolar modo, a Quentin Tarantino.
Personalmente, e lo dico subito, “ore rotundo”, sia Besson sia Tarantino non mi fanno impazzire. Il “grottesco” (e come altro definire quel tipo di linguaggio cinematografico?) è genere che richiede una forte dose di autoironia per non scadere da un lato nell’horror (o splatter) o nella farsa dall’altro.


Nella letteratura e nell’arte spagnole, per esempio, il grottesco è elemento fondamentale che aiuta a capire l'”anima” di quel Paese. Penso al cosiddetto “esperpento”, oppure a “las pinturas negras” di Goya, oppure ancora, in ambito cinematografico, ad Almodóvar, tra gli altri. La presenza di certa ironia aiuta a “digerire” il chiaro irrealismo del contesto. Ma chi ha detto che il realismo sia la misura accettabile per valutare un film? Il surrealismo, si sa, è un ovvio superamento del realismo imperante dell’Ottocento e rappresenta una conquista fondamentale per l’arte moderna. Buñuel, ne è un esempio, anche se spesso non nasconde di ispirarsi a certe tematiche di Galdos, eccellente scrittore realista.
Il grottesco presente nel film in esame è arricchito da una certa ironia, senza dubbio, anche se, secondo me, Besson si fa prendere la mano e finisce per fare uno spaghetti-noir.
Appartengo a una categoria di cinefili che, per tutta una serie di motivi, non ama Tarantino né gli spaghetti-western nè, tantomeno, Luc Besson. Non amo la contaminazione di facile effetto, dell’esagerazione fine a se stessa. Non amo la superficialità, il tritatutto che mescola generi, dialoghi, senza un’impostazione coerente, una base culturale che sorregga un tema qualsiasi e lo innervi con un credibile asse ideologico, pur se elementare. Mescolare tutto significa confondere le idee, annacquare il contenuto e mortificarlo con la povertà delle idee cui si crede di ovviare con la grancassa dell’effettaccio gratuito.
Con queste premesse, direi che c’è un elemento da tenere presente in questo film e cioè il richiamo che Besson fa del cinema americano; lo fa in due modi, con riferimenti diretti ed indiretti.


Quando un regista cita un regista o un film, magari solo rifacendone certe scene, significa che sta avvisando il pubblico riguardo ai suoi gusti. E’ come se dichiarasse di amare quei registi e quei film, come se appartenesse al loro modo di fare cinema. E’ come una dedica. E la dedica è rivolta a chi si ama o si stima.
Qui Besson cita due registi, Minnelli e Scorsese. Ma non si limita a citarli. Il film presenta infatti chiari spunti ascrivibili ai due registi americani.


La figura di De Niro, ad esempio, richiama chiaramente quella di Jimmy Conway in QUEI BRAVI RAGAZZI (anche se lì il pentito non è lui ma Henry Hill (Ray Liotta); Tommy Lee Jones ricorda invece il personaggio di Travis Lehman in COLPEVOLE D’INNOCENZA, di Bruce Beresford.
C’è molto Scorsese poi nel film. lo vedi nelle atmosfere tipiche sue, come il barbecue in giardino, la violenza esagerata, gli stereotipi tipici del genere Mafia-movie.
Piuttosto, ciò che intriga è il richiamo esplicito a Minnelli, nel suo splendido QUALCUNO VERRA’.


A torto o a ragione, è uno dei suoi film più conosciuti. Per quel che mi riguarda, mi azzarderei a dire che si tratta di un capolavoro. Si tratta di un melodramma, genere a lui così caro.
Ora che c’entra Scorsese con Mannelli? Sono entrambi di origine italiana, d’accordo, ma non è certo questa la chiave per capire il nesso.
Credo che non ci sia film più distante da Scorsese di QUALCUNO VERRA’. Ma forse è proprio qui il punto. Che mai potrebbe dire in pubblico De Niro di un film così? Certo, c’erano Sinatra e Dean Martin (facile l’accostamento alla mafia italo-americana). C’era il gangster che alla fine finisce per uccidere involontariamente Shirley MacLaine, ma l’impianto è melodrammatico, assolutamente e magnificamente.
Ora cosa c’è di più lontano da un film di gangster di un melodramma? Sì, certo, c’è Frank Capra con il suo ANGELI CON LA PISTOLA, ma non è questo il punto. Il punto è che Besson ama Minnelli, anche se non te l’aspettavi.


Besson ama Minnelli perchè ama anche il cinema classico americano e il cinema classico americano è, tra gli altri, Minnelli. Lo spunto melodrammatico di COSE NOSTRE-MALAVITA è evidente ad esempio nella scena in cui Belle Blake (Dianna Agron) è pronta a gettarsi nel vuoto quando dà l’addio al professorino, che dopo averla posseduta, non intende proseguire la relazione.
Il punto è che la chiave per capire il nesso fra Besson, Minnelli e Scorsese è il famoso tritatutto: è fin troppo ovvio che Besson adora il cinema americano, ma è altrettanto ovvio che citare Minnelli e Scorsese dovrebbe impegnare il regista ad un equilibrismo terribilmente arduo da raggiungere. Mescolare Scorsese e Minnelli è una sfida che fa tremare i polsi. Qualcosa come mettere insieme il fuoco e la benzina.
Il risultato è lo scoppio.
L’ambientazione di QUALCUNO VERRA’ è quanto di meglio il cinema americano ha prodotto riguardo alla ricerca sociologica sulla provincia americana degli anni ’50. (Anche se il film vorrebbe essere ambientato alla fine degli anni ’40, come avviene nel romanzo di James Jones da cui il film è tratto).


Qualcuno ha parlato di tipologie più che di veri personaggi, ma ben vengano queste tipologie in un film odierno!
Ora, che ambientazione ha prodotto Besson della cittadina normanna dove Blake (De Niro) si nasconde con la famiglia?
Parliamo di stereotipi? Ok, allora ecco lo stereotipo del francese che schifa gli hamburger, del municipio che non si cura di riparare l’impianto di depurazione, del facile anti-americanismo: ma il problema non sta qui, sta piuttosto nella risposta che De Niro dà a tutto questo. A colpi di spranga o con la dinamite.
Ora, capite che è difficile prendere sul serio un film così.
L’auto-ironia, si diceva all’inizio.
Prendiamo cioè questo film come una sgangherata sghignazzata sul cinema, senza affrontare per forza dei ragionamenti più o meno seri, senza tentare una qualsivoglia critica ragionata.
Prendiamo il tutto e ridiamoci sopra, proprio come quei bravi ragazzi, da Liotta a Joe Pesci a De Niro e Sorvino e mettiamola così.

Cose nostre- Malavita (The Family) (2013) Luc Besson

Colombo e l’evoluzione della detective-story

L’addio del tenente Colombo (Columbo nell’originale americano) induce ad alcune riflessioni sulla detective-story, uno dei generi più frequentati del cinema e della TV americani. La figura sciatta, dall’aspetto così dimesso e dai modi così poco abituali per un tenete di polizia, nasce da un’idea che vorrebbe “creare” un’immagine diversa del solito tenente di polizia. La serie TV nasce nel 1968, anno, come si sa, cruciale per Hollywood e l’avvento di un cinema nuovo, slegato dai cliché abituali che avevano allontanato dalle sale molti spettatori.


Il cinema aveva abituato gli spettatori alle figure, ormai superate, di Sam Spade e Philip Marlowe (rispettivamente creati dalla penna di Dashiell Hammett e Raymond Chandler). Il genere poliziesco aveva poi virato su storie che si rifacevano, in senso lato, a quelle figure “modernizzate” con un l’uso di scene sempre più violente, in ambienti urbani degradati, ma che sembravano incontrare l’interesse di un pubblico sempre più numeroso. Il binomio violenza e sesso, condito dal ricorso allo slang più attuale, come perno di storie sempre più ambigue (dove cioè il castigo del “cattivo” era spesso ottenuto con il ricorso sempre più diffuso di mezzi e strumenti moralmente illeciti da parte delle forze di polizia) aveva fatto presa e dal 1968 in poi, sarebbe stato quasi sempre un elemento cardine per ogni poliziesco ambizioso.
E’ superfluo citare l’enorme successo della figura dell’ispettore Callaghan e dei suoi mezzi spesso illegali o della serie de IL GIUSTIZIERE DELLA NOTTE.
La televisione americana cominciò ad accarezzare l’idea di lanciare serie tv che avessero come protagonisti degli ufficiali di polizia, come appunto Colombo (Peter Falk iniziata nel 1968 e terminata nel 2003 per la NBC prima e la ABC dopo, Kojak (Telly Savalas)dal 1973 al 1978 per la CBS, Starsky e Hutch (Paul Michael Glaser e David Soul)dal 1975 al 1979 per la ABC, Le strade di San Francisco (Karl Malden e Michael Douglas) dal 1972 al 1977 per la ABC. A differenza del cinema, si trattava di serie ovviamente depurate da storie e scene scabrose, visto il pubblico cui erano rivolte. La figura del detective subiva, in queste serie, una modificazione notevole. Non c’era traccia di Harry lo sporco e dei suoi sporchi metodi. Non c’era traccia della pericolosa deriva giustizialista con i tratti di Charles Bronson de IL GIUSTIZIERE DELLA NOTTE. Veniva tolta inoltre anche il secondo elemento del binomio e cioè il sesso. Queste serie presentavano detective che assomigliavano ad onesti, magari un po’ cinici, padri di famiglia alle prese con il crimine.


Nascevano così diverse figure, come quella del detective bonaccione, ironico ma severo alla bisogna di Telly Savalas (Kojak), del buon poliziotto all’antica con tanto di nipotina a casa ad aspettarlo di Karl Malden, oppure di due giovanotti tutt’azione e poche parole di Paul Glaser e David Soul (Starsky e Hutch). Ma la serie che risultò più longeva e che incontrò i maggiori favori di pubblico fu IL TENENTE COLOMBO. Quando venne ideata, Frank Sinatra interpretava forse il canto del cigno del poliziesco tradizionale nell’ottimo INCHIESTA PERCICOLOSA (The Detective) di Gordon Douglas, dove il tema dell’omosessualità si affacciava timidamente sulla scena, quasi solo sfiorandolo.
Colombo è un tenente della polizia di Los Angeles, dii cui non è dato sapere il nome (ma nel primo episodio della serie, mentre firma, sembra che si tratti di Frank. Ha un cane che non chiama mai per nome. Ha una moglie che non appare mai ma che spesso lo aiuta, a sentir lui, nelle indagini. Ha una pistola che non usa mai (salvo nell’episodio PLAYBACK). Gli ideatori della serie, William Link e Richard Levinson, sfidarono il senso comune del poliziesco mostrando fin dall’inizio chi è il colpevole. E’ un caso quindi di storia poliziesca rovesciata, in cui tutti noi sappiamo chi è il colpevole e dove l’interesse sta tutto nel metodo usato da Columbo per arrivare a smascherarlo.
E’ di origine italiana (ma Falk era americano di origine ebraica, anche se in molti film interpreta ruoli da italiano), ha un occhio irregolare (ma è dovuto, nella realtà a un’operazione che Falk subì da piccolo per l’asportazione di un tumore). Indossa un impermeabile sgualcito, dozzinale (che Falk stesso ammise di aver comprato in un negozio di bassa lega di New York prima di inziare le riprese del primo episodio. Ha tra le mani un sigaro spento, i suoi capelli sono perennemente in disordine e guida una Peugeot 403 del 1959, quindi molto vecchia e usurata. All’inizio non pensarono a lui all’Universal per il ruolo del tenente. Si pensò a Bert Freed (che in effetti interpretò il primo episodio, poi a Thomas Mitchell (il simpatico ubriacone de OMBRE ROSSE) e a Lee J.Cobb.
La serie arriva in Italia nel 1974 (su Telecapodistria) ma in RAI solo nel 1977 a dieci anni dall’esordio.
Perché piace Colombo? Potrebbero essere molte le ragioni, ma credo che si tratti di una tipologia che ha in sé i germi della conquista del favore del pubblico. Va anzitutto detto che il pubblico TV non è di solito quello che va al cinema. Quando parlo di pubblico TV, mi riferisco ovviamente a chi trascorre molte ore davanti al televisore e, di solito, non frequenta, se non raramente le sale cinematografiche. Non è quindi strano che due tipologie di detective così opposte come Harry lo sporco e Colombo, abbiano entrambe ottenuto un successo così importante.
Colombo piace perché non è un prepotente: usa molto il cervello, è modesto, non si atteggia a superman, intrattiene relazioni con i personaggi coinvolti nell’inchiesta improntate alla professionalità e cortesia. Certo non è un modello di eleganza e di stile. Non si toglie l’impermeabile, tiene il sigaro perennemente in mano, scribacchia su un taccuino sgualcito, si gratta spesso la testa. Ma la sua è la tecnica del ragno: una volta individuata la preda, la segue, la contatta, un po’ la mette in allarme e un po’ la rassicura, insiste e alla fine l’agguanta.


La televisione tedesca creò una figura rassicurante come Colombo, dotandola di alcune sue caratteristiche come la rinuncia alla violenza, all’uso delle armi (se non in casi estremi), alla predilezione per la psicologia attraverso i contatti con i sospetti, ma facendole assumere tratti più in sintonia con la sensibilità del pubblico tedesco. Parliamo ovviamente dell’ispettore Derrick, le cui serie furono trasmesse dal 1974 e che volevano essere una risposta alla vera e propria invasione di serie poliziesche americane.
In effetti l’apparente stranezza e l’aspetto così dimesso di Colombo sono caratteristiche precipue che segnano, per così dire, una specie di tratto distintivo del personaggio. Un altro di questi tratti è il suo immancabile dietro front sul punto di uscire (e far tirare un sospiro di sollievo al colpevole, che solo noi conosciamo), per tornare indietro di qualche passo e pronunciare la famosa frase:”Ah, dimenticavo una cosa!”.
La serie TV, proprio perché seriale, ha bisogno di tratti distintivi ripetitivi che servono ad identificare il protagonista e chiarire al pubblico che si tratta sempre dello stesso personaggio. I vari tic non sono quindi invenzioni estemporanee dei vari sceneggiatori, ma vere e proprie boe che marcano un percorso di identificazione del personaggio, con tutte le sue debolezze e le sue capacità.
L’evoluzione della figura del detective quindi, se nel cinema acquisisce caratteri sempre più dirompenti e trasgressivi, nella televisione sembra percorrere un cammino più tradizionale, dove il Male della società viene in certo modo edulcorato e contrastato da eroi domestici, un po’ romantici e un po’ fuori luogo. Intendo dire cioè che il detective TV è un personaggio “creato” in studio che poco a che fare con le reali vicende della quotidianità, alle prese con una criminalità sempre più spietata, in un tessuto urbano (almeno nelle metropoli) spesso ai limiti della gestibilità.
Il cinema, pur se spesso inquinato da ambiguità ideologiche e sociali, sembra meglio rappresentare la realtà e diventare quindi una sorta di specchio davanti a cui veniamo spesso spinti a sbattere la testa, poco propensi, come siamo, a guardare in faccia la durissima realtà di ogni giorno.
Colombo quindi, più che una vera e propria evoluzione del detective, è un gioco di studio, una sorta di personaggio creato, costruito a tavolino con caratteristiche tali da piacere alla grande maggioranza dei telespettatori incalliti, pur se il personaggio che ne esce, per merito di abili sceneggiatori ed ideatori, finisce per essere gradevole e universalmente apprezzato.

Claude Sautet, uno di noi

Sono già 15 anni che Claude Sautet non è più tra noi. Eppure il suo cinema è quanto mai presente, attuale, importante.
E non è raro vedere oggi films che, volutamente o no, si ispirano al suo cinema, come ad esempio il recente NON DICO ALTRO [Enough Said] di Nicole Holofcener.
Il cinema francese, come si sa, è fratello, magari minore, magari no, dello straordinario tesoro della letteratura d’Oltralpe. Per questo motivo, forse, tanto suo cinema è soprattutto fatto di parole, di intrecci, di relazioni umane.
Tuttavia, nel cinema di Sautet non troveremo particolari innovazioni, esperimenti sul linguaggio cinematografico, sul “découpage”. Il suo cinema non è rivoluzionario, nel senso che si intende con questo termine. Le sue sono storie, racconti di vita comune, di gente comune. Spesso i suoi ambienti sono le “brasseries” o i “bistrots”, luogo preferito per spuntini e scambi di battute nelle pause di lavoro. Ancora più spesso, le sue storie raccontano personaggi apparentemente bene inseriti nel loro contesto sociale. Svolgono le loro attività, escono spesso con gli amici, vivono con apparente soddisfazione la loro vita. Questa tranquillità viene infranta da improvvisi accadimenti traumatici che la mettono a dura prova e che obbligano a riflettere seriamente su se stessi, a mettersi in discussione, a ri-vedere il proprio modo di agire e pensare.
Pur trattando storie quotidiane, non c’è mai nulla di scontato, di banale in Sautet. Ogni storia è trattata in modo onesto, autentico. Ogni storia è come vissuta personalmente, con passione e sincerità. Non ci sono le classiche convenzioni delle commedie, gli happy-end stucchevoli, le false soluzioni rassicuranti. Nei suoi film si respira il senso spesso tragico della vita, la constatazione della propria inadeguatezza per le esigenze dell’altro, degli altri e del mondo in generale.


Non troveremo nei suoi film le atmosfere noir, le scenate melodrammatiche, l’azione mozzafiato, la violenza gratuita ed eccessiva, il turpiloquio, le battute volgari, la comicità, la farsa. E non troveremo nemmeno il cinema di denuncia, il deciso impegno politico, la ribellione al sistema. Il suo è un cinema parlato e non urlato, composto di persone comuni in ambienti quotidiani e in situazioni quotidiane.


Sarebbe erroneo però considerare i suoi personaggi gli uni uguali agli altri. Come ha dichiarato lo stesso Sautet in un’intervista (1), c’è una doppia natura in lui che si riflette nei suoi personaggi. In MADO e IL COMMISSARIO PELISSIER i toni sono attenuati, in E’ SIMPATICO MA GLI ROMPEREI IL MUSO e TRE AMICI, LE MOGLI E(AFFETTUOSAMENTE) LE ALTRE, i personaggi spesso sono alterati. Si direbbe comunque che, con l’andar del tempo, Sautet opti per un cinema di sussurri, di conversazioni pacate, dove i contrasti, dopo un momento di forte tensione, tendono a tornare sui soliti binari di vite vissute con compostezza.
Cessati gli echi del maggio ’68, ci troviamo di fronte a personaggi che, come ricorda Claire Vassé (2), “compiono i primi passi verso un’era neo-liberale che prepara l’avvento del giscardismo. Sautet è riuscito così bene a descrivere questa nuova borghesia che si è avuto la tendenza a considerare il suo cinema in osmosi con il suo tempo”). “E’ questa delicata alchimia”, scrive Franck Garbarz (3), “fra le traiettorie d’un pugno di personaggi e un contesto sociale chiaramente delimitato che rende i protagonisti di Sautet così immediatamente vicini a noi e qualifica tutto il suo cinema.”
Un cinema che, a differenza di quel che si pensa, vista la semplicità apparente della messa in scena, si basa su “una secchezza di tratto, un’economia nel trattamento del racconto, una precisione della direzione …caratteristiche che i critici più avveduti avevano saputo captare fin dai suoi primi films” (4).
Un cinema di uomini e donne, di relazioni appassionate oppure abitudinarie, sbilanciate, interessate, stanche. Un cinema di uomini falsamente sicuri di sé, ma fragili; di donne apparentemente fragili e magari solo fragili, ma autentiche, proprio come le sentiamo e vediamo quotidianamente.
Un cinema che ci fa sentire dentro le sue storie, perché Sautet lo capiamo e quindi lo amiamo e perché, diciamolo pure, Sautet è uno di noi.

(1) Entretien Claude Sautet, MICHEL CIMENT, POSITIF n.485 luglio-agosto 2001
(2) Les choses de la vie, CLAIRE VASSE’, op.cit. p.25
(3) César et Rosalie, FRANCK GARBARZ, op.cit. p. 27
(4) Nelly et M.Arnaud, OLIVIER DE BRUYN, op.cit. p.35

 

Cirkus Columbia

 

Tanovic realizza con questo film un’opera matura ed efficace sulla tragedia jugoslava narrandoci una piccola storia fatta di rancori sopiti e improvvisamente esplosi, di soprusi, di prepotenza e di grande umanità.


Se ne ricava alla fine un sentimento di profondo disagio ed amarezza per come un’intera nazione è saltata per aria. Con rara sapienza, Tanovic mescola piccole storie private e grandi scontri etnici ed ideologici. Con poche pennellate, il regista fa capire quel che c’è di dietro questa tragedia nazionale (lo storico dissidio ideologico, etnico e sociale fra croati e serbi) senza addentrarsi in digressioni e lungaggini, ma narrando una piccola storia apparentemente insignificante ma terribilmente eloquente.
Il percorso narrativo di Tanovic parte appunto dai rancori privati, dalle incomprensioni passate relativi a una coppia ormai in rotta come metafora reale degli odi etnici ed ideologici di un intero Paese. Il protagonista, Divko Buntic (Predrag Manojlovic), un energumeno ignorante e prepotente, arricchitosi dopo qualche anno di lavoro in Germania, torna con la giovane amante in Erzegovina, terra da cui è partito. Dopo aver fatto sloggiare dalla sua casa la moglie e il figlio che aveva lasciato senza mezzi quando si era recato in Germania, comincia a preparare la rivolta con alcuni caporioni antigovernativi e li foraggia a dovere, ricevendone in cambio favori e deferenza. Poco a poco, comincia a riflettere e mutare il proprio atteggiamento, davanti alle macerie morali e affettive passate, presenti e future; di pari passo il Paese marcia in direzione opposta. Sono sempre più insostenibili le relazioni fra i militari della locale caserma e le autorità locali. Ad un progressivo riavvicinamento fra i componenti della famiglia di Divko, fanno da contrappunto i venti di guerra sempre più intensi e minacciosi.
La scena finale e cioè il ricongiungimento fra Lucija e Divko, avviene su una giostra, mentre a poche centinaia di metri, cominciano a piovere sul villaggio le prime bombe.
La struttura narrativa presenta quindi una dicotomia di percorsi opposti che suggerisce qual è il tema che fa da sfondo alla storia.


Da un lato cioè si parte da una situazione di rottura famigliare che, grazie al coraggio e alla dedizione di una donna straordinaria (la moglie di Divko, Mira Furlan) e cioè Lucija) e all’indole bonaria del figlio Martin (Boris Ler), poco a poco va ricomponendosi, fino alla riconciliazione finale.
Dall’altro, si parte da un quadro socio-politico sostanzialmente stabile, pur se in fibrillazione, che va velocemente deteriorandosi fino a sfociare in un vero proprio scontro brutale tra etnie ed ideologie che mai si erano veramente integrate.
Se una famiglia, dopo essere andata in pezzi, riesce a ricomporsi, mille altri microcosmi sociali improvvisamente deflagrano con una violenza e un rancore da tempo sopito e che a noi spettatori riescono francamente inauditi. Amicizie giovanili che odi atavici improvvisamente riemersi mandano in frantumi. Frequentazioni amichevoli, parentele miste, contiguità etniche: tutto esplode in un barbarico fragore assordante che riporta indietro di secoli un’umanità che si era costruita una propria via di convivenza pacifica, frutto di mediazione, barriera comune contro nemici esterni, al prezzo di guerre durissime, lutti, dolori, sangue e lacrime.


L’accostamento della piccola storia (la famiglia di Divko) a quella più grande (quella cioè della Regione), vorrebbe essere un segnale di come sia possibile, anche per vere e proprie “bestie” come Divko, riconciliarsi e tornare a vivere e convivere serenamente. La pioggia di bombe che cade sulla cittadina sta a testimoniare quanto si è lontani da ogni possibile accordo. La lenta parabola del riavvicinamento fra Divko e la sua famiglia è descritta magistralmente. La tecnica è quella di raffigurare piccoli quadretti quotidiani, familiari e non, tipici di un piccolo centro di provincia. Questi quadretti diventano il tessuto connettivo che aiuta a capire il progressivo ravvedimento(o riavvicinamento)di Divko. Come se tale tessuto fosse la ragione stessa che sta alla base della convivenza pacifica tra etnie, ideologie diverse. Divko, quando era in Germania, spediva denaro alla sua fazione per aiutare la divisione e fomentare l’odio. Una volta tornato in patria per portare a termine il suo sporco “lavoro”, si trova davanti una comunità in ebollizione che egli stesso ha contribuito materialmente a far saltare per aria. Pur se sta esplodendo la pentola a pressione, la gente semplice continua a frequentarsi, a frequentare gli stessi locali, lo stesso specchio d’acqua per un tuffo, ad ascoltare le stesse canzoni, a darsi una mano in caso di richiesta d’aiuto. A differenza di questa comunità pacifica, alcuni individui, ammalati di odio e di ignoranza, si riuniscono per dare vita alla rivolta che ha lo scopo di cacciare gli odiati nemici etnici.
Poco a poco, Divko si rende conto di quale bestialità si è reso complice, finanziando i suoi amici e preparando il terreno per lo scoppio delle ostilità. La parabola morale di Divko arriva al culmine quando, per salvare il proprio figlio, resosi responsabile di un atto di “tradimento”, lo porta fuori dal luogo dove è tenuto prigioniero. Poi, consegnando la sua auto all’ex-odiato ufficiale serbo, gli affida il proprio figlio e la sua amante e li fa fuggire all’estero. Si riprende la sua vita, riaccoglie sua moglie e si appresta ad affrontare i suoi “amici” che gli chiederanno la ragione del suo comportamento. Sembra che a Divko non importi molto come andrà a finire, visto che ha riscoperto quello che da tempo andava cercando.
Divko è un vero “duro” che incute timore e rispetto, ma questo forse non è sufficiente per sottrarsi alle conseguenze del suo gesto.
Il mostro che egli ha contribuito a far riemergere dai fantasmi del passato sta ora per aggredirlo.
L’apparente banalità delle situazioni quotidiane è in realtà un sapiente ritratto di un’ordinaria storia di follia, tratteggiato con pennellate di rara bellezza ed inquietante realismo.

Cirkus Columbia (2010) Danis Tanovic

C’è sempre un domani

 

La Warner Bros., come le altre Majors hollywoodiane, si dette da fare per sostenere, con la potenza del mezzo espressivo cinematografico, gli sforzi dell’amministrazione Roosevelt e Truman nella campagna bellica. Si trattava,tra l’altro, di produrre film che esaltassero il comportamento dei propri connazionali in armi e, per il fronte interno, delle famiglie incrollabilmente fiduciose nel buon esito finale e nobilmente disposte a rinunciare a piccoli agi quotidiani (burro, zucchero ecc.) a vantaggio degli enormi costi di guerra.
Alcuni di questi film della Warner travalicano di molto la soglia del prodotto propagandistico per diventare veri e propri capolavori, valga per tutti CASABLANCA (di Michael Curtiz). In altri casi, la grande professionalità dello Studio rese pregevoli films che, altrimenti, sarebbero stati considerati come di puro sostegno all’impegno armato.
Il film in questione è diretto da Delmer Daves che aveva esordito alla regia con DESTINAZIONE TOKYO (1943). Si tratta di un regista capace di realizzare opere veramente notevoli (LA FUGA, QUEL TRENO PER YUMA, L’AMANTE INDIANA, SCANDALO AL SOLE ecc.) ed altre di medio livello. E’ un regista che ha una certa inclinazione verso il melodramma ; non ci ha lasciato uno stile suo, personale, infine, mi pare di poter dire che il suo approccio al film è rilassato, senza quella particolare tensione che diventa spesso necessaria per ottenere il giusto climax drammatico. Il copione diventa importante quanto la stessa regia e gli attori vengono lasciati recitare senza forzare.
E’ importante notare questo fatto perché sia l’attore protagonista, John Garfield, sia gli sceneggiatori, A.I.Bezzerides (LA STRADA MAESTRA, NEVE ROSSA, UN BACIO E UNA PISTOLA), Alvah Bessie (Obiettivo Burma) e Albert Maltz (IL FUORILEGGE, MASCHERE E PUGNALI, LA TUNICA) sono tra le migliori intelligenze di quel periodo, autori di sceneggiature di film passati alla storia del cinema. Garfield, poi, è attore di grande sensibilità e di notevole impegno, professionale e civile. Insomma, C’E’ SEMPRE UN DOMANI merita un’analisi non superficiale, come forse è successo in passato. Accade infatti che dietro a alle apparenze, a volte, sia possibile rilevare elementi che concorrono a rivalutare certi giudizi.
Tutto parte da una storia vera. Un operaio saldatore di Filadelfia, Al Schmid, si arruola nei Marines e viene spedito nel Pacifico dove, a Guadalcanal, si batte da eroe ma alla fine viene colpito da una granata e perde la vista. Tornato in America, dopo un periodo di riabilitazione in un ospedale militare, torna a Filadelfia e si ricongiunge con la sua fidanzata che lo ha atteso e accolto pur nella sua menomazione.
Storie come questa vennero pubblicate su giornali e riviste come esempi di eroismo e, in certi casi, furono adattate per il cinema.
Nel caso in esame, uno scrittore, Roger Butterfield, colpito dalla storia, scrisse un libro dal titolo AL SCHMID MARINE. Bezzerides e Bessie ne trassero un soggetto di 26 pagine. Questo fu poi adattato per il cinema da Martin Borowski. Albert Maltz poi lo riscrisse e la sua fu la sceneggiatura finale. Nel frattempo, John Garfield, ancora prima di sapere del progetto della WB, si recò in ospedale per conoscere Schmid. Quando poi seppe che la WB aveva deciso di produrre il film, andò a Filadelfia e rimase qualche settimana presso la coppia (Schmid e la moglie) allo scopo di immedesimarsi il più possibile con il personaggio. Si era in precedenza recato presso alcuni ospedali militari americani in Italia per familiarizzarsi con i problemi e le situazioni di tali ambienti.


Il film si inserisce nel filone del ritorno a casa dei reduci dalla seconda guerra mondiale. Hollywood ha sfornato, per questo genere, prodotti di qualità, alcuni dei quali veramente straordinari, come I MIGLIORI ANNI DELLA NOSTRA VITA di William Wyler (1946) o ANIME FERITE di Edward Dmytryk (1946). Più che sulle vicende belliche, i film segnalavano le difficoltà di reinserimento di militari, amareggiati per l’indifferenza con cui venivano accolti e la scarsa riconoscenza di un Paese per il quale avevano rischiato più volte la vita e che ora non sembrava voler agevolarli.
In C’E SEMPRE UN DOMANI, il tema del ritorno a casa non è però quello principale. La questione è molto più complessa. La critica ha notato che questo film raffigura il percorso civile e morale di un cittadino medio americano rispetto all’atteggiamento che il Paese si aspetta in un momento drammatico come una guerra. Il percorso di presa di coscienza civile che Schmid compie ricorda quello di altri protagonisti di film significativi come Rick in CASABLANCA (1942) del citato Curtiz o Harry Morgan in ACQUE DEL SUD (1945) o il meccanico d’aereo Winocki in ARCIPELAGO IN FIAMME (1943)entrambi di Howard Hawks. Il punto di partenza è l’idiosincrasia verso il dovere civile da parte dei protagonisti. Si tratta di personaggi, apparentemente avulsi da ciò che accade attorno a loro, interessati solo alle loro attività, ai benefici economici, alla loro quotidianità. Nulla sembra scuoterli e addirittura mostrano un certo fastidio per le tirate retoriche, per i richiami all’impegno civile. Il loro è un piccolo mondo quotidiano marcato da un notevole menefreghismo sociale e da un sostanziale egoismo.
Qualcosa poi succede. Nel caso in esame, è l’annuncio di un collega di lavoro di Schmid di essersi arruolato nel corpo dei Marines per andare a combattere. E’ un fatto che appare incomprensibile per uno come Schmid. Il film lo dipinge all’inizio come un personaggio renitente ad ogni tipo di impegno che non sia il suo lavoro quotidiano. Lo dimostra il suo comportamento nei confronti della ragazza che una coppia di amici gli presenta, nella speranza di fargli mettere la testa a posto. Egli si comporta in modo maleducato con lei e sembra non interessato ad un rapporto serio. L’atteggiamento dignitoso e fermo della ragazza comincia a sgretolare poco a poco la sua scorza di donnaiolo impenitente. C’è quindi una doppia presa di coscienza da parte di Schmid: una di tipo civile e un’altra di tipo morale. Questo mutato atteggiamento diventa poi terreno fertile per maturare la scelta di arruolarsi e quella di iniziare una relazione seria con la ragazza.


I films citati sono quindi la storia di un percorso che parte da una posizione egoistica e finisce poi con la scelta dell’impegno. Hollywood, su invito del Pentagono e della Casa Bianca, costruisce così la base narrativa su cui elaborare una trama. In queste storie appare chiaro il messaggio. Esso è rivolto ad una Nazione ancora non del tutto convinta della necessità dell’impegno bellico, nonostante Pearl Harbor (7 dicembre 1941) e la conseguente dichiarazione di guerra contro il Giappone.
L’altro elemento base in questo film è il ritorno a casa del reduce. Non è solo una questione di inserimento sociale. Qui il problema è molto più grave. La cecità diventa una barriera che Schmid non ha intenzione di superare. Non è tanto la menomazione in sé quanto la chiusura da parte di Schmid verso tutto e tutti. Questa chiusura nasconde in realtà due paure: quella di essere incapace di superare le prove che la vita, prima o poi, lo chiamerà ad affrontare e quella secondo la quale Ruth, la fidanzata, sceglie di restargli vicino solo per pietà. Ma non siamo ancora arrivati al nocciolo della questione. Tutti questi sono elementi importanti, certo; ma c’è ancora qualcosa da dire e che, forse, spiega la ragione ultima del film stesso.


Quando un attore come John Garfield si prende così a cuore la vicenda di Schmid e quando scrittori socialmente impegnati come quelli sopra ricordati accettano di scrivere una sceneggiatura per un film di “sostegno” alla Nazione in guerra, c’è qualcosa che va oltre il classico impegno verso il proprio Paese. Mi riferisco al sapiente uso della terminologia e ad alcune frasi che apparentemente sembrano filar via senza particolare peso nel corso del film. Mi riferisco ad esempio all’uso dell’aggettivo dimostrativo che viene spesso messo davanti alla parola guerra soprattutto dal compagno commilitone di Schmid (Garfield), Lee Diamond (e cioè Dane Clark). Sembra che ci tenga in modo particolare ad usare l’espressione “questa guerra”. Questo fa pensare che l’impegno profuso dai militari come Clark e come Garfield sia soprattutto rivolto verso questa guerra in particolare e non altre. Sembra che questa (la seconda guerra mondiale) abbia caratteristiche diverse dalle altre guerre. Il contesto in cui viene pronunciata è legato alla condizione di Clark, che manifesta ad un certo punto tutta la sua amarezza nel constatare quanto esistano ancora le discriminazione di tipo religioso e razzista in America. Come cioè sia discriminante che egli vada alla sinagoga e non in chiesa, e il fatto di essere ebreo e non cristiano. “Io e te – dirà ad un certo punto- abbiamo bisogno di una patria dove nessuno possa essere maltrattato per nessuna ragione”. Nel finale del film, poi, Ruth dirà a Garfield che questa guerra è combattuta per la causa della libertà. Una frase che suona strana se si pensa che gli americani sono scesi in guerra soprattutto per vendicare l’infamia dell’attacco proditorio a Pearl Harbor e sconfiggere un nemico che minacciava di diventare la prima potenza nell’area asiatica e del Pacifico. E’ una frase che suonerebbe meglio in bocca ad un europeo che prende le armi per combattere contro il nazismo o il fascismo, negatori della libertà.
Si tratta di espressioni che, inserite in un contesto classico e abbastanza convenzionale di prodotto di sostegno al Governo, aprono squarci di originalità e anticonvenzionalismo che vale la pena approfondire.
Nella vita reale, ad esempio, era Garfield ad essere ebreo e non Dane Clark. Ricordiamo, a tal proposito, la sua intensa “performance” in LA BARRIERA INVISIBILE”(1948) di Elia Kazan. La partecipazione, insomma, a questa guerra, da parte di tanti giovani progressisti e l’avallo da parte di maturi intellettuali “liberal” democratici e progressisti, non ha tanto lo scopo di vendicarsi dell’attacco a Pearl Harbor, quanto di preparare il Paese a una stagione nuova, a rilanciarlo su basi di equità di diritti e di opportunità, di giustizia sociale e di libertà “tout court”.
L’avvento al potere da parte di Hitler nel 1933, dopo la marcia su Roma e la presa del potere da parte di Mussolini nel 1922, la guerra civile di Spagna (1936-1939), a cui partecipò lo stesso Alvah Bessie, l’attacco nipponico alla Cina, avevano svegliato la coscienza civile di tanti americani. Tuttavia, nonostante la sempre più chiara politica dittatoriale, la persecuzione di ogni manifestazione di dissenso e l’inquietante corsa agli armamenti da parte dei Paesi coinvolti, l’opinione pubblica americana, assieme alla politica governativa di non intervento, restava sostanzialmente disinteressata a quanto accadeva oltre oceano.
Sorgevano così movimenti progressisti sempre più organizzati allo scopo di sensibilizzare gli americani non solo verso ciò che succedeva in Asia e in Europa, ma anche le ingiustizie e gli abusi che venivano commessi negli USA nei confronti delle minoranze razziali, religiose ed etniche. L’azione di questi movimenti ed associazioni cominciava a destare qualche preoccupazione in certi ambienti, come ad esempio l’FBI, il cui direttore Edgar G.Hoover, sembrava allarmato da possibili infiltrazioni di spie nemiche altrettanto (se non di più) quanto dall’operato di cellule interne potenzialmente sovversive. L’agenzia di Hoover non era certo estranea alla “caccia alle streghe” avviata dal senatore repubblicano McCarthy alla fine della guerra.
La presenza a Hollywood di decine di artisti ed intellettuali rifugiati o semplicemente espatriati dalla Mitteleuropa, contribuiva infine a dare un rilievo particolare alle vicende europee, oltre a lasciare un’impronta artistica estremamente importante sulla produzione cinematografica (vedi il trionfo dello stile “Noir”).


Tutti questi elementi sono estremamente importanti se si vuole analizzare compiutamente il film in esame. In effetti, poi, noteremo che, a differenza di altri film, non ci sono particolari tirate patriottiche (se si esclude qualche espressione di Diamond). L’annuncio alla radio dell’entrata in guerra non suscita particolari reazioni.
Ella : Venite [a tavola]!
John : Guerra… ma siamo in guerra!
Ella : Sì caro, ma adesso andiamo a tavola che si fredda
John : Siamo in guerra, ha detto che siamo in guerra!
Ella : Sì, lo so, ma adesso andiamo a mangiare che è in tavola
Loretta (la bimba): E tu vai a fare il soldato, Al?
Schmid : Preferisco sparare ai fagiani
Il ruolo di Diamone (Dane Clark), il compagno d’armi di Schmid, è quello del motivatore. Il significato, il perché, la giustificazione della guerra devono essere manifestati o attraverso immagini che da sole la giustificano (come fa Howard Hawks, per esempio, così poco incline ai discorsi edificanti) oppure attraverso un personaggio che motivi il protagonista ad entrare in guerra. Nel film in questione, il cambiamento di Schmid da cittadino disinteressato alla guerra a volontario nei marines è un po’ troppo frettoloso (ma forse la copia di cui sono in possesso è incompleta) ed è questo un punto debole. Non c’è infatti la figura del motivatore e non ci sono ancora situazioni che giustifichino questo cambiamento quasi repentino. Addirittura nel corso della stessa serata, Schmid prima dice che si diverte di più a sparare ai fagiani dopo aver detto di aver conosciuto dei giapponesi che non gli sembravano poi così tremendi. Poi al momento di tornare a casa, si confida con Ruth e dice : “Sai, forse mi diverto di più a sparare ai giapponesi”. Come si è detto all’inizio, il passo decisivo per arruolarsi è causato da un compagno di lavoro di Schmid, il quale mostra orgoglioso il foglio dell’arruolamento nei Marines.
Il motivatore, curiosamente, viene utilizzato non per spingere Al Schmid ad arruolarsi, ma per convincerlo ad avere fiducia in se stesso e nella società. C’è insomma un rilievo maggiore dato non tanto all’arruolamento quanto al reinserimento.
A questo proposito, nella versione italiana era stata tagliata una sequenza girata nell’ospedale in cui Schmid si trova per riprendersi dalle ferite e tentare un intervento per recuperare la vista. Alcuni commilitoni manifestano rabbia ed amarezza perché si rendono conto che il loro reinserimento non sarà agevole e cominciano a prendersela un po’ con tutti.
Ad un certo punto, uno di loro accusa i messicani di prendere i loro posti e se la prendono con le istituzioni per non facilitare la ricerca di un lavoro.
Dane Clark, il motivatore, si lascia andare ad una tirata retorica ma usa una parola che è un po’ la chiave di tutta la situazione e cioè la solidarietà. “Perché non fare in modo che ci sia una medesima solidarietà sia in pace sia in guerra?”.
Non vengono usate parole come patria, dovere, sacrificio: viene usata la parola solidarietà che sta per fratellanza, equità, condivisione. Per agevolare il reinserimento, non serve predicare e pronunciare parole che suonano a presa in giro. Uno dei commilitoni all’ospedale dichiara di provare più paura ad inserirsi ora di quanta ne ha provata a Guadalcanal.


Se certe parole non convincono più, è perché dietro ad esse ci sono valori tradizionali che hanno perduto definitivamente la loro carica morale: suonano come vuote. Per costruire una società diversa serve ora solidarietà, condivisione, impegno sociale. Ma a smuovere definitivamente Al sarà l’accusa che Ruth gli rivolge e cioè quella di essere un egoista e di pensare solo al proprio orgoglio e al proprio autocompatimento.
Questa guerra va combattuta non solo per sconfiggere il fascismo, ma per rifondare una società diversa, non egoista, ma solidale.
Dietro a questo messaggio c’è una tensione sociale ed ideologica che vorrebbe sgretolare le fondamenta del sistema americano fondate sull’individualismo, sulla competizione sfrenata, sull’arricchimento come base per il successo.


Come si vede, si tratta di posizioni che presto avrebbero destato i sospetti dell’HUAAC e dell’FBI. Le avrebbero definite posizioni ed attività non americane. E sarebbero poi sfociate in uno dei periodi più bui della recente storia degli Stati Uniti.
Non esiste, almeno a tutt’oggi, una copia né in VHS né in DVD di questo film. Alla copia in mio possesso è stata reintegrata la parte originariamente tagliata in modo grossolano e stupido. E’ stata trasmessa anni fa da Telemontecarlo e da allora non mi pare di averla più vista in programmazione. La parte reintegrata non è però doppiata e neanche sottotitolata. Viene fatto un riassunto schematico e povero dei dialoghi tramite una voce fuori campo. Un vero delitto. Spero che presto si ponga rimedio.

C’è sempre un domani (The Pride of the Marines) 1945  Delmer Daves

 

 

 

Calvario

ESSERE PRETE ORA
Un prete adesso. Che cosa ci fa un prete nel mondo attuale? Ha ancora senso il suo ruolo in un mondo ormai scristianizzato che sembra aver perduto il senso religioso, la fede?
E la fede che cos’è oggi? Ha lo stesso significato di un tempo oppure è qualcosa di diverso, qualcosa che è andato modificandosi con il passo del tempo, con l’evoluzione dei costumi, del valore stesso di religione?
E il peccato? Che cos’è oggi il peccato? Ha ancora valore la distinzione fra peccato mortale e peccato veniale, quando ci si interroga ormai se esista o debba esistere il valore del peccato?
E la virtù? A un certo punto, verso la fine del film, in un colloquio telefonico con sua figlia e ormai prossimo all’estremo sacrificio, padre James fa una riflessione a questo proposito:”Si parla fin troppo di peccati e non si parla abbastanza di virtù” “E qual è una virtù?”chiese la figlia “Il valore del perdono è ancora troppo sottovalutato”.
Già, il perdono. Quella cosa, cioè, che non viene presa in considerazione e che, invece, conserva ancora intatta la sua carica rivoluzionaria. Una virtù cioè che richiede doti di umiltà e di apertura verso l’altro non comuni e che per questo motivo viene scarsamente praticata.

Certo, nella cittadina in cui Padre James, il protagonista, svolge a fatica la sua missione, sembrano tutti buoni cristiani quando sono in chiesa e fanno la comunione (come sembra suggerire l’inizio del film). Poi capisci che è tutto molto più complicato.
Egli stesso, Padre James, è complicato. Per la sua storia, ad esempio. Prima di farsi prete, è stato sposato ed ha avuto una figlia. Morta la moglie, nonostante sua figlia avesse, com’è ovvio, bisogno di lui, ha indossato l’abito talare. Ma immaginiamo quanto sia profonda la lacerazione fra i suoi doveri di padre e la sua nuova vita di prete: una lacerazione che è tormento e che lo accompagna perennemente.
La sua è una figura che oscilla continuamente fra il dovere di infondere speranza e vicinanza spirituale e materiale e le tentazioni di un carattere forte, poco incline ai compromessi e inquinato da un orgoglio che dura fatica a mortificare.

 

GLI INCONTRI E GLI SCONTRI
In effetti, nessuno dei suoi fedeli sembra vivere una coerente pratica religiosa né manifestare una convinzione particolare; in più, nutre verso il parroco una certa qual insofferenza, causata dal fastidio con cui il sacerdote “s’intromette” nei loro affari quotidiani, nella convinzione di comodo che il prete debba fare il prete all’interno della sua chiesa e basta.
Da qui la crescente incomprensione fra lui e i parrocchiani. Com’è suo dovere, il prete inizia una serie di incontri individuali, in parte spontanei e in parte richiesti, con i fedeli.
Come nella Via Crucis, ogni incontro è una stazione che porterà poi al Calvario e cioè alla morte. Egli ha già ricevuto, all’inizio del film, in confessionale, una minaccia di morte con una data ben stabilita. Da quel momento, inizia per Padre James il cammino verso l’estremo sacrificio. Ogni incontro è quasi sempre uno scontro: con l’immigrato che lo invita a farsi gli affari suoi quando Padre James lo invita a non commettere adulterio con una donna sposata; con il medico che lo provoca irridendolo, con il prostituto maschio che si rivolge a lui con frasi indecenti, con il ricco padrone di un castello che piscia davanti a lui su un quadro di valore; con l’anziano scrittore che lo rispetta ma che non ne condivide le certezze; con la figlia cui chiede perdono; con il barista che a muso duro gli dice che il suo tempo è finito e che non conta più nulla e, alla fine, con il macellaio che sarà poi il suo boia e che lo farà diventare vittima sacrificale innocente per tutta la serie di orribili atti di pedofilia di cui i preti si sono macchiati.

LA TENTAZIONE DELLA FUGA
In questa Via Crucis, Padre James viene quindi schernito, provocato, minacciato e alla fine ucciso. Una sola volta sembra perdere il controllo ed è quando al bar viene pesantemente insultato. Ha bevuto qualche bicchiere di più e non riesce più a contenersi quando l’immigrato lo rimprovera chiedendogli maggiore umiltà e il gestore del bar gli fa capire che ormai è una persona fuori posto e che non conta più nulla. Estrae la pistola e spara a qualche bottiglia. Perde soprattutto il controllo quando il suo vicario, tipico ed odioso rappresentante di una Chiesa ipocrita e saldamente ancorata a potere e beni materiali, gli chiede meravigliato come un buddista (il barista) possa averlo picchiato.
La rabbia di Padre James (interpretato alla grande da Bernie Gleeson) scoppia soprattutto davanti ai rappresentanti della Chiesa che dovrebbero dare esempio di virtù e che invece mostrano di essere più lontani da Dio rispetto agli altri.
Come nella Passione (Signore, se Tu vuoi, allontana da me questo calice”Gesù mormora sul monte degli Ulivi), anche il protagonista è tentato di mollare tutto. Prenota un volo per Dublino, ma, al momento di salire sull’aereo, nota che una bara sta per essere caricata sul velivolo. E’ la salma di un uomo che è morto in un incidente stradale. Sua moglie sta per imbarcarsi sullo stesso aereo: Padre James è stato colpito dalla forza interiore con cui la donna ha affrontato questa prova. La accetta perché così è successo e basta. Ma la sua fede non ha vacillato. La lezione è chiara: non si fugge, non ci si può sottrarre alla propria missione. E ritorna alla sua parrocchia, che è stata fra l’altro bruciata dallo stesso che ha deciso di ucciderlo.
Ucciderlo. Uccidere lui, un prete innocente come espiazione per tutte le vittime innocenti della pedofilia attuata da tanti preti cattolici.
L’assassino è in realtà una vittima di queste azioni vergognose. Non è riuscito a liberarsene. Il tempo non ha cancellato nulla. Quegli episodi hanno lavorato nel suo cervello, hanno condizionato la sua vita, la sua sessualità, le sue scelte, le sue relazioni. Invece di attenuarsi col tempo, la sua rabbia è andata montando, fino a diventare un macigno. Nella mente di quest’uomo cresce la convinzione che solo un atto altrettanto blasfemo possa pareggiare il danno che ha subito. Uccidere un sacerdote innocente e capace.

 

 

PERCHE’ MI HAI CHIAMATO?
A un certo momento, chiamato da un pluriomicida, suo ex-allievo, ora recluso, di fronte ai segnali di poca contrizione che il detenuto dimostra, gli chiede:”Perché mi hai chiamato?”
Già, potrebbe essere anche la domanda che il sacerdote potrebbe rivolgere a Dio stesso:”Perché mi hai chiamato?”. Sbattuto in un luogo semi-ostile, con il rimorso di aver abbandonato una figlia (che tenterà poi il suicidio) per rispondere alla chiamata, con l’intima sensazione che forse la sua missione si è rivelata un completo fallimento, Padre James si rivolge “in extremis” a Dio stesso, quasi rimproverandoLo di avergli chiesto un sacrificio superiore alle sue forze.
Padre James accetta questa prova. Fuggire non lo porterebbe a nulla. L’assassino ucciderebbe un altro. “Sei ancora in tempo” trova il coraggio di dirgli, anche quando gli ha sparato un primo colpo. “Recita le tue preghiere” gli intima l’assassino “Le ho già dette”. “Le ho già dette”: una frase che è un aforisma, un modo di vivere, una scelta eroica ma coerente con il suo ruolo e la sua missione.
Paradossalmente, il sacerdote trova la risposta nel massimo momento di crisi. Lasciarsi uccidere significa chiudere un cerchio di violenza ed impedire che la sua fuga porti ad altra violenza.

Il film si fa apprezzare soprattutto per i contenuti, per un’insolita profondità di temi e riflessioni, per l’ambigua (volutamente)rappresentazione della figura del protagonista, per la tensione che accompagna il film per tutta la sua durata.
Non ci sono compiacimenti formalistici, cadute didascaliche o pesantezze moralistiche. E’ un film che va diritto allo scopo e richiede una certa autoanalisi (o esame di coscienza, che si creda o no).

Calvario (Calvary) (2013) John Michael McDonagh

 

Batman begins

Quando una persona, che da ragazzo amava leggere i fumetti, diventa adulta, il suo rapporto con essi spesso si modifica. Se è diventata una persona colta ed istruita, nutre verso di essi un sentimento di nostalgia ma non c’è più la curiosità, la passione di un tempo. Se poi il soggetto è un regista di spessore e di qualità come Christopher Nolan, l’amore di un tempo per i fumetti diventa ispirazione per trarre da essi un’opera che soddisfi i palati fini e i sogni adolescenziali della fascia teen ager che si alimenta della fantasia sfrenata tipica di quel sotto-genere letterario.visivo.
Riuscire a realizzare un ottimo film da un fumetto è un’impresa che richiede talento e Nolan, riconosciamolo, talento ne ha.
L’idea sua era quella di realizzare un’opera di impegno partendo da un soggetto tipico del disimpegno, com’è appunto il genere fumettistico.
La base su cui Nolan parte è quella di restituire realismo, innestando elementi di lirismo, di credibilità, di verosimiglianza su un materiale assolutamente avulso da ogni forma di realismo ma capace di immaginazione visionaria deduttiva e straordinaria.
Per riuscirci, Nolan si è ricordato della prima parte di SUPERMAN di Richard Donner (forse la migliore del film) in cui si narrano gli anni della giovinezza del supereroe. Grazie a quella trovata, è più facile accettare la doppia identità (Clark Kent e sua).
Conoscere l’infanzia dell’eroe aiuta a comprendere i motivi reali che sono alla base di (supposti) superpoteri soprannaturali.
La figura del padre, vera guida morale delle sua azioni, la terribile esperienza della sua morte, quella della caduta nel pozzo infestato dai pipistrelli sono gli elementi che indirizzeranno il suo futuro.
Accanto a questo, si forniscono la spiegazione dei suoi superpoteri (attraverso prototipi rimasti tali realizzati dalla società del padre)e l’addestramento maniacale all’uso della forza solo quando è necessaria.
A questo punto, tutto è pronto per il ritorno di Bruce Wayne a Gotham. L’ultimo elemento necessario per creare Batman è il significato del simbolo. L’uomo, come l’esperienza di Gotham insegna, è fallibile e corruttibile. La gente ha bisogno di simboli, che sono segni superumani, per credere in loro.
Si profila qui allora un interessante interrogativo che può avere implicazioni filosofiche interessanti.
Nella nostra società malata (metafora della quale è Gotham) l’umanità, per salvarsi, ha bisogno di simboli? E qual è il simbolo oggi? Dio, forse? Gesù Cristo non era anche uomo? La simbologia religiosa non è forse qualcosa che è al di sopra dell’umana comprensione, come ad esempio la Trinità, i dogmi ecc.?
Oppure quale può essere un altro simbolo? Forse lo sono i segni che la nostra debole e fallibile umanità crea rendendoli (o meglio, cercando di renderli) totem indistruttibili, come il potere del denaro, il potere per il potere, il Male che viene spacciato per misura  del Bene?
Da ultimo, l’infantile (spesso)e fumettistico contrasto Male-Bene assume qui la cupa previsione di un inesorabile trionfo del Male, reso possibile dall’apatia ed indifferenza dell’aumanità.
Quest’apatia potrebbe forse essere messa in relazione con la soddisfazione di bisogni materiali ed effimeri ottenuta dietro una cessione di quote sempre maggiori di libertà individuali ma soprattutto sociali e politiche.
A sorreggere questi progetti ambiziosi (forse addirittura oltre le capacità di Nolan)interviene una sceneggiatura impeccabile, un’ottima colonna sonora ed effetti speciali in “Live”, rinunciando alla tecnologia digitale grafica computerizzata, molto meno costosa.
Alla fine, il risultato accontenta i teen agers, forse il vero pubblico cui il film si rivolge, ma anche platee più smaliziate.
Christian Bale e Michael Caine rappresentano un ulteriore spessore qualitativo.

Batman begins (2005) Christopher Nolan

 

Boomerang l’arma che uccide

 

Molti, tra coloro che amano il cinema, sanno chi è Elia Kazan. Molti di meno, probabilmente, conoscono Louis de Rochemont. Eppure il cinema gli deve molto. I cinegiornali, ad esempio, che tutti noi con i capelli grigi abbiamo visto nelle sale prima dell’inizio del film, sono stati rivoluzionati da questo signore i cui antenati, ugonotti, si erano trasferiti negli Stati Uniti nel 18° secolo.
In effetti, aveva inserito, nei suoi cinegiornali, prima solo notizie annunciate, filmati (battaglie, interviste ecc.). Questa sua ossessione per il maggior realismo possibile, aveva condizionato le produzioni di lungometraggi. In effetti, con il beneplacito di Darryl Zanuck, boss della 20th Century Fox, film come LA CASA DELLA 92° Strada (di H.Hathaway), 1945 o IL TREDICI NON RISPONDE (stesso regista),1947, sono una sorta di film-documentario in cui, come si annuncia all’inizio del film, i fatti narrati si sono svolti nei luoghi reali. Questa passione per l’autenticità (per quel che un film può consentire)può forse spiegarsi con il diverso clima sociale degli anni ’40. La guerra, l’arrivo a Hollywood di molti artisti immigrati dall’Europa, una nuova sensibilità sociale che cominciava a chiedere qualcosa di diverso dalle troppe insulse commediole e dai tradizionali drammi con scontato “happy end”. Si spiega così, ma solo in parte, l’affacciarsi del film noir, ad esempio. Ma è sicuramente questa nuova sensibilità che facilita l’uso del docu-film stile De Rochemont e altre produzioni di altre case cinematografiche (Es.: LA CITTA’ NUDA, di Jules Dassin,1948, della Universal).
Il film in esame è una dimostrazione di tutto questo. Il delitto di un prete, avvenuto nel 1924, a Bridgeport nel Connecticut e i fatti che ne conseguirono furono ripresi in un articolo apparso sul Reader’s Digest nel 1947 ad opera di Fulton Oursler (che si firmava anche Anthony Abbott).
De Rochemont pensò che poteva essere un’occasione per produrre un buon film, secondo i suoi criteri. Chiamò Elia Kazan, un giovane e promettente regista che si era messo in luce due anni prima con UN ALBERO CRESCE A BROOKLYN, lodato dalla critica e dal pubblico, vincitore di un Oscar (per il migliore attore non protagonista e di una nomination per la miglior sceneggiatura non originale) e affida lo script a un giovane sconosciuto, il cui lavoro però gli valse la nomination per la miglior sceneggiatura.
Elia Kazan, di origine turca (era nato a Costantinopoli, ma aveva lasciato la sua terra per gli Stati Uniti all’età di 4 anni),a metà degli anni ’40 era stato chiamato da Hollywood, impressionata dai suoi successi teatrali. Era di idee progressiste (aveva militato tra il 1934 e il 1936 nel Partito Comunista da cui si era distaccato per forti contrasti con la linea politica). Questa sua predilezione per i film di impegno civile è evidente in film come FRONTE DEL PORTO, BARRIERA INVISIBILE ecc.) Ma, anche nel film in esame è chiaro il suo orientamento progressista. La storia è quella di un’intera città che vuole a tutti i costi un colpevole per l’omicidio proditorio di un prete e quella di un procuratore distrettuale che, nonostante enormi pressioni, riesce a convincere il presidente del tribunale e tutti dell’innocenza dell’accusato.
Il film sarebbe dovuto essere girato a Bridgeport, nei luoghi dei fatti reali, ma autorità e popolazione di quel paese non lo permisero e si dovette scegliere un’altra cittadina dello stesso stato e cioè Stamford.
La tecnica del docu-film è evidente nell’inserimento di una voce fuori campo che introduce la storia, nell’uso di attori non professionisti e nel mostrare solo al pubblico l’identità del vero assassino (che non verrà mai indagato, anche perché perderà la vita in un incidente poco dopo).
Il senso di questo film sta nell’integrità professionale, oltre che morale, del protagonista, procuratore distrettuale (State’s Attorney per il Connecticut, (quindi pubblico ministero), (interpretato da Dana Andrews, allora un attore al culmine della carriera) che, nonostante le pressioni ambientali, le prospettive di carriera politica, le minacce di politici corrotti, sceglie di indagare in modo scrupoloso, fino a dimostrare con prove inoppugnabili l’innocenza dell’accusato e quindi il non luogo a procedere.
Il film è strutturato in modo che la conclusione non debba essere vista come l’inevitabile trionfo della giustizia (cosa che lo avrebbe reso molto meno interessante), ma come sia forte e, spesso, insostenibile la pressione di elementi esterni che nulla hanno a che vedere con un processo. Ci si sofferma allora sull’inattendibilità dei testimoni oculari, sul superiore interesse politico rispetto a un caso giudiziario che veda uno sconosciuto sul banco degli imputati, sui pregiudizi della gente. Lungi dal rassicurare il pubblico sulla bontà del sistema giudiziario americano, il film semina molti dubbi che alla fine lasciano il pubblico con l’amaro in bocca. Se non era per un procuratore oltremodo onesto, si sarebbe processato (e probabilmente condannato) un innocente.
Il film è anche un atto d’accusa per alcuni metodi della polizia come ad esempio il tipo d’interrogatorio cui è sottoposto l’imputato (interpretato da Arthur Kennedy). Egli viene interrogato senza pause, non gli è permesso prender sonno e, alla fine, stravolto, farfuglia qualcosa che viene considerata come un’ammissione di colpevolezza. Il film, comunque, non è esente da alcune forzature, come ad esempio la teatralità della scena in cui, nell’aula del tribunale, si fa puntare alla nuca la pistola trovata addosso all’imputato e il cui calibro corrispondeva al proiettile che aveva ucciso il prete. Non c’era evidentemente bisogno di farsi puntare la pistola al capo e premere il grilletto per dimostrare che quella pistola non poteva sparare. Ma evidentemente l’effetto sarebbe stato straordinariamente più forte.
L’anno d’uscita del film (1947) è anche quello di nascita del celeberrimo Actor’s Studio, diretto dallo stesso Kazan e da Lee Strasberg. Il tormento del protagonista, lacerato dalla scelta fra una luminosa carriera e la ricerca della verità, anche se scomoda, viene reso abbastanza bene da Dana Andrews, ma siamo entro i parametri di una buona recitazione. Siamo evidentemente lontani anni luce dalla memorabile interpretazione di Marlon Brando, allievo dell’Actor’s Studio in UN TRAM CHE SI CHIAMA DESIDERIO,1951 (dello stesso Kazan).
Il cast si avvale di ottimi attori come Lee J.Cobb (il capo della polizia), Ed Begley(il politicante corrotto) e Arthur Kennedy (l’imputato), ma l’aspetto più importante del film è senz’altro la struttura narrativa diversa dai classici film (almeno fino ad allora) di “omicidio e processo”. Non c’è un vero e proprio processo, non c’è un vero e proprio pubblico accusatore, non si arriva al vero colpevole: al pubblico in sala è dato conoscerne l’identità, ma non alla polizia.
Per finire: il titolo. Non c’è traccia di boomerang. In effetti, si tratta di un’immagine figurata. L’arma che doveva incolpare l’accusato si rivela, paradossalmente, la prova che lo scagiona.
Il film è disponibile in DVD, in inglese e in italiano, come i sottotitoli. Il commento al film dei critici Alan Silver e James Urini è però solo in inglese. Un peccato.